Lo so che lì c’è il mare, lo sento questo
rumore continuo, di fiotti e risucchi strascicati, che ti mettono ansia
perché non arriva mai la fine, come quando non riesci ad inghiottire e
ritenti e gioisci come se avessi vinto qualcosa. Lo so che lì c’è il mare,
la sento quest’umidità salata che m’infiamma le ossa e m’arriccia i
capelli, e non oso guardarmi allo specchio, semmai c’è ne fosse uno,
semmai potessi vedermi attraverso quest’oscurità che non mi dà dimensione
e mi fa paura, come se si congiungesse al rumore del mare che ora sento
più forte.
Non riesco ad immaginare che ora di qualsiasi giorno
possa essere, e riesco perfino a ridere di me stessa pensando a cosa mi
potrebbe servire saperlo, a quanto sia inutile calarmi in un punto preciso
del tempo e domandarmi dove mi potrebbe portare il pensiero di sapere che
sono le cinque di un giorno feriale. Tanto tra poco s’aprirà quella porta
e l’odore stagnante di muffa circolerà rinvigorito e più forte, sulla mia
pelle e su queste mattonelle che non vedo, ma al tatto non sono più
sporche dei palmi delle mie mani. Tra poco s’aprirà quella porta e mi
trancerà la notte dal giorno, ieri da oggi e così via fino a credere
superati questi pensieri che ora sono tutto il mio avere. E ricomincerò
daccapo pensando al passato quello che ora dico al presente, ma il
ricordo, quello vero, che mi vedeva altrove, lontano da questi ragni che
mi camminano addosso e mi fanno la tela, si fa sempre più flebile come la
mia voce che non sento da giorni.
Non ho più niente, neanche un
paio di mutande che ora sarebbero un tesoro, o che so io, una lametta che
faccia mostrare le mie gambe decenti a quest’uomo che a breve mi porterà
una tazza di brodo caldo. Sempre lo stesso, lo stesso sapore, come se
fosse quelle di ieri, bevuto e rimesso. E lo berrò tutto d’un fiato anche
se mi chiedo a volte perché mai non ho diritto ad una fetta di pane o che
so io ad un piatto di pasta farcito con capperi e olive.
M’ha
promesso che tra un giorno qualunque, quando neanche me l’aspetto, mi
porterà una zuppa di ceci e fagioli, che oramai non ricordo più il gusto,
il sapore, che i miei sensi hanno cancellato come fare l’amore o che so
io, farmi una doccia bollente quando fuori c’è neve. Ma non ricordo se
fuori è inverno o c’è un sole che picchia e crepa la terra, non ricordo se
sono venuta fin qui coperta di lana o con qualche maglietta sbracciata che
m’ingrossa le tette e mi fa sentire almeno una donna.
Sento
freddo, quel freddo di brividi che ti coglie indifesa quando sei sola, e
s’infila padrone nelle parti più intime del corpo gelando cuore e polmoni.
Sembra passata un’eternità da quel giorno maledetto e forse sarà trascorsa
davvero, a giudicare dalle tante domande a cui non ho dato risposta; non
ho dato il minimo senso per pensarle di nuovo. Quest’odore di rosmarino mi
dà nausea, ma alle volte penso che potrebbe essere qualsiasi odore, magari
di penicillina e d’infezione o uno dei tanti profumi sul davanzale del
bagno che custodivo gelosa e ne facevo collezione.
Tutto è
successo senza rendermene conto e senza per questo pensare che non sia
accaduto, che queste sono solo le mie lenzuola sudate dall’ansia, che ora
mi alzo e vado in cucina a prepararmi un caffè che ne ho tanto bisogno. Ma
le sento davvero queste voci, come mi pare d’udire un sibilo di vento
simile a zanzare fastidiose di notte, come mi pare di sentire la voce di
un ragazzino che gioca sul pavimento all’ingresso.
Ma se mi
concentro sento la voce distorta dell’altra me stessa, che di là in cucina
pulisce cicoria e s’affatica attorno a quei pomelli opachi della sala da
pranzo. La sento la voce, ora sempre più intensa, che grida perché non può
più accettare d’essere trascurata per ogni giorno che passa, di sentirsi
femmina solo perché porta una gonna ed ogni tanto si trucca occhi e
concetti perché non ha nient’altro da fare. E sento quel pianto che, come
ora silente, mi bagna la faccia e segue remissivo le rughe del viso fino a
posarsi negli angoli della bocca, fino a ridarmi equilibrio e coraggio di
subire un altro giorno che nasce, fino a ridarmi la forza per distinguere
questo rumore di mare.
