La luce in penombra della lampada sul comodino
creava un alone surreale tutt’intorno, i miei capelli incandescenti
cambiarono più volte colore e la mascella stretta ed immobile rimase ferma
nella decisione. Gli zigomi alti e pronunciati, le sopracciglia folte e
nere, l’ombretto grigio dilatato fino al bianco delle orecchie incavavano
gli occhi desiderosi solo di piacere. Sbottonai la camicetta bianca fino
al punto del non ritorno, l’incavo profondo del seno accolse materno un
piccolo ciondolo di turchese appeso ad una fragile catenina d’oro. Ero
bella. Per la prima volta mi sentivo padrona di me stessa e capace
finalmente di comunicare attraverso il mio corpo le mie infinite
sfaccettature finora celate e represse dalla mancanza di sicurezza.
Indugiai ancora qualche minuto davanti allo specchio, cercai ancora
qualche conferma ringraziando quell’uomo che senza nessuno sforzo aveva
tirato fuori quella parte di me chiusa per vergogna e pudore in chissà
quale zona del mio cervello.
Non contenta del risultato ricominciai
daccapo. Calcai la matita, rifeci il contorno delle labbra sbordando di
una manciata di millimetri il suo margine naturale. Oramai decisa a tutto
andai oltre e lasciandomi alle spalle le ultime appiccicose incertezze
sbollai un paio di calze indossandole lentamente in modo da ritardare
l’effetto sui miei occhi curiosi. Davanti allo specchio, centimetro dopo
centimetro, vidi la mia gamba bianca velarsi di nero e di malizia e mano
mano che la coprivo scoprivo l’altra Eva, quella del sogno ricorrente e
rassomigliante come una goccia d’acqua a quella che avrei volevo essere.
Mi sorpresi a guardarmi con gli occhi di un uomo e ad eccitarmi ripetendo
più volte la scena, calcavo le mosse atteggiandomi da viale alberato che
odora di tigli e sesso e tette esagerate. Lungo le smagliature che il
tempo aveva solcato mi ritrovavo a confrontarmi con donne volgari, ma con
le quali il mio uomo, per il gusto del proibito, mi avrebbe senz’altro
tradito.
Da lì a poco avrebbe bussato e preteso, e senza
pronunciare una parola avrebbe reclamato ciò che tutte e due ritenevamo di
sua proprietà. E puntualmente, come un lampo dopo un tuono, avremmo fatto
l’amore magari distesi lungo la fragile consapevolezza di non essere
all’altezza o in piedi appoggiati in qualsiasi angolo protettivo della
casa. Tossica d’amore non chiedevo altro, non reclamavo educazione e
rispetto o frasi spezzate che prolungassero l’attesa e ritardassero il
piacere, chiedevo semplicemente un uomo che mi appagasse ancora prima
d’avermi salutata, che mi placasse quella voglia irrefrenabile che saliva
a dismisura dilatando l’iride e il ventre. E come ogni sera, avrei ceduto
diluendo orgoglio e coscienza come il rossetto che misto a saliva colava
sulla mia mano quando afferrava il piacere. Avrebbe preteso controvoglia
quello che già gli stavo offrendo e, come al solito, puntualmente sarebbe
scomparso nelle sue fantasie lungo la notte su quei viali alberati alla
ricerca di quello che non riuscivo a capire e che, per questo, non ero in
grado di dare.
Ma mi sbagliavo. Quella sera mio marito entrò in
casa con un ghigno diverso, e indovinando le mie premure che stipate come
in un collo di bottiglia non attendevano altro che essere liberate. Lui
fece di più! Mi porse come se fosse la cosa più naturale del mondo un
reggicalze nero sgualcito pregandomi di indossarlo. Non era nuovo. Lo
aveva tirato fuori dalla tasca del giaccone senza nemmeno un cellophane di
scusa, ma non feci domande. Sorpresa tentai invano di agganciare i
gancetti delle stringhe al bordo merlettato della calza. Era la prima
volta. Le sue dita esperte mi vennero in aiuto togliendomi dall’evidente
imbarazzo.
