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Adamo Bencivenga
Càpita
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Gael
Càpita un giorno che non hai niente da fare e rimani nel
letto ed allunghi l’ultimo sogno, finché qualcuno
imprevisto bussa alla porta e bussa più forte e riempie
la casa. T’alzi assonnata di fretta stringendo la cinta
della vestaglia messa alla buona, pensando al postino
che ti porge un avviso, pensando alla vicina sempre
gentile, o a tuo marito distratto che come al solito s’è
scordato le chiavi. Ed invece no, apri la porta e
sorpresa ti trovi davanti un ragazzo al quale tempo
prima avevi dato lezioni ed ora con fare gentile fa per
andare, poi si scusa e tu lo lasci entrare, e gli chiedi
soltanto d’aspettarti un minuto, per correre in bagno e
sentirti a tuo agio, ricomporre il tuo viso e legarti i
capelli.
Càpita, eccome se non càpita! Che
ritorni in sala dove ora lui in piedi ti aspetta e tu
più sorridente e gentile di prima gli chiedi il motivo
di questa visita insolita, e lui che ti guarda e
ricambia il sorriso, e poi cortese si scusa di nuovo e
premuroso ti chiede per una ricerca, un libro ormai raro
in francese che credi di avere. Lo preghi di aspettare
pensando sicura, che Dumas figlio non può certo mancare,
nella tua libreria in bella mostra in salotto, tra i
tuoi tanti libri di professoressa alle medie ed ora al
ginnasio di letteratura e latino.
Càpita, eccome
se non càpita! Che lo fai accomodare e t’assenti di
nuovo, per offrirgli un caffè che di fretta prepari, e
ti chiedi e sorridi scuotendo la testa, per quale
dannato motivo tu lo stia trattenendo, che avrà
perlomeno la metà dei tuoi anni, ed è il figlio più
grande della tua amica Stefania, con la quale ti
intrattieni ogni sera in terrazza e scambiate segreti e
condividete problemi. Servi il caffè con due cucchiaini
di zucchero, pensando che è giovane ed ha bisogno di
dolce, e tu amaro per via della dieta, delle tante balle
che ti frullano in testa, che sei grassa ed è questo il
motivo, per cui tuo marito nemmeno ti vede, e distratto
la sera rimane a dormire, alle volte in salotto,
comunque distante, anche se lo specchio non ti ha mai
convinta, perché non ti vedi né magra né grassa e
indossi soltanto una taglia di troppo.
Càpita
che il ragazzo è imbarazzato e tu te ne accorgi, sai che
studia a Roma, alla Sapienza, lo sai perché sua madre te
ne parla ogni volta, e va fiera orgogliosa di questo suo
figlio, che non ha distrazioni e pensa a studiare, che
non ha una ragazza, né un’amica del cuore, ma passa il
suo tempo soltanto sui libri, a fare ricerche per i suoi
studi in francese. Seduti sul divano ti ascolta e tu
parli, dei grandi Dumas distinguendo il padre dal
figlio, e ti lasci andare su un concetto bizzarro,
sull’amore assoluto che non ti viene poi bene, sul cuore
che batte a vuoto da anni. Vedi che non è interessato a
quello che dici, che a fatica lo incolli in un concetto
fumoso, perché sei distratta da quegli occhi che fissi,
che dritti non incrociano per nulla il tuo sguardo, ma
furtivi e prudenti guardano altrove.
Tenti di
nuovo con Marguerite Gautier, con Armand Duval e la loro
storia infelice, ma poi ti accorgi che la vestaglia si è
aperta, che tra la stoffa fiorata s’intravede il tuo
seno e con un gesto d’istinto fai per coprirti, ma lui
più svelto ti ferma la mano, e ti chiama “Signora” e ti
dice: “La prego”, come se il tuo seno tra il vedo e non
vedo, fosse più illuminante di mille parole. Per un
momento ti sembra che voglia andare oltre, lasciarti la
mano e proseguire da solo, ma è un attimo e di certo lo
sfiora, ma poi si ferma senza ragione, come se
imbarazzato non l’avesse mai fatto, come se non sapesse
come continuare. Tu sorpresa non sai cosa obiettare, per
un attimo vorresti dargli un ceffone, per un attimo
vorresti che ti legasse le mani per avere il pretesto di
non reagire, ma non è così e sei costretta a fermarlo, a
fare la faccia stupita e scocciata, a dirgli di alzarsi
e guadagnare la porta. Lui invece ti fissa con uno
sguardo smarrito, come se ci fosse gratitudine perché
l’hai lasciato sfiorare, e forse si è accorto che hai
indugiato un istante, o forse è contento d’averti rubato
un segreto, vorrebbe parlare, forse dirti che è stato un
cretino, un attimo solo in cui ha perso la testa, poi
però di scatto si alza, non si scusa e va via.
