Camminavo in equilibrio sopra il filo dei
pensieri, rassegnata m’allontanavo dalle tante speranze che oramai
strascicate mi pareva calpestare, come ombre sotto i piedi, come foglie
sotto i tacchi. M’allontanavo da quell’incrocio di strade, dove un pino
storto ed insecchito faceva da spartitraffico, dove una pioggia d’aghi e
di resina appiccicava i minuti, fermando il tempo nell’istante dove il
prima e il dopo non avevano ancora un taglio netto, dove un frullatore nel
cervello non distingueva i pensieri dai ricordi.
Arrancavo come se un
elastico mi risbattesse indietro al punto di partenza, come se uno sputo
contro il cielo tornasse gelido nella bocca. M’era crollato il mondo
addosso ed io ero crollata addosso al mondo, sballottata dallo scarno
rimbombo di parole, che non erano più d’amore, che penose annunciavano una
fine.
Avevo visto nei suoi occhi il freddo bianco del mattino, quando
senza più riparo ti penetra le ossa e ti lega cuore e carne come retina
per l’arrosto. Testarda non m’era bastato un messaggio al cellulare, che
per il modo e il mezzo era già più che sufficiente, ma ostinata avevo
voluto quell’incontro, una sorta di prolunga che mi lasciasse qualche
dubbio, qualche stupida incertezza per passare qualche notte.
M’ero
messa quanto di meglio avevo trovato nell’armadio, quanto di disponibile
c’era ancora nella mia testa, illusa che appena vista mi schiacciasse
contro il muro, mi sgualcisse gonna e labbra come aveva fatto altre volte.
Avrei desiderato un solo bacio, uno di quelli carichi di saliva, scambiata
tra le labbra tra passione e pentimenti, ma non ci toccammo che per
stringerci la mano, per dirci cose finte, vere solo in quei momenti,
quando cerchi un appiglio o quando il cielo nero nero copre quella che
credevi la tua stella.
Feci solo qualche passo e già mi sentivo
sprofondare, come se lavori in corso m’avessero risucchiata nelle viscere,
dove nessuno ascolta le tue grida, dove solo la tua voce ti ritorna
disperata. Solo due passi e mi sentivo senza fili, brutta e rifiutata per
chissà quale troia, che ora dietro l’angolo si sbatteva l’unica ragione,
la sola mia risorsa per passare indenne quei minuti.
Ancora un altro
passo e mi sentii chiamare con un nome sconosciuto, mi voltai come se
qualsiasi mugugno fosse stato da richiamo, come se uno starnuto fosse
stato la mia salvezza. Non vidi nessuno che mi sapesse di familiare e
dispiaciuta continuai incontro ad un domani con le ore sfilacciate, finché
un altro nome mi fece alzare ancora gli occhi tra quel poco di mascara che
non s’era perso nel dolore.
Era un uomo, ma non era il mio, mi
seguiva dal balcone con lo sguardo passo passo come un angelo senza ali,
come un faro nella notte. Lo rimproverai d’avermi trascurata, per sua
distrazione mi ritrovavo lì da sola. Non capì e mi chiese la ragione. Mi
sorpresi a pensare come un angelo possa avere altri lavori, possa essere
così impegnato da scordarsi il mio destino. Gli chiesi di farmi salire per
cambiare direzione, per sentirmi dire che ero ancora bella e mai da
quell’istante m’avrebbe lasciata più da sola.
Salii quelle scale
col desiderio di annullarmi, di disintegrarmi cuore e mente perché causa e
ragione del malessere che provavo. Volevo solo sfiancare i miei pensieri,
perché convinti che l’unico mio posto sarebbe stato su qualunque
precipizio affidando la mia vita e il suo contrario ad un’impercettibile
vertigine.
Giunta al primo piano m’accorsi che non vestiva di celeste
e i suoi capelli biondo cenere erano diventati quasi bianchi, ma aveva
grandi mani, capienti e protettive, che s’adagiarono sulle mie spalle
senza chiedere permesso. Non le chiesi nulla, perché nulla in quel momento
avevo desiderio di sapere, tranne d’essere trasportata sulle sue ali
invisibili, sulla sua voce che di colpo s’era addolcita per incanto.
Mi
disse quanto già sapevo, che i nostri destini s’erano incrociati perché
simili e contrari, come se la mia bocca imbronciata avesse esattamente la
forma del sue pene, o come le sue mani la forma del mio seno.
Entrai
come se già conoscessi quella casa, quei tappeti alla rinfusa che
m’avrebbero ospitata senza un attimo di sconcerto, quelle tende che
avrebbero coperto solo parte del bisogno di non essere da sola. Entrai
come se già sapesse che avevo urgenza di conforto, occorrenza di riempire
i vuoti di quelle ore, per arrivare alla prima alba senza sprofondare.