Vidi in un attimo i suoi occhi brillare, m’inorgoglii
pensando all’effetto delle mie gambe, ma lui era già oltre. Catturò l’idea
sul nascere e la realizzò senza pensarci. Mi trascinò davanti allo
specchio e diede l’ultimo tocco d’intrigante magia. Alzò la gonnellina
nera a pieghe di qualche centimetro in modo da far intravedere il bordo
della calza. Mi guardò ancora controllando i millimetri più scuri che
uscivano magicamente fuori, mi fece sedere sul letto e poi ancora in piedi
finché soddisfatto era già con la mente fuori da casa.
Davanti al
portone un taxi giallo ci aspettava col motore acceso. Aveva organizzato
ogni dettaglio ed io per la prima volta, pensai, stavo vivendo insieme a
lui un spicchio di realtà vera. Uscivamo fuori dal nostro guscio ed io mi
sentivo bellissima. Scivolammo per la città senza intoppi, il tassista
affondò l’acceleratore infischiandosene dei divieti. Eccitata e curiosa
ero decisa a tutto, pensai durante il tragitto che la meta fosse quel
viale alberato, su cui passeggiare. Ovvio senza poi andare oltre ma solo
per il gusto di mostrarmi e rendere più reali le nostre fantasie
ricorrenti.
Dario, mio marito, non staccò un attimo il suo sguardo
dal mio profilo. Nel buio della macchina sentii la sua mano secca e rugosa
risalire tra le mie gambe ed arrestarsi sulla mia voglia in attesa. Non
feci nessuna resistenza, nemmeno quando le sue dita ferme scostarono
leggermente le mie impalpabili mutandine di pizzo nero. Mi sentivo nuda,
tenni d’occhio per qualche istante lo specchietto retrovisore, ma niente,
il tassista continuava a guidare ascoltando una radio locale e non
accorgendosi di nulla. Alla fine, sotto i suoi colpi esperti e precisi
calai le palpebre abbandonandomi come in un grande letto a due piazze. I
bottoni della camicetta saltarono via via alla stessa velocità di un
lampo, sentii la sua bocca umida sul mio seno e, subito dopo, sopra le mie
labbra avide e oramai impresentabili. Non sapevo bene dove volesse
arrivare come del resto non ero più sicura dove ci stesse portando quel
taxi che non accennava a rallentare. Di colpo la macchina si fermò,
guardai fuori dal vetro, le luci viola di un’insegna misteriosa bloccarono
il mio piacere, e, come quando ci si sveglia di soprassalto interrompendo
un sogno, chiusi immediatamente gli occhi ostinata e convinta di
riprendere dal punto interrotto. Pregai Dario di farsi venire in mente un
altro locale dall’altra parte della città, mi aggrappai ad un suo attimo
d’indecisione, rimanemmo in silenzio per un intero secondo finché mi
rassegnai cercando invano nel buio dell’abitacolo la maniglia dello
sportello.
Completamente stordita arrancai traballante sui tacchi
di vernice nera finché Dario commosso dalla mia andatura mi corse in aiuto
prendendomi sottobraccio. Mi sentivo in disordine e impresentabile. Ancora
prima di entrare tentai di nuovo di convincerlo a tornare indietro. Cercai
d’impietosirlo attirando il suo sguardo sulla camicetta ormai sgualcita
fuori dalla gonna e sul viso tatuato di rossetto. Appena entrati nel
locale cercai di ripararmi dagli sguardi indiscreti degli altri clienti
dietro un paio di occhiali neri provocando l’effetto opposto.
Attraversammo le piccole sale tra file di occhi curiosi accompagnati da un
uomo che c’indicò cortese il tavolo prenotato. Dovetti rifare tutto il
percorso a ritroso per guadagnare la toilette.