Càpita che passano i giorni ed ancora ci pensi, càpita
perché tuo marito è sempre distratto, e tu torni a
quell’istante che colori e ricami, poi cuci i secondi e
decori i frammenti, e vai oltre mentre ti raccogli da
sola, e fai ipotesi ed allunghi la storia, se lo avessi
invogliato ad osare, se lui avesse avuto coraggio, e
allora sì che senti le sue carezze leggere, quelle
labbra che si posano come su un fiore, e vedi il suo
sguardo estasiato dal seno, l’irruenza giovanile,
l’ardore del primo approccio, perché quella bocca ora
cerca il piacere, come quella di un bimbo che non hai
mai avuto, e ti sazia l’indole del tuo senso materno, di
quell’istinto che il tempo non ha mai sopito.
Càpita e come se non càpita, nelle mattine che passano
ti manca qualcosa, ti senti nervosa ed aspetti il
postino, la portiera che lava e dà colpi alla porta, ma
di lui niente, nemmeno un segnale, nessuno che vuole
parlare il francese, o gli salti la voglia di riprovare
a vedere, che quel gesto non potevi non farlo, che era
normale fermalo in quel punto, che sua madre.. che gli
anni… che sei sposata…, e una signora per bene non offre
il suo seno, al primo che a caso è in cerca di un libro,
fosse pure Dumas padre o figlio, ma non si lascia
frugare senza nemmeno reagire.
Càpita in un
giorno qualunque che non te lo aspetti, che dentro la
posta trovi un biglietto, è privo di firma, ma non ha
alcuna importanza, ripete più volte che ti vuole vedere,
che sulle sue mani c’è ancora il tuo odore, che sa di
talco e profumo di donna più grande, e indelebile
ristagna e non è andato più via. C’è un numero e pensi
cosa potrebbe accadere, c’è un numero e chiami e batte
forte il tuo cuore, come se avessi vent’anni o di meno,
tremi al pensiero che sia tutto uno scherzo, tremi
pensando che non corrisponda al ragazzo, ed invece è lui
e senti la voce, la sua voce infantile che non parla e
non dice, i suoi mugugni che non sanno spiegare, e tu di
rimando prendi tutto il coraggio. “Domani sì ok domani
sicura, di fianco le scale a Lettere antiche, alle 16 in
punto ci sono a domani.”
Càpita che chiudi il
telefono e ti senti distrutta, senza energie ti chiedi
cosa tu stia facendo, cosa ci possa essere dentro un
bambino, che curioso ha toccato per caso il tuo incavo,
che timoroso ha ritirato immediatamente la mano,
attratto da un seno di donna matura, da una vestaglia a
fiori che ti ha giocato uno scherzo. Che ci fai ora
davanti allo specchio, a sentirti di colpo più brutta ed
anziana, a limarti le unghie ed un brivido freddo, che
corre autonomo lungo la schiena. “Sarà, ma davvero non
mi sento all’altezza.” Pensi di chiamarlo ed annullare
l’incontro, pensi alla ricrescita che hai trascurato, ai
capelli da mesi che vorresti tagliare. Hai paura che
l’estetista capisca, che in quel fare deciso c’è una
donna ridicola, che inutile tenta di rifarsi una faccia,
coprire le rughe e calare i suoi anni, come il tuo seno
davanti allo specchio.
Càpita che il tuo viso
arrossisca più volte, quando la parrucchiera ti guarda,
sorride ed ammicca, chissà quante altre su quella
poltrona, le hanno chiesto dubbiose l’identica cosa,
quante in preda alle bizze di un giovane amante? Pensi a
Dumas ma non ti viene in aiuto, pensi alla tua amica,
“Chissà cosa direbbe!” Con lo sguardo capisci attraverso
lo specchio, che se lui ti vuole gli stai bene così, che
l’attrazione per una donna più grande, va oltre le rughe
e le unghie limate, i colpi di sole che ti riflettono in
testa.
