Di fuori è freddo e pioggia all’improvviso e
tira un vento che mi porta via come queste foglie e cartacce di una strada
in discesa che appena conosco. C’è una donna seduta sul bordo del
marciapiede che si copre il viso ed ha con sé un ombrello a scacchi e si
ripara dalle insidie che in agguato affollano la notte. La guardo, chiede
al vento di asciugargli gli occhi e intanto li chiude e li tiene stretti
stretti, ma il rossetto si è sbiadito e il trucco di matita lascia tanti
rivoli neri, tante ore nel bagno, ma le si sta sciogliendo, se ne sta
andando. Ed io che mi chiedo, ma come mai? Ed io che mi chiedo perché
proprio a lei? Per quale strano motivo il destino ha voluto che la
incontrassi?
E resto lì come una scema senza dire parole, perché
ho paura, perché non si sa mai cosa mai potrebbe capitarmi. Perché non so
chi sia lei, o forse sì, ma non voglio crederci. Faccio per andare, e
allora mi m’avvolgo nella mia mantella nera e mi proteggo da questo vento che mi gonfia la gonna e m’ingrossa la gola e
s’infiltra subdolo tra i miei nudi come fosse un intenso fastidio delle
tante ragioni che mi vorrebbero altrove. Mi sento smarrita, non ricordo
dove ho lasciato la macchina e come sono capitata in questo buco di mondo.
Piove, ma io non ho riparo, guardo quella donna vestita identica a me e mi faccio tenerezza, pensando che anch’io ho perso il treno
per una notte, ho perso le ali per tante volte quando i giorni passano e
le ore si dividono in serate che t’illudono e si moltiplicano in sogni che
restano dentro il letto, portandosi appresso insoddisfazioni e il senso
atavico d’incompiuto.
Mi rassicuro e mi convinco, ma intanto la pioggia
cade ancora più fitta e sta bagnando un’altra notte, e spegne decisa un
desiderio, di quest’ombra che non sa chi sia, non sa cosa vorrebbe essere.
“Sono tre notti che la manda giù.” Mi sussurra sottovoce quando le passo a
fianco. La guardo, le sorrido, più per imbarazzo che per vera cortesia.
Non mi fa naturale vedere una donna che mi somiglia, non riesco proprio a
digerire la pena che l’affligge.
D’un fiato mi dice di chiamarsi
Eva ed un ricordo le batte forte tra le mani, che il tempo ha sgranato
come sabbia in un pugno. E’ vero, come il bordo della calza che gli spunta
dalla gonna, vizioso come il nastro viola che gli lega i capelli e finto
come quel rossetto che sborda le sue labbra, come quei capelli biondi di
un finto platino impossibile. S’accorge che la guardo, che non è certo un
bel guardare.
Ha il seno piccolo come il mio, un neo sulla guancia
nella stessa posizione, incerta ora indugia nella notte, sopra un
marciapiede scarno di clienti, raccoglie le sue ciglia tra le file di
lampioni che corrono orinati che corrono altrove. Avrà trent’anni, più o
meno i miei, ed è bella come donna che non chiede di essere se stessa,
come due occhi di speranza che guardano fissi nel vuoto, come una donna
che inganna e s’inganna di essere altro. Sì è bella penso, se sono non
fosse vestita così, ma i suoi occhi la tradiscono, perché troppo marcati e
sfumati come un voto alla luna.
La vedo ondeggiare mentre
s’allontana tra le maglie dei pensieri, tra le righe della luce che si
adagiano sui suoi vestiti come veli. S’attarda nella notte barcollando sui
suoi tacchi inesperti in cerca del suo sogno dove si ammassano clienti che
sono il suo futuro, l’unico scopo che a quest’ora può raggiungere senza
sforzo. Qualcuno s’avvicina, ma riparte poco dopo, spaventato da quelle
labbra rigonfie che sanno più di delirio che d’amore a pagamento. Poi mi
dice guardandomi dritta negli occhi: “Se le fa piacere possiamo fare due
passi.”
Piove, e intanto piove ancora, e mi offre il suo ombrello.
“Ma dove avrò messo la macchina?” Ora non posso più sottrarmi, non ho più
pretesti ed accetto il suo invito. E’ vicina a me e sento il suo profumo,
appiccicoso e grasso come olio di oliva, smielato come latte in polvere.
Scivoliamo lungo il viale verso le luci della città, ora la strada non
è più deserta e qualcuno incredulo ci guarda di sfuggita. Sono a disagio e
lei se ne accorge, i miei tacchi hanno preso la stessa andatura dei suoi
stivali di vernice rossa, del suo ancheggiamento che mi sfiora il fianco
ad ogni passo. “Cosa direbbe mio marito se mi vedesse ora? Sotto un
ombrello di una donna che mi assomiglia nel pieno della notte!”
Chissà quale sia il suo vero nome, se le ho detto di chiamarmi Eva prima
di dirmi il suo e poi chissà se come me sta cercando la sua libertà perché
nel letto di casa, ogni notte, mi arrendo sempre più tardi, aggrappandomi
a fantasie affollate di maschi che mi pretendono, mentre lui mi stringe la
faccia e asciuga il mio sudore. Certo lui lo sa e allora mi chiama per
nome, e mi chiama amore, e mi sussurra che non è niente e che devo stare
calma e non aver paura, sperando che quella folla non si stanchi e che
regga al mio desiderio fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo della coda
mentre mi sbatte col suo martello di ferro sodo sopra l’incudine del mio
sesso. Poi lui urla fino ad arrivare al suo orgasmo distante dal mio
vuoto, dai miei occhi di femmina inappagata, colma di superfluo e vuota di
ragione.
Cerco di distogliere i pensieri concentrandomi sulle
macchine parcheggiate. “Dove l’avrò messa?” Lei vorrebbe defilarsi
illudendosi che altri clienti la stanno aspettando. Cerco di trattenerla
ancora un momento, giusto un momento per rendermi conto dove sia finita la
ragione. Ma oramai è tardi e la vedo risalire la strada, vorrebbe
raggiungere le colleghe che, come questa pioggia fitta, s’annidano dense
attorno a quei lampioni. Ma poi ci ripensa ed insicura sopra quei tacchi
torna indietro. “Signora, io saprei dove ha messo la sua macchina!”
La
guardo incredula, ma seguo ad occhi chiusi la sua scia di peccato e
profumo. Entriamo in un parcheggio e fa finta di cercarla, il rumore dei
suoi stivali rossi strusciano la strada. Tra due macchine parcheggiate mi
solleva la gonna, il mio intimo è proprio identico al suo, stessa taglia,
stessa merceria, stessa illusione. Ora mi bacia, sento lo stesso odore, lo
stesso modo di baciare. Il suo desiderio mi riempie e mi rivolta, vorrei
gridarle che il riflesso di uno specchio non sarebbe così tanto
somigliante. Sento il suo cuore battere come il mio. I suoi baci
m’appagano e mi zittiscono fino a che un urlo più forte non mi raschia nel
fondo.
Ora è tutto finito, saliamo in macchina. Le nostre mani
s’intrecciano pervase da tenerezza, accendo il motore e vado, sono quasi
felice di non essere sola, le parlo e lei mi risponde, la sua mano si
insinua tra le mie cosce, poi risale fino al mio piacere, la sento e la
desidero, la sento e m'appaga, come se conoscesse alla perfezione i miei
umori, i miei desideri, finchè il rumore di un clacson distante mi desta.
Giro lo sguardo sul sedile di fianco e mi accorgo che è penosamente vuoto.
FINE
GUARDA LA GALLERY
COMPLETA DI DESIREE MATTSSON