Ma ora non ho paura di stropicciarmi la
faccia, perché da quando m’hanno rapita ho smesso di essere bella, ho
smesso di credere che ogni uomo che passa rallenti il suo passo per
vedermi ancora un istante. E mi domando quante amiche abbia avuto al
momento, quanti compleanni ho saltato senza fare gli auguri, e quante
colleghe mi stanno cercando. Vorrei tanto sapere come passavo il mio
tempo, se per caso avevo un lavoro o che cosa facevo alle sei di sera
invece di guardare il tramonto.
Il mio guardiano m’ha promesso di
portarmi uno specchio, mi basterebbe un vetro tagliato per riflettermi
contro e immaginarmi davanti ai miei tanti cassetti a scegliere secondo la
serata mutande e colore. Ma non mi lasciano nulla, neanche la brocca
dell’acqua, neanche un paio di forbicine per rifarmi le unghie e togliermi
queste fastidiose pellicine che non mi fanno dormire.
E’ strano
come la mia mente sia in grado di ricordare perfettamente ogni merletto,
ogni cappello risposto in armadio ed aver cancellato tutto il resto, tutto
ciò che, secondo coscienza, varrebbe la pena vivere. E mi sforzo di
pensare ad un uomo, ad un figlio, una casa. Se solo potessi vedere sul
muro i contorni della mia ombra, m’aiuterebbe a ricordare chi sono,
basterebbe uno straccio di luce per darmi una faccia, un’altezza, un
carattere e da lì non ci vorrebbe che niente ricordare il motivo che m’ha
relegata qui dentro, inghiottita da questa oscurità dove i ragni
continuano a farmi la tela intorno ai miei polsi fasciati.
Ma non
sono catene, non ho ferri attorno alle caviglie o lenzuola che mi tengono
stretta, neanche un bavaglio per tacere. E mi chiedo perché non urlo,
perché non m’alzo e scappo da quella porta e perché rimango paziente ad
attendere il mio guardiano che ogni sera m’accarezza i capelli e mi ripete
che manca poco, che è solo questione di volontà. E mi si mette qui accanto
e mi parla a bassa voce, non tenta mai d’approfittarsi del mio seno che è
a portata di mano.
Alle volte mi viene il dubbio d’essere ancora
bella, o che quest’uomo, che non salta una sera, non sia un guardiano. Ha
un’aria così familiare, come se l’avessi annusato da sempre, come se la
forma della mia faccia fosse adatta e perfetta alle sue carezze, alle sue
mani che non stringono, ma rimangono leggere e sospese come se avesse
timore di farmi dolore. Alle volte mi bacia la fronte, mi dice che devo
stare tranquilla, che lui ci sarà sempre, ma come fa un guardiano ad
essere così amorevole? Certe volte viene accompagnato da un bimbo, avrà sì
e no sette anni, il piccolo rimane qui seduto accanto a me, mi guarda, poi
però si stanca, si alza e gioca per la stanza.
E allora il mio
guardiano mi fa strane domande come se volesse farmi ricordare qualcosa di
preciso, mi dice che mi devo sforzare, mi dice dei nomi che io non
conosco, ma non mi parla mai di riscatto, non mi tiene al corrente se
qualche rata sia già stata pagata, anche se so che è questo il motivo e
solo per quei maledetti soldi mi porta pane e olive e forse una zuppa di
ceci. E mi domando quanto ricca potrei mai essere, per essere stata rapita
e portata quassù in questo posto senza tempo e senza vita.
Non
riesco a farmene ragione che sia veramente questo il motivo, e che la mia
memoria si sia eclissata per qualche spavento. Ma io mi sento tranquilla,
come se fuori ci fosse tempesta e mi copro con il lenzuolo fino alla testa
per sentirmi protetta. Sicuramente m’avranno preso con la forza ed avrò
sbattuto la testa, magari m’avranno legata, addormentata ed io avrò fatto
un interminabile viaggio rannicchiata dentro un cofano di macchina. Magari
mio marito sarà in pena incollato vicino ad un telefono che non squilla, o
magari sono sola e nessuno mi sta cercando.
Sicuramente sarò stata
rapita ed aspetto stasera il mio guardiano che mi porterà una zuppa calda
di ceci e magari mi dà la buona notizia che qualcuno finalmente abbia
pagato il riscatto o magari è solo questione di giorni. Magari, magari, ma
non ho certezze, neanche uno sparuto ricordo; se stavo tornando a casa,
andando da un medico o, che so io, dentro un letto d’ospedale…
FINE