Càpita, che la notte scorra lenta ed
insonne, e che adesso davanti all’armadio rimani per
ore, pensando che sei in maledetto ritardo, ma poi ti
decidi di vestire più sobria, e lasci da parte la tua
seta intrigante, i tuoi tacchi più alti per sedurre i
suoi occhi. Perché ti sembra davvero di fare violenza, a
chi ha osato quando eri in vestaglia, rischiando un
ceffone, la vergogna e il disagio. Più che una donna ora
sembri una nonna, più che femmina un nido, un ventre e
una tana, il posto più caldo per accoccolarsi la notte,
senza che l’ardore abbia qualche sussulto.
Allora càpita che ti spogli di nuovo e di fretta ti
metti una gonna più corta, una camicetta bianca ed il
tacco più alto, poi un trucco deciso e un rossetto
ciliegia, che dia un tono al tuo viso, ma comunque a
misura, perché mai debba credere che cerchi dell’altro,
che i tuoi pensieri insolenti vadano cercando, un parco,
una siepe al riparo, dove l’imbarazzo non sia troppo
evidente, e il tuo vago bisogno abbia almeno un chance,
per sapere davvero quanto voglia rischiare, e tu
metterti in gioco senza osare poi troppo.
Càpita
certo che càpita, che dopo un’ora di passeggiata in
silenzio, ti senti una mano sopra la spalla, ora davvero
non sai come comportarti, non puoi davvero far finta di
niente, t’imbarazzi ed incespichi, dai colpa ai tuoi
tacchi, ma non dici nulla e ti lasci guidare, tra i
marciapiedi sconnessi d’una Roma affollata, tra una
pioggia sottile che ti rovina i capelli, tra i tuoi
pensieri che forse vorrebbero altro, un posto tranquillo
dove rivedere il coraggio, le sue mani ladre che si
tuffano ancora, in quell’incavo che ad arte hai lasciato
scoperto, per poi adagiarsi e sentire il suo gusto, il
peccato più intenso d’accarezzare una donna, la
disubbidienza sfacciata di sentire un ragazzo.
Càpita e come se càpita, sentirsi la smania che cuoce di
dentro, che ti tira le dita e t’allunga le gambe, perché
quelle ore che hai atteso per giorni, si allungano
anonime verso la fine e implacabili volgono verso il
tramonto. Quel braccio incollato sembra ora un ramo
insecchito, che per più di due ore non ha dato i suoi
frutti, allora affretti il tuo passo cercando con gli
occhi, un posto tranquillo che vi ripari dal resto, uno
scorcio di Roma dove non passi nessuno, un cartellone,
una siepe che tolga la vista, due macchine alte per un
bacio rubato. Ma niente, lui parla d’una vacanza a
Parigi, d’una ragazza belga incontrata per strada, d’un
suo amico che studia chimica a Londra, e tu non
l’ascolti, pensi a quella mano pendente, che dondola e
sfiora in tuo presente abbondante, e galleggia nell’aria
senza stringere altro.
Càpita! E come se non
capita! Entrare in un bar e fingersi stanca, cercare con
gli occhi la saletta privata, per poi sederti con lui
davanti, togli le scarpe e massaggi i tuoi piedi, e
t’apri il soprabito e slacci la giacca, per fargli
notare ciò che si è perso, che un panorama di Roma non
vale il tuo seno. Càpita che ti piace lasciarti
ammirare, che ti guardi intorno e felice t’accorgi, che
negli altri due tavoli non siede nessuno, che il ragazzo
del bar stranamente di fretta, ha già portato il tè e
una spremuta d’arancia.
Càpita, e come se non
càpita, che aspetti impaziente che lui abbia un
sussulto, poi gli vai vicino e mentre parlate, con la
mano tremante stringi la sua, e con l’altra indugi e poi
di fretta, sbottoni un’asola per fagli capire. Ma la sua
mano stringe soltanto il bicchiere e tu credi che non
abbia notato, oppure che un bottone non servirebbe a
nessuno, neanche al crocefisso per farsi notare. E
allora via l’altro senza pensarci, perché quel merletto
che ora fa capolino, gli faccia capire che ora sarebbe
diverso e di sicuro non rischierebbe un ceffone e men
che meno tu fermeresti la mano.