Non mi chiese quale dei tanti nomi fosse quello vero, ne scelse uno
adatto alla mia rughe incavate di rancori che correvano indipendenti
squarciandomi la fronte. Mi sbottonò con lo sguardo un fiacco residuo di
pudore, sicuro che avrei continuato senza bisogno d’altro invito. Così
feci e così avrei fatto davanti a qualsiasi uomo in quel momento, a
qualsiasi angelo o persona che m’avesse consentito di scalzare il mio
passato con qualsiasi presente.
Squillò il mio cellulare e non risposi,
squillò di nuovo e sfilai il reggiseno. M’avvicinai con un gesto naturale
cercando la sua bocca, come se un seno nudo avesse sempre bisogno del suo
ciuccio, d’essere inumidito prima che passione vera esploda incontrollata.
Ma rimase arido come aride le mie labbra s’accontentarono dell’aria, mossa
dalle sue dita che rimasero a distanza.
Risi, come quando non si
capisce il motivo, perché mai la sua mano si sostituisse alla mia saliva
che calda non avrebbe chiesto altro, che abbondante avrebbe fatto il suo
dovere.
Lo chiamai senza che ne conoscessi il nome, lo invitai
quasi goffa ed inesperta perché nuda e disponibile non mi era mai
successo, d’assistere al piacere rimanendone ai bordi. Lo pregai di non
andare oltre e fermare la sua mano, di non disperdere il suo fiume, a
goccia a goccia, sul tappeto, ma di trattenerlo fino a foce dentro il mare
che allargavo.
Mi ricordò sorridente che ero salita solo in cerca del
mio angelo, e per questo impalpabile, e per questo qualunque mia fessura
avrebbe accolto solo aria, profumo che solo il naso poteva avvertirne la
presenza. Cercai d’avvicinarmi strofinandomi sul tappeto, convinta che
quel gioco non sarebbe durato tanto a lungo, che quell’uomo a poco a poco
avrebbe diluito la mia passione, come acqua dentro un filo d’amarena, come
fumo dentro una bottiglia.
Lo invogliai a risalire la corrente
strofinandomi le dita, come se tra le mie cosce avesse trovato davvero
mare aperto o un fiume d’acqua dolce dove i salmoni depongono le uova.
Oramai a contatto col suo odore chiusi gli occhi all’attesa, certa di
sentirlo dove peluria diventa carne viva, dove nessun’altra medicina
sarebbe stata efficace per distruggermi il dolore.
Ero nuda davanti al
suo piacere che imperterrito lievitava facendo a meno del mio calore. Ero
nuda di fronte al suo giudizio, spoglia di ricordi che ti danno un
contegno, spoglia di mutande calate come lune, fino alle caviglie.
M’accarezzò dolcemente come un parente al capezzale, mi sfiorò i capelli
ben lontano dalla mia voglia, dall’ostinazione che oramai a carponi s’era
impossessata di qualsiasi buon senso. Mi baciò la fronte soffiandoci
parole, mi inumidì un seno arrivando ad un niente dal mio capezzolo, che
oramai, unica mia meta, mi sarei accontentata facendone tesoro.
Mi
disse che erano anni che non si congiungeva con una donna, che anche in
quel momento ne avrebbe fatto volentieri a meno, perché ogni volta dentro
un sesso c’era un dolore da estirpare, strazi che si annidavano in posti
irraggiungibili.
Perché dentro un buco da riempire facilmente, c’erano
solo negazioni dove altri ci avevano sguazzato lasciandoci inguaribili
ferite. Per troppo tempo s’era sentito solo un guaritore, di anime femmine
in sofferenza che s’aprivano all’istante come porte di saloon, come
finestre a temporale quando soffia e tira vento. Per anni come
sturalavandini, aveva liberato colli intasati da spasimi e da pene, per
anni come adesso, mentre fissava le mie cosce gonfie di piacere, le mie
vergogne sparse sul tappeto ammonticchiato.
In un attimo mi sentii
più spoglia di un sesso rifiutato. Null’altro avrei potuto offrire, se non
una donna che si concede facilmente per tutti i motivi che m’aveva
rinfacciato, per tutti i rifiuti che erano rimasti a distanza. Null’altro
se non d’essere penetrata per arrivare senza sforzo al centro dei miei
pensieri, alla fonte del mio male dove s’incagliavano giorni inutili e
rabbie troppe vive. Null’altro avrei potuto scambiare con quell’uomo, che
ora estraneo s’avvicinava sfiorandomi le labbra. S’avvicinava facendomi
sentire l’odore del suo sesso, chiedendomi ragioni e sperando che per
questa volta non fosse solo pompa di drenaggio. M’alzai raccogliendo i
miei vestiti, domandandomi a cosa mai possa servire un uomo a cui ti
concedi facilmente.
Lo fissai negli occhi abbozzando un cenno di
comprensione, mentre le parole mi riempivano la bocca. Ne uscì solo aria
mista a convinzione che dentro quella stanza non c’era altro motivo, altra
ragione perché una donna senza amore possa concedersi così in fretta.
“Perché mai?” Dissi solamente, coprendomi alla buona le voglie ancora
intatte che avrebbero fatto a meno di qualsiasi risposta. “Perché mai?”
FINE