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Adamo Bencivenga
Era già passato il mare
Photo Max Eremine
Avevo pochi anni e tra le
mie gambe era già passato il mare, era passato quel
vento sottile che alza le gonne di stoffa leggera ed
asciuga le pieghe ancora sgualcite da quell’ignoto
piacere che da rossore infantile s’era fatto nel tempo
vero bisogno. Non ricordo quale sia stata la ragione,
quale il mio istinto quando, all’uscita di scuola, mi
fece salire su una macchina scura e senza sapere la
strada andò senza fermarsi diritta in pineta, ai bordi
di quella ferrovia che m’aveva visto per anni giocare,
per anni tappare occhi ed orecchie ad ogni passaggio di
treno.
Non ci fu bisogno di dire, senza attende
oltre mi prese, mentre il mio cuore batteva curioso per
come il mio sesso potesse accettare il proprio opposto,
il proprio contrario, nebuloso ed informe nei sogni
notturni, nonostante i miei sforzi di dare un contorno,
ai dubbi che ogni sera nel letto si facevano reali.
Senza parlare mi prese, mi prese tra gli aghi di pino
rischiarati di giorno, tra i treni veloci che correvano
altrove, e mi prese senza parole, tra le mie voglie che
rimasero intatte, come se il suo affanno non mi
riguardasse e come se il piacere più volte sognato fosse
dietro al prossimo angolo. Tornai a casa delusa con la
sola paura che dai miei occhi potesse trasparire il
piacere, che non avevo provato, e dalla gonna
stropicciata tutto quello che in un attimo mi era
successo.
Passò qualche giorno e fu solo
questione di ore quando i miei compagni di scuola
s’accorsero che ero cambiata, che le mie domande erano
diventate d’improvviso risposte e d’improvviso mi
sentivo più grande dei cuori trafitti impressi sui
diari. Passò qualche minuto soltanto, per convincermi di
essere innamorata nella testa e nel sesso, entrambi
storditi e ripieni di un immenso segreto, ma senza che
il cuore avvertisse un sussulto o le mie mani un leggero
tremore. Immancabilmente ogni giorno, finita la lezione
lui mi aspettava con il motore acceso lungo la stradina
laterale della scuola. Allora lui partiva a razzo e solo
allora potevo baciarlo, solo allora accarezzargli il
viso, perché l’uomo dalla macchina scura era il mio
professore di filosofia, collega di mio padre della
stessa scuola.
Senza accorgermi in poco tempo
diventai grande, ad immagine e somiglianza dei suoi
desideri, convinta che nessun coetaneo avrebbe potuto
farmi sentire più donna, e nessuna lezione di filosofia
m’avrebbe fatta crescere così in fretta. Ben presto la
pineta divenne una stanza d’albergo e la mezz’ora,
all’uscita di scuola, un’intera mattina clandestina e
proibita che mi riempiva d’orgoglio per il solo sapore
d’averla vissuta in segreto. Divenimmo complici, per
quanto un’allieva possa esserlo di un adulto professore
e comunque non gli chiesi mai l’età, per il timore che
ne avesse più di mio padre, e che il tiepido amore che
ogni giorno cresceva potesse arrestarsi di fronte al
futuro impossibile. Forse cinquanta, forse di più, ed è
per questo che non l’ho mai chiamato per nome, perché
mai mi sono sentita alla pari, come mai gli ho chiesto
quale passato gli avesse riempito tutto quel tempo.
Chissà cosa avrei dato al momento, per sapere quante
donne avessero saziato i suoi bisogni e quante,
altrettante, l’avessero ridotto ad essere unico ai miei
occhi.
Forse cinquanta, forse di più… ma
ugualmente non sono mai stata capace di oppormi alle sue
voglie, mai l’avrei contraddetto, ogni giorno succube
delle sue mani e ribelle a