Càpita che in
quel posto non ci possa essere altro, e che ora tu
vorresti dell’altro, almeno i sospiri di un amante che
osa, almeno i pensieri che vanno da soli, e ti facciano
sognare almeno un albergo, una stanza in penombra, una
casa al mare, e che ti prenda a parole se non è
possibile altro, e che ti dica domani senza il pretesto
del libro, ma lui non osa, prende solo quello che offri,
docile ed inesperto senza chiedere altro. E la senti che
non è una mano di uomo, e la senti che è quella di un
bimbo e non è di sicuro la brama di un maschio, che a
quest’ora di certo ti avrebbe almeno baciata, oppure
cercato la chiave del bagno, fino a costringerti a
respingerlo indietro, a dirgli che non è il luogo più
adatto e nemmeno il momento per una signora per bene.
Ma càpita che in fondo è come avevi previsto, perché
con lui è diverso e ti senti sicura, che niente succede
se il tuo ardore non vuole, ed allora lo abbracci come
fosse tuo figlio, e allora gli porgi le tue labbra
materne ed assisti appagata e contempli la scena. E sazi
i tuoi occhi con quella bocca infantile, che ora ti
bacia leggero le labbra, come leccasse un gelato di
more, e tu con la mano che lo inviti e lo sproni, e lui
che ti bacia con la lingua del cuore. Bacia il tuo
passato che ogni tanto ritorna, bacia e si muove come se
scalciasse nel ventre, e ti lascia tre mesi passati nel
letto, la scelta tra Luca e il nome del nonno, ci hai
provato tre volte, ci hai provato testarda, non lo
volevi accettare ed ogni volta un aborto.
Chi se
ne frega se è il figlio della tua amica, perché questa
saliva ti bagna l’anima dentro, come un cane che
mostrando il suo affetto ti lecca nel punto dove t’ha
morso. Continua a baciarti e lo senti tra i denti, come
se cercasse il tuo sapore di madre, quei giorni passati
da sola nel letto o quando bambina t’abbandonavi curiosa
a pensare come fosse l’amore, a crescere in fretta per
poterlo provare. Saranno passati soltanto secondi, ma ti
sembrano ore, giorni ed anni, e sai già che il cameriere
non tarderà altro tempo, come sai già che questa
giornata non ne avrà una gemella, non perché tu sia
delusa, ma sarà arduo ricominciare da zero, scavarti in
fondo e ritrovarti di nuovo, vuota di remore senza
almeno pensare, che queste labbra hanno solo vent’anni,
e per giunta è il figlio della tua amica migliore, che
questa bocca l’hai vista piccola e bimba, quando sporca
di pappa non voleva mangiare.
Ed allora speri
che il cameriere ti lasci altro tempo, lo invochi e ne
sei certa che ti stia ascoltando, allora slacci la
camicia fino all’ultimo bottone, la apri in un incanto e
gli dici di baciarti, e per nulla al mondo di avere
timore, di osare fino in fondo e sentire il calore. Lui
è lì davanti che guarda i tuoi seni, non sa cosa fare,
guarda e li contempla, fino a quando finalmente si
decide, ma quella mano leggera che si posa non stringe,
ma tu risenti quel tatto che t’ha condotto per giorni, a
sperare davvero che bussasse di nuovo, ma era il
postino, la portiera che lava, e tu dentro nel letto che
rimanevi delusa.
Càpita ora che la smania ti
prende, e tu lo guidi e lui obbedisce, ma non sa quale
scegliere per farti più piacere, come se si rammaricasse
di non avere due bocche, o averne una più grande per
poterli contenere. Tu lo inviti e lui s’avvicina, ad
occhi chiusi s’accanisce nel mezzo ed un respiro caldo
denso sbatte tra le sponde, come se fosse vento che
spira tra le gole, e porta il mare grosso che l’asciuga
e li ribagna. Lui insiste ma tu sei oltre, ormai non è
la sua bocca a darti piacere, non è il tuo seno che si
bagna e la rivuole, non è questo soffitto e nemmeno un
cameriere, sono suoni d’altri mondi che risiedono nel
ventre, è un vortice infinito di immagini lontane, un
vagito lontano, un’ostetrica sorridente, è lui che si
ferma e ora ti guarda dal basso, perché sa che ha fatto
il suo dovere, fino in fondo, completamente, mentre tu
in estasi accarezzi la sua fronte, quando d’incanto dal
tuo seno, spunta dolcemente una bolla del tuo latte.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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