Tornai al tavolo e
mi accorsi sorpresa che Dario non era solo. Un uomo di 50 anni abbondanti
occupava il posto vicino al mio. Anche se non lo avevo mai visto lo
riconobbi immediatamente! Era l’uomo delle nostre fantasie ricorrenti, il
compagno dei nostri giochi che ogni sera mi prendeva anima e corpo. Non
aveva un nome, ma entrava ed usciva come un amico di famiglia saziando
oltre il lecito i nostri capricci erotici. Avevamo fatto l’amore in
balcone e sopra il binario morto di una ferrovia, mi aveva presa nel bagno
della scuola quando avevo quattordici anni e sul piazzale di un autogrill,
ma mai in un locale così affollato di un comune sabato sera. Mi ricordo la
volta che lo facemmo durante il cenone di Capodanno. Mi ricordo che quella
volta fu sbrigativo e cafone, aveva fretta e non aspettò neanche
mezzanotte perché doveva correre da un’altra amante trascurando
l’inestimabile dono che gli avevo appena offerto. Insomma io e Dario
avevamo una fantasia molto fervida e le nostre storie diventavano sera
dopo sera sempre più ricche di particolari.
Ecco ora era lì
presente! E come nei nostri sogni non mi diede il tempo di avere vergogna,
di mostrare quel briciolo atavico d’imbarazzo che ci distingue e ci
identifica come donne. Mentre parlava del più e del meno con Dario,
sfacciato e deciso non perse tempo ed io sentii inconfondibile, la sua
mano esperta e per niente anonima infilarsi segreta sotto la mia gonna e
lungo le pieghe delle mie calze da signora. Il percorso fu breve ma
intenso, e tra gli elastici e i fiocchetti guadagnò l’obbiettivo con
estrema facilità. Incredibilmente era la stessa mano del sogno ed io
riconobbi immediatamente i calli e quel leggero tremore per guadagnarsi
l’entrata, lo sentii risalire la corrente fino alla sorgente del mio
bisogno, scavando solchi indelebili di vera impudenza sotto il tavolo.
Ovvio non chiese permesso e mai me lo sarei aspettato! Non accennò ad
un minimo di cortesia, anzi salì deciso verso la mia passione che
lievitata per ore non poteva trovare di meglio. Pensai quanto
quell’effusione di Dario sul taxi fosse stata sincera o solo un
preliminare per prepararmi a dovere. Cercai una posizione più comoda al
riparo della tovaglia e, per quell’imbarazzo di prima, dagli occhi di mio
marito. Cercai di agevolare la sua mano ma era troppo esperto per aver
bisogno di aiuto, sapeva cosa fare e come fare per spingere una donna
verso la via del non ritorno.
Dario continuava a parlare, ma
sapeva cosa stesse succedendo sotto quel tavolo, lo intuiva dal mio
sguardo, dal fatto che ancora non avevo detto mezza parola. Per me era una
cosa nuova, un desiderio finalmente realizzato ma non avevo previsto che
un attimo dopo, quasi per magia, le mie mutandine nere di pizzo
trasparente giacevano per incanto sopra la tovaglia gialla. Sorrisi
dall’imbarazzo, ma quell’impalpabile stoffa, quel simbolo decisamente
erotico adagiato tra due calici di vino rosso si caricava di un
inestimabile significato trasgressivo istigando ancora di più il mio,
nostro, insaziabile desiderio.
