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LiberaEva
Un albergo pieno di stelle
"Vorrei dirgli che sono una signora, che dove m’ha incontrata c’è una fermata di autobus e che ogni sera aspetto un’amica. Ma mi rendo conto che è inutile
fingere quando tutto il mio sesso è racchiuso nella sua mano come se fosse un regalo non scartato da anni.…"






Photo Alex UA
 


Questa sera il cielo di Roma s’arrossa d’arancio e mi colora il vestito, e le scarpe appuntite che bucano foglie di pioppo e d’alloro e fanno rumore giallo ocra d’autunno. Vado incontro al tramonto lungo la riva sinistra di questo fiume che lento s’adagia, e si spacca contro questo muro che mi protegge dall’acqua e m’induce a pensare che sarebbe inutile andare, sporgermi fino a cadere nel vuoto, in contro tendenza a questa nebbia che fitta, sale e m’inzuppa le ossa e i pensieri. Perché nessuno piangerebbe questa povera suicida che affiorerebbe dall’acqua senza nessuna sostanza, fino a domandarsi per quale accidente di uomo o motivo s’è ridotta a stropicciarsi questo trucco perfetto, che di notte in penombra, sotto questo lampione, mi contorna lo sguardo e m’abbellisce i riflessi.

Il vento che tira sa di fogna e di fiume, solleva le foglie e fa danzare sacchetti di plastica che gonfi d’aria mi girano attorno, come amanti leziosi senza costrutto. Lo sento sulla mia faccia su queste mutande, ridotte a brandelli che non coprono niente, a malapena le pieghe del mio sesso disfatto da incuria e da uomini passati nel tempo, che m’hanno riempita d’amore e di botte con il solo pretesto d’averli amati e curati per un giorno, una vita che sono rimasti.
Mi sento come se il mondo mi crollasse addosso o come se io fossi crollata addosso al mondo, appiattita su questo parapetto che mi taglia in due, come tutta la mia vita tra sesso e ragione. Ma cosa ci sarà laggiù che m’attira e mi chiama? Che mi fa calare le tette che ballano penose come pere d’inverno lasciate marcire. Ma cosa potrei mai trovare dentro quel vortice d’acqua? Che fa rumore di risucchio come le bocche delle mie colleghe che caparbie ammollano prede lasciando in cambio indelebili tracce di rossetti costosi.

“Eva sposati.” Mi sembra di sentirla ancora mia madre, preoccupata che in seguito avrei potuto scrivere la mia vita copiando il suo diario per filo e per segno. “Eva, l’ultimo treno sbuffa vapore e sta per partire!” Ed io l’ho preso quel treno, certo che l’ho preso! Cercando per una volta e poi chissà per quante altre, d’aprire le gambe senza che mi procurasse piacere! Giuro che ce l’ho messa tutta! Per tutti quelli che ho ospitato per giorni e per anni, dentro una casa e dentro me stessa, e m’hanno lasciato ferite d’amaro e di sangue, mattonelle celesti che fisso nel bagno all’alba da sola quando stanca mi strucco.
Credo che a modo loro m’abbiano amata, tutti indifferentemente, ma nessuno al punto di non farmi sentire in difetto o di colmare quel vuoto che stasera diventa un abisso, un buco di traffico tra un semaforo e l’altro. Tra qualche secondo un’altra ondata di macchine mi troverà perfetta nella parte più finta, di signora che s’è persa strada facendo, fino a convincere gli altri e me stessa di non essere quella che sono davvero.

“Eva avrai dei figli, una famiglia.” La sento ancora mia madre mentre appuntava con cura le sue calze color carne a busti stretti che le toglievano il respiro. Ed io l’ho preso quel treno, ma solo per arrivare fin qui, in questa città che davanti mi offre soltanto una strada e dietro un fiume per cambiare la vita, e per accettare il passaggio di questo uomo che non vedo, ma che giudico dal cofano di quest’auto tedesca. Se salgo mi dirà che è solo, che è la prima volta che importuna una donna per strada, ma intanto sbircia tra gli spacchi e le pieghe della mia gonna, che a malapena mi fa apparire una signora per bene, che per caso si trovava in precario equilibrio sopra il travertino sconnesso d’un marciapiede. E poi mi guarderà di nuovo, ma questa volta per compiacersi della scelta che oltre a dargli compagnia gli risolleverà pene e morale. Ed io m’appiccicherò sulla faccia la parte della signora per caso, di quella che solo circostanze, recitate a memoria, l’hanno portata ad accettare un passaggio, per poi lasciarmi trascinare in qualche ristorante, fatto a posta per confondere le acque, fino a sentirlo declamare la commedia, di chi non ha ancora trovato una donna, nel mentre mi versa da bere, nel mentre mi scopre la gamba preparando il percorso fino in camera da letto.

