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Il Vento
"Di giorno non sono nulla, non riesco a dire
parole, nasco di notte e ad ogni alba poi
muoio, sparsa nel buio di tenebre fitte, che
penetrano dentro questo vuoto di casa,
questo lembo di terra che non trova mai pace"
OffThegang Photography
Di giorno non sono nulla, non riesco a dire
parole, nasco di notte e ad ogni alba poi muoio, sparsa nel buio di
tenebre fitte, che penetrano dentro questo vuoto di casa, questo lembo di
terra che non trova mai pace. Mi s'intreccia il respiro se solo mi penso,
spalancata al piacere in attesa che un soffio, di vento che tira, di
brezza che s’alza, m’illuda di essere alcova del mondo. Perché è vento che
porta rumori lontani, sapori di muffa di gole profonde, di voci e
bestemmie contaminate dal giorno, piccole onde strascicate di suoni, che
la notte attutisce e li vela leggeri, che la notte ingrandisce di bufere e
frastuoni. E’ vento che lascia un brivido caldo, che passa e rimane e fa
mulinello, di carezze e lusinghe, di nobile corte, di voglia che preme e
mi lascia il sapore, di tetti e di case, di sentieri scoscesi, di funghi
seccati al sole a Novembre, di comignoli neri e di legna che arde, di
pioggia in autunno che bagna i sambuchi, i cani randagi ed i vecchi in
veranda, che il vento poi asciuga e passa di fretta, tra i filari di uva
per il Novello a dicembre.
E’ un vento che soffia e sbatte deciso,
laggiù contro un muro d’ortiche e di muffa, dove una luce fioca ci danza,
su quattro lamiere che chiamano casa e si sentono grida e rutti stranieri,
con l’alito forte di aglio e di vino. E’ vento che porta voci lontane, si
sentono urla di giochi d’azzardo, di giochi di morra, di carte e di soldi,
qualcuno che esce e piscia sul muro, perché è un vento notturno chiassoso
e silente, su questa collina dove osservo l’intorno, su questa finestra
dove appoggio le gambe, e unisco le mani come una donna in preghiera, che
apre il suo cuore e s’affida per caso, agli odori che sente, al vento che
soffia, dove gli anni trascorsi hanno fatto condensa e un uomo a quest’ora
farebbe fatica, a trovarne l’entrata e risalir la corrente come trote di
fiume che cercano sassi per deporre le uova nell'acqua sorgiva. Lo sento
che penetra ed ansima fiato, perché è vento che entra e maschio s'impone,
ed arriva e s’illude e crede sia meta, ma è solo l’inizio e lo prego di
stare, di avere pazienza, vigore e misura, di bucarmi la pelle di
quest’anima stretta, che intatta s’illude d’essere bella, di far poesia
con le mani ed i pugni, che premono maschi davanti alla luna, alla casa di
fronte di rutti e bestemmie, su questa finestra dove spalanco l’essenza e
un lampo rischiara a giorno il bisogno.
Come vorrei essergli foce,
grotta e spelonca dove stanco riposa, oppure anche l’ombra di luce e di
luna, che scurisce la strada e prende una forma, calpestata dai passi che
sotto il lampione, m’allungo e m’accorcio al vento che sbatte. Perché
davvero non ci siano dubbi, quando entra e poi esce e sibila e ringhia, e
quanto all’interno sia fatta di vuoto, quanto all’esterno mi offra più
persa, per essere il nulla, per essere sgombra, perché non ho polmoni né
fegato o milza, ma solo il ricordo di amori passati, che m’hanno negli
anni scaricato l’ardore, voglie bollenti che ancora stasera, m’ardono
dentro e il fiato che esce, assomiglia alle bocche di quei cani fumanti,
al vapore più fitto di acque sulfuree. Nel sogno succede che non ho occhi
né forma, perché non serve all’amore uno sguardo profondo, e mai questo
vento mi ha chiesto dell’altro, nemmeno il riflesso di un tramonto
rossastro, né aghi di pino quando cadono a grumi.
