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Adamo Bencivenga
Sei tu che mi fiacchi le gambe






Photo David Ben haïm
 


Sei tu che mi fiacchi le gambe e mi nutri la fica, e mi lasci sospesa a pensare che se tu non ci fossi, non sarei bucata qui in mezzo, tra queste gambe che slargo e cospargo, perché tu non possa trovare mai attrito, perché l’amore che ora mi sfianca abbia la forma di cui ho bisogno. Sei tu che mi spezzi il respiro e mi stringi la gola, fino a zittirmi parole che riduci a vapore, e mi rintani la voglia e mi fai sentire ripiena, non appena mi sfiori, e la mia bocca si schiude, come un cannolo che mordi e trasborda di crema. E’ nuda e non la copro di nulla! Perché non sia mai che io possa incauta sbarrarti la strada, dentro qualsiasi ora tu la sorprenda, dentro qualsiasi posto ti salga la voglia, e muto la prendi perché si convinca, che il possesso che voglio non si chiede a parole. Ringrazio il cielo per avermela fatta più bella, di quell’altra rosa che cogli e ne fai paragone, di quell’altra conchiglia dove poggi l’orecchio, ed invano ne ascolti i flutti di mare.

Sei dietro di me e t’imploro di strapparmi i capelli, di farmi capire quanto dolore può sopportare il mio ventre, quanta donna c’è dentro quest’anima sciatta, che a carponi lecca la terra e mastica erba. Fammi davvero sentire il pianto d’un bimbo, che affiora innocente da questo strazio di carne, laddove il mio sogno mi conduce ogni notte, dove vado cercando il contrario di tutto, di questa voragine come un crepaccio scosceso, che mi plagia la mente a non essere altro, che faccia che mani che tu dici di donna, ma indietro ricevi solo eco e rimbombo. Ti prego non farmi domande! Dimmi che il niente è la bellezza che cerchi, che il vuoto che chiedi lo trovi qui dentro, ma non cercare risposte tra queste mie pieghe, che si fanno capienti senza avere il pretesto, di fingere amore quando non esiste ragione. Perché non servi per nutrire il mio cuore, non servo per baciarti le labbra, perché mai e poi mai ne conoscerò il sapore, se m’assale la voglia quando abbaio alla luna, se m’aggrappo alla terra e m’imbratto la faccia.

Dimmi solo che non valgo poi nulla, quanto un semplice buco che incontri per strada, che se solo volessi lo troveresti al di là della siepe, sotto qualsiasi gonna che leggera svolazza, e s’asciuga le voglie al vento che filtra, al primo chiunque ha deciso stasera, di farsi una donna e farsela tutta. Voglio sentirtelo dire perché di null’altro ho bisogno! Nulla ti chiedo che non abbia il risucchio, lo strascico lento d’una risacca, che non è acqua né mare, ma solo il secreto di donna che t’accoglie già pronta. Scopami l’illusione fino a scardinarmi l’incanto, che domani potrei avere una faccia per avere rispetto, o un sentimento qualunque per sentirmi più persa, per lasciarmi montare guardando la luna. No, oddio, se fosse così, avrei vissuto per niente, non avrei capito che l’uomo è fatto solo di sesso, che negli occhi che guarda non ci vede gli abissi, e le parole che dice riempiono il tempo, che manca all’attesa per sentirsi più maschio, per nutrire l’orgoglio quando spalanco le gambe.

Amore! Ma che dico? Che stronza parola mi infarcisce la bocca, e m’illude le vene per il solo motivo, di sentire la brama che avida penetra, che ghiotta di voglia ingorda trattengo. Amore! Ma che dico? Giurami che questa passione rimanga qui intatta, e non passerà mai la siepe perché la voglio segreta, impregnata d’odori di foglie e di muffa, senza vedere la luce e i colori dell’alba, che rischiara il mistero e ne assopisce la forza, che ora frantuma la timida larva, di senno che incerta s’annida alla carne. Giurami che mai mi chiederai cosa faccio, quando da sola cammino per strada, se ho un marito e dei figli che m’aspettano a casa. Giurami che mai mi seguirai per sapere chi sono, lungo questa città che cancella le orme, dei miei tacchi che ora t’offro e ti dono, che tra poco mi ridanno il contegno, la decenza che fingo fatti appena due passi.

Dimmi che mai nessuno potrà riconoscermi, come ora da gatta struscio a bocconi, e schiudo le labbra per essere pronta, al cucchiaio di miele colmo che cola, come un bidone che fa incetta di pioggia. Confrontami con chi ora culla il suo bimbo, seduta in panchina e conta i minuti, ed accarezza suo figlio per la prossima pappa. Fammi sentire che non sei come gli altri, che non cerchi parole per ridarmi un senso, per convincermi che sono diversa da quello che faccio. Perché sono esattamente quella che vedi, una gatta in calore che offre lividi invece di latte, che a carponi t’aspetta e mastica erba, e struscia per terra il decoro e la faccia, per illudersi che c’è ancora misura, metri che affondi fino all’essenza, fino a quella coscienza che se solo sfiorassi, potrei giurare d’averla davvero.

Ti prego non avere rispetto di chi nuda e in ginocchio, ti giudica soltanto perché la scopi per bene, di chi t’ha scelto perché le fai credere ancora, d’avere l’anima in mezzo le cosce, fino a che queste labbra si ricompongano ad arte, e baceranno la fronte dei miei nipotini, e diranno tesoro a chi mi aspetta in poltrona, baciandomi i seni che crede esclusivi. Nulla davvero sarebbe servito se ora per caso, dovessi voltarmi per chiedere amore, per cogliere quanto mare s’agita dentro i tuoi occhi, e scoprire che l’amore che sento non mi fotte soltanto. Perché di cos’altro potrei aver bisogno? Quando attraverso queste gocce sul vetro, filtra il mondo al tramonto di fuori, quando una voce straniera premurosa mi dice, “Signora perdoni, è pronta la cena”, quando davvero solo a pensarti, mi fiacchi le gambe e mi nutri la fica.






 





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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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