Fingerà d’ascoltarmi, di vedermi più bella di quella che ad ogni notte m’insulta perché l’ho costretta a farsi puttana per uomini in fila, che odia e che nutre di carne e piacere reprimendo vendette e vivi rancori. “Eva aiutami a chiudere la lampo del vestito!” E poi venivano uomini in divisa con i denti bianchi e gli stivali lustrati. Ma avevano poca considerazione di mia madre e di me che li stavo a guardare! La stringevano ai fianchi le baciavano i seni mentre lei tentava invano di fermare le mani che avide entravano in ogni pertugio. Frusciante di seta scendeva le scale a testa alta perché non v’era segreto di come sbarcasse il lunario, di come crescesse sua figlia senza un marito e tanti amanti che a turno m’illudevo d’esserne figlia. Di quello vero non me né ha mai parlato, e mai ne ho avuto il bisogno di sentirne l’odore, d’abbandonarmi di colpo nel sonno profondo.

“Eva aiutami a raddrizzare la calza!” Mi sembra di vederla ancora quella riga perfetta che s’anneriva di luce sotto la gonna, come oggi quando prima d’uscire ripeto le mosse per guardarmi da dietro nell’unico specchio che mi mostra le gambe. Ed ogni volta mi domando quanto sarò signora a modo e quanto puttana per caso, fino ad immedesimarmi nei loro occhi avidi, che nel timore di non portarmi rispetto mi fottono gentili dandomi del lei. Ma quest’uomo insiste ed io sono ancora in dubbio tra la scortesia di farlo aspettare e la parte che recito tutte le sere. Scende dalla sua bella Mercedes, avrà 55 anni ed il labbro sottile proprio identico al mio. “Signora mi scusi.” Faccio per allontanarmi, per mettere in mostra il mio culo perfetto, i miei capelli, che biondi striati di rosso, scendono lenti fino alla schiena. Altri due passi infermi sui tacchi ed accetto il passaggio, accetto di calarmi nella parte che unica mi spetta, che sola dà senso a questi tanti tramonti che si rincorrono uguali.

In un leggero lontano tedesco mi dice bugiardo che non conosce la città e se posso indicargli la strada, una strada qualunque che tutti e due conosciamo ed infatti dopo meno di un niente ci ritroviamo d’incanto inghiottiti nel buio di un parcheggio d’albergo, come se tutte le strade di questa città non portassero che in un unico posto, come se la mia faccia non avesse altro luogo per sentirsi a suo agio. Senza il minimo dubbio spegne i fari e rimane muto in sospeso a guardarmi per quella che sono, con la nebbia alle spalle che m’illumina i contorni e scende incorporea posandosi liquida sul parabrezza. Ha quasi timore di parlare, schiude le labbra, ma poi ci ripensa, mi fissa negli occhi e mi stringe le dita e le unghie che appuntite di rosso gli lasciano tagli nell’incavo della mano che non smette di premere.

“Eva! Sono mesi che ad ogni tramonto passo lungo quel fiume e tento di parlarti ma ogni volta poi scappo perché mi vergogno di provare questo desiderio che nasce molto distante dal cuore. Non riesco a guardarti che con gli occhi di maschio, con le voglie che lievitano fino a quel terzo piano dell’unica stanza ancora buia che vedi!” Mi indica la finestra dell’albergo e stringe le mie cosce, come se le sue parole non bastassero a farmi capire. La sua bocca insolita di cliente cerca il vapore misto a rossetto del mio respiro ingrossato dal disagio che cresce. Che strano cliente! Mi fermo a pensare. Accompagna parole al contatto di mani, m’accarezza i capelli e cerca la bocca che mai puttana si sogna d’offrire, che mai cliente ha voglia d’assaggiarne il sapore.

