Potessi rincorrere la mia ombra che sola si
muove e si curva su questa terrazza ed io ci faccio figure di continenti e
nazioni con le nuvole alte rarefatte nell’aria, che sono tutto il mio
mondo, la mia vita di sempre, compagne di giochi, di futuro e d’attese. Ne
scelgo poi una, quella meglio venuta per farci due passi e camminare
all’aperto come quando bambina giocavo d’estate, scivolando sull’erba per
arrivare per prima a scavalcare la siepe e varcare il sentiero e correvo
più forte fino ad inciampare sui sassi e cadevo giù a terra e mi sbucciavo
la pelle e di rose e di croste erano piene le gambe.
Potessi ancora
adesso averne la forza, potessi ancora adesso sbucciarmi il ginocchio,
risentire identico quell’odore di erba, sentire la bocca che succhiava il
mio sangue, che sapeva di ferro, di caldo metallo misto al fiatone che
inumidiva la parte. Potessi ancora adesso averne la forza, rialzarmi
bagnata di sudore e saliva sotto un sole cocente che mi scaldava la faccia
che picchiava la testa e maturava le more. Potessi ancora adesso
infangarmi le scarpe, affondarle tra la melma molle del fiume e sporgermi
dalla sponda per catturare le rane con il timore e la gioia di cadere
nell’acqua.
Potessi davvero risentire la voce, di mia madre
apprensiva quando chiudevo la porta, e gridavo “Io vado” e non importava
per dove, e gridavo “Poi torno” senza chiedere aiuto, perché comunque io
andavo ed ero felice, con il cappello di tela per il sole e la pioggia,
senza che lei sentisse il dovere, d’uscire con me e darmi una mano, senza
che lei come ora mi spinge, e mi dà quel coraggio stupido e sciocco che
domani “Vedrai sarà un giorno diverso”, che domani sarà se ci credo
davvero.
Ma io ci credo, ci credo davvero, che se non è oggi
comunque succeda, scendere di corsa le scale di casa, insieme a Fulmine il
mio pastore tedesco, aprire la porta e bagnarmi di sole, ed a pieni
polmoni respirare l’azzurro, attraversare la strada guardando prima a
sinistra, per poi liberare Fulmine nel giardino di fronte, ed io che lo
guardo e leggo il mio libro, ed aspetto paziente che faccia i bisogni.
Lo spero e lo voglio, e ne sono sicura che senza mia madre o senza la
sedia potrò andare a comprare il pane ed il latte, poi fino all’edicola o
addirittura nel parco, lungo la fila di pini e d’abeti, attraversando il
ponte di corda e di legno, sopra il ruscello e le papere nane. Non chiedo
poi molto, non chiedo la luna, perché so come quando da bimba, non potrò
più correre al fiume e scorticarmi le gambe, se proprio non posso ora da
grande tuffarmi nei rovi e graffiami la faccia.
Eppure un ricordo
mi torna ogni giorno senza che i dubbi ne facciano un sogno, più intenso e
più vero dà forza e dolore a queste stupide gambe che vanno da sole e per
un attimo solo mi alzo e cammino, sopra quei ciuffi d’erba più verde che
al mio passaggio rimangono in piedi, come se leggera non pesassi che etti,
come se leggera non lasciassi le orme o i segni delle ruote netti e
profondi. Ma resisto e mi vedo più bella, dentro il ricordo che indelebile
resta e torna ogni volta quando dietro le foglie mi trucco la faccia con i
gusci di noci e mi sdraio sul prato mentre il cielo m’avvolge, e mi faccio
un vestito con le foglie di fico, mentre un vento leggero mi sparecchia e
m’imbroglia.
Che c’è di male se ancora oggi ci penso e la mia mano
si perde pensando a quell’uomo che puntuale m’aspetta seduto sul ciglio e
m’alza la gonna senza nessuna fatica. Tra i capelli mi spunta una spiga di
grano, tra le labbra mi spinge un seme sgusciato ed io m’annerisco le
guance e la faccia e mi marco la bocca con le penne e i lamponi. Mi chiama
bambina, mi chiama tesoro, perché mai mi ha chiesto di sapere il mio nome,
mi chiama farfalla perché lo faccio volare e perde il suo dito tra la mia
carne smarrita. Ed io che scappo, fuggo e corro veloce lo sento il fiatone
di lui che m’insegue e mi cinge la testa con le foglie d’alloro mi lega le
dita con le tele di ragno.
Mi chiama bambina, mi chiama tesoro mi
regala per caso un nido d’uccello come dietro ogni foglia uno spicchio di
cielo, come dietro ogni voglia un leggero rossore. Sto ferma, non parlo e
serro le orecchie come più bimba ad un passaggio di treno, come più grande
a un rimbombo di tuono quando il cielo già basso s’era tinto di nero. Il
primo bacio lo sento m’accappona la pelle, il secondo mi bagna l’incavo
del seno e senza parlare mi offre la lingua che grassa s’infiamma tra i
miei cerchi più scuri. Il sole che muore ci trova sotto la vite e lui che
mi ciancica le labbra del cuore, mi confonde il dolore con una specie di
voglia, m’arroventa le gambe come petali schiusi che fremono al fiato d’un
discreto piacere.
Da allora ogni sera mi viene a trovare e
giochiamo a Mondo giochiamo all’amore e m’annerisco come un tempo la
faccia, con i gusci di noci con l’uva e le more mentre il vento che soffia
m’asciuga le voglie e bacio la mano e bacio quel dito che tinto di rosso
mi sporca la faccia. Come ora qui su questa terrazza guardo ammirata
l’orizzonte infinito, che per quanto sterminato lo conosco a memoria e ci
navigo a vista e m’oriento nei luoghi che si fanno vicoli, e scale e
certezze, si fanno sentieri di montagna scoscesi e poi viottoli e
mulattiere di roccia, e calli tortuose a picco sul mare. Guardo
quell’infinito e lo sento nel cuore, come se davvero muovessi le gambe,
come se da qualche parte ci fossi pur stata, da sola e turista o insieme a
quell’uomo che ogni volta la sera mi riempie d’amore.
Lui sì che mi
guarda dritto negli occhi, lui sì che mi guarda intera ed in piedi, con in
dosso un vestito di tela a fiori, e mi vede grande più degli anni che
porto, più di quelli di allora che non ho mai vissuto, più di quelli di
oggi che mi fanno più donna, mi guarda e mi dice soltanto che m’ama, e
nessun altro destino gli ha mai regalato questa rosa che sboccia indorata
dal sole. Sussurra parole, parole d’amore, ne sento il velluto, la
sostanza, il vapore e sento il mio sangue che pulsa e fa male, lo sento
che scorre leggero controcorrente, come un tumulto di tremiti e spilli,
come un carica di brividi a pelle, sento la forza, la potenza e l’amore,
lungo le salite delle mie gambe che vive rimangono in piedi senza il
minimo appoggio e lui che mi segue soltanto con gli occhi, perché sa che
aveva ragione mia madre, perché sa che ora posso camminare da sola, e se
solo volessi potrei correre al fiume e sentirmi in gola il cuore che
batte, scivolare sull’erba e rialzarmi all’istante, attraversare il ponte
con le papere nane e impigliarmi la gonna tra le spine dei rovi, lungo il
sentiero d’umido e bosco quando un raggio di sole debole filtra tra le
foglie d’autunno e le tele di ragno.
FINE