Di giorno non
sono altro che una donna normale, che porta a spasso i nipoti e gioca col
cane, se solo sapessero cosa mi prende a quest’ora, cosa si prova a stare
in finestra, a strusciare sul marmo come le gatte in calore, che invitano
il maschio alzando la coda, come me che nel sogno alzo la gonna, al vento
che soffia e prende una forma, perché nessun altro potrebbe capire, che
l’amore che cerco è un impalpabile niente, sono versi che snocciolo a
questa natura, e il sesso di carne, quello duro e imbecille, lo lascio a
quei cani che stanno giù in strada, a quest’ora indecisi se pisciare su
quel muro, o farsi la cagna che in posa reclama. Perché è vento che viene
dal mare, sapori di sale e di abissi profondi, piccole onde strascicate di
suoni, che la notte attutisce e li vela leggeri, che la notte ingrandisce
di bufere e frastuoni, e lasciano tracce di un brivido caldo, che
s’insinua deciso tra il seno che dono, e danza leggero come un aliante che
plana, e si ferma e mi sfiora e s’incanala discreto, e prende la forma dei
miei profili di carne, e mi fascia e mi vizia come amante lezioso, poi
passa e rimane e fa mulinello, di carezze e lusinghe, di nobile corte, di
voglia che preme e mi lascia il sapore, di baci e saliva e scie sulla
pelle, di tetti e di case, di sentieri scoscesi, d’erbe e d’aromi per il
sugo a Natale, di comignoli neri ed un ceppo che arde, che serve a
scaldarmi per tutta la notte, e fuori la pioggia vela la malva, che il
vento poi asciuga e passa di fretta, tra gli ombrellini da sole di donne
per bene, che arrossiscono a un niente e per un niente si danno, tra i
labirinti d’alloro e la caccia alle volpi, tra i filari di uva e le
pergole nane dei rossi francesi già pronti a dicembre.
Perché è
tramontana che spira a cielo sereno, è bora che spazza a raffiche e
refoli, alle volte maestrale che scende diretto, dalla valle del Rodano e
porta bel tempo, oppure un grecale, secco d’inverno, che lascia sapori
dell’Est lontano, di quando bambina giocavo in cortile, di quando mia
madre aveva altro da fare, e si insinua fitto dentro i portoni, e scorre
ringhiere e sale le scale, le pareti scrostate e le scritte più oscene,
tra le porte socchiuse nei mattini di festa, con la musica alta ed un
vociare di bimbi, tre passi da leone e due da formica, e i capelli lavati
asciugati in balcone, i capelli schiariti con la chiara dell’uovo, di
partite alla radio e il circo in piazza, d’infiorate e ginestre alla festa
del santo, d’amori appartati poco fuori al paese. Perché è vento che in
grembo porta tutti i tramonti, di tegole rosse e cupole d’oro d’ogni dove
si posa s’incurva e riparte e corre veloce lungo la strada, e corre più in
fretta per venirmi a cercare, tra fango e miseria, tra i pini marini, e
soffia sui fuochi che scaldano merce, di gambe straniere illuminate dai
fari, di ville stupende sul lago d’Albano, di sogni svaniti e gli anni in
collegio, di convitti femminili, di suore e novizie, o d’alberghi in
stazione con il bagno di fuori, negli hotel di provincia, nei motel per
due ore, nei letti più caldi disfatti d’amore, e la padrona con i rolli
che t’affida la chiave, come fosse l’accesso del paradiso terrestre, e ti
guarda e ti scruta le gambe e le tette, per sapere per quanto impegni la
stanza.
E’ vento che soffia sui pioppi di Roma, sui rami pendenti
attirati dall’acqua, sul fiume che increspa la palude di costa, di melma e
di sterco di borgate romane, di bulli da poco e bande assassine, d’antenne
e di croci, di preti e bambini, perché è vento di tutti e ne prende
l’odore, e porta ingiustizie e governi e regimi, arriva ovunque e
raccoglie le voci, d’aiuti straziati, di cesarei freschi, d’amanti segreti
e ferite di cuore, di parti e d’aborti di cassonetti ripieni, che niente e
poi niente potrebbe guarire, che il sole d’agosto non asciuga e non secca.
E’ libeccio sabbioso libico caldo, clandestino e immigrato su carrette di
mare, è vento di speranza affogata per sempre, di nuvole basse che si
squarciano a pioggia, che pulisce miserie e fazzoletti di carta, residui
d’amore per contrattare due tette, che smunte che vecchie non danno più
latte e calano molli come pere stracotte.
Perché è vento che torna
ogni notte a quest’ora, e lo sento lontano che curva e si torce, e come un
amante mi sazia e mi sfama, e sale e si infila e sottile m’asciuga, come
se m’offrisse in dono tutti quei sessi, di valli e montagne, d’ogni angolo
in terra, che ha attraversato portando l’odore, sfidando il mondo per
farmi godere, tra queste pieghe di pelle che offro alla notte, tra
quest’anima in fiamme aperta al bisogno, di sentirmi scomposta dentro ogni
letto, perché soltanto la somma avrebbe un senso, soltanto la conta
m’appagherebbe del tutto.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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