Come sotto una pioggia battente, dove è vano aprire l’ombrello o camminare muro muro sotto i cornicioni, non faccio domande e lo lascio parlare. Le mie sensazioni non mi danno riparo mentre la sua bocca continua a cercarmi e mi risucchia aria umida e nome, quel nome che poco prima mi sembra d’aver sentito pronunciare! Ma non riesco a domandargli il motivo, se in qualche posto di mondo ci siamo già conosciuti o m’ha penetrata senza che un indizio m’aiuti a ricordare perlomeno il suo sesso o queste mani frenetiche che a memoria s’infilano esperte fino a sfilarmi le mutande, senza che ancora abbiano un prezzo. Come se il mio corpo gli fosse dovuto, come se questa lingua che mi cerca a ventosa m’aspirasse padrona l’anima e il cuore!

Vorrei dirgli che sono una signora, che dove m’ha incontrata c’è una fermata di autobus e che ogni sera aspetto un’amica. Ma mi rendo conto che è inutile fingere quando tutto il mio sesso è racchiuso nella sua mano come se fosse un regalo non scartato da anni. E’ inutile fingere quando ormai la sua faccia respira i miei odori e la seta bagnata, quando già sogno sotto le voglie della vana promessa, di salire le scale dentro un albergo pieno di stelle, e cameriere già pronte a rinfrescarmi la faccia ogni qualvolta una goccia m’imperla la fronte.

“Eva, solo ora m’accorgo d’amarti!” Ora non ci sono dubbi, l’ho sentito chiaramente che m’ha chiamata per nome, come questo sesso che mi strattona e cerca senza il mio consenso di prepararsi la strada, d’infilarsi tra la mia carne che stretta rifiuta senza aver prima stabilito di quale regalo potrà compiacersi. Ma lui sembra non sentire, mi conosce e mi fotte, mi chiama Eva senza rendermene conto, dandomi in cambio soltanto il suo maschio, per me, anonimo e comune a tanti altri che tutte le sere al tramonto scaldo e do ricovero senza distinzione. E poi dice di amarmi! Lo riguardo in faccia per quanto posso, per quanto il suo desiderio, che ora s’è fatto strada, mi batte e mi rivolta e poi ancora a carponi contro i vetri appannati d’amore e dentro questa macchina che s’è fatta stanza d’albergo e finestre di lune.
Guardo fuori e mi rendo conto che non ho più niente da offrire, niente da barattare per decidere un prezzo. Appiattita sulla fodera di questo sedile resisto ai contraccolpi della sua foga che, al limite del piacere, m’apre e mi spalanca come persiane umide in una giornata di sole. Ma solo ora m’accorgo che m’ha presa, come quegli uomini in divisa che accarezzavano mia madre, fino a sbafarle quella bocca carnosa, fino a disfarle la riga della calza che solo poco prima l’avevo aiutata a raddrizzare. Solo ora m’accorgo che m’ha fregata davvero, pensando a mia madre che, quando il sole era alto, rincasava con i guanti imbrattati di seme nazista e la borsetta dello stesso colore vuota di qualsiasi ricompensa.

Ma il suo membro di muscoli mi sembra d’averlo sempre conosciuto, mi sembra che m’abbia sempre fottuto nelle parti che gli altri pagherebbero oro. Invece rimango qui recipiente senza ribellarmi, senza accorgermi che si è insinuato tra le ossa oltre il mio sesso fino a prendermi il cuore. Forse ha proprio ragione! Niente dovrà pagare perché tutto ciò gli è consentito, come questo pene che sa di famiglia e mi procura amore e piacere ed abrasioni che diventano ferite di pelle e passato e poi sangue che cola senza farmi dolore. Faccio per voltarmi e lo guardo di nuovo, per trovare nelle sue rughe, inumidite dal sudore, la memoria che ora veloce risale a prima che vidi la luce, a prima che conoscessi mia madre. Li vedo! Quegli occhi m’assomigliano e mi rivoltano lo stomaco. Quel labbro inferiore m’aveva dato un sospetto, ma poi ha gonfiato i miei seni, come solo un uomo a questo mondo avrebbe potuto, succhiandoli senza dargli dignità e prezzo, senza pagare il dovuto che spetta.

Lo sento, sta rallentando, tra poco tornerà solo cliente e le mie insicurezze m’arrosseranno di nuovo, domani incontro al tramonto, spezzate dal quel parapetto dove dondolano a pera i miei seni marciti. Ormai non c’è più tempo, lo sento godere di liquido caldo che si mescola incestuoso col mio sangue più intenso che sgorga copioso dalle parti del cuore e diventa un tutt’uno, una sostanza viscosa dal colore di rosa, che trasborda dal sesso e nutre il mio grembo come fossi mia madre e lui, lo stesso, mentre chiude la lampo ed accende il motore.





 
FINE









 
 
 


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