Ora era davvero al centro di quella
serata, e il mio intraprendete vicino di tavolo con studiata freddezza mi
sollevò la gonna arrotolandola fino ai fianchi, ero ormai praticamente
nuda con il solo e prezioso tovagliolo sopra le gambe che a qual punto
risultava essere l’ultimo baluardo del mio barcollante pudore. Dario
continuava a fissare la scena, godendo al pensarmi così lasciva e
disponibile in balia di un anonimo signore che, per mia scelta, non
incontrava ostacoli e proseguiva il suo lavoro, mantenendo vivo l’ardore,
sapientemente preparato da Dario stesso, ora sì che ne ero convinta,
qualche ora prima davanti allo specchio e tenuto vivo nel taxi. Poco dopo
mi sentii ancora più leggera al cospetto del cameriere che reclamava un
dessert di nostro gradimento. Il compagno prezioso dei nostri giochi non
si fece scappare l’occasione e magicamente fece cadere il tovagliolo
sganciandomi nel contempo con maestria l’unico bottone della mia gonna a
pieghe. Non reagii, anzi, ormai immersa nel gioco, accavallai le gambe
preoccupata solo che la tovaglia gialla non coprisse la visuale del mio
ormai finto imbarazzo.
Nelle lunghe notti d’amore, Dario mi diceva
spesso quanto fosse assurdo che altri non potessero vedere la mia bellezza
e quanto peccato non mostrare la sua donna che solo lui si portava a
letto. Ecco, era giunto il momento, ora ero lì, accontentando il mio uomo
e l’amico delle nostre fantasie. A quel punto chiesi al cameriere che non
credeva ai suoi occhi di versarmi del vino e contemporaneamente con fare
spigliato riguadagnai il mio fascino e la mia sicurezza.
Ancora
oggi, quando ci ripenso, m’illudo che da quella posizione nessuno avrebbe
potuto scorgere alcunché suffragando l’incerta teoria con la lunghezza
della tovaglia abbondantemente sopra le mie gambe, le foglie di aspidistra
dentro la fioriera e l’imperturbabile sguardo del cameriere che, forse,
facendo leva su una dose eccessiva di professionalità ci portò il dessert,
il caffè, il conto ed il soprabito come se niente fosse accaduto.
Ma io ero ancora in attesa, nuda e coperta dai soli elastici del mio
reggicalze usato, in preda ai sensi che offuscavano la mente e le più
elementari norme di comportamento. Non sapevo cosa stessi aspettando, non
riuscivo ad immaginare le loro intenzioni e neanche cosa potesse portarmi
alla ragione in quel luogo così affollato. Sentivo mille occhi sopra la
mia sensualità, sopra il filo dei miei pensieri evidenti e nudi. Dario e
il nostro amico oramai invisibile si scambiarono sguardi d’intesa e per
gonfiare la mia eccitazione con cinico e spietato disegno si mostrarono
indifferenti alla scena, come se nulla stesse succedendo. Non avevo
scelta, mai avrei potuto alzarmi in quello stato, mai avrei guadagnato
l’uscita senza l’aiuto dei miei due sfruttatori di desideri inappagati.
Capii le loro intenzioni che andavano oltre quelle carnali e le assecondai
alzandomi i piedi. Insaccai la gonna dentro la borsa e presi il cappotto
porgendolo a Dario.
La sala era ormai deserta, presi tutto il
coraggio a disposizione e in quello stato iniziai a camminare lungo il
corridoio dell’indecenza tra le due file di camerieri allibiti. Seguita a
distanza dallo sguardo del mio uomo e del suo amico invisibile, allungai i
passi ed alzai la testa, e come una modella mi sentii fiera di aver
incollato sul mio corpo tutti gli sguardi disponibili. Nella mia mente
correvano solo riconoscenza e gratitudine verso colui che mi aveva fatto
sentire così bella, e per la prima volta mi sentii davvero unica e
inarrivabile perché, schiava di un desiderio, ne stavo uscendo a passi
maestosi verso la consapevolezza di procurare finalmente piacere. Nessuno
parlò, nessuno tentò di fermarmi. Mi contemplavano muti come se stessero
assistendo ad un miracolo ed io fossi la loro Dea. Solo lo strusciare
della trama delle mie calze riempì orgoglioso quel silenzio. Ad ogni passo
lievitava il mio piacere e ad ogni passo lo sentivo defluire nei meandri
della mia soddisfazione avvertendo con sorpresa e soprattutto cosciente
che grazie al mio uomo, quella sera, avrei fatto a meno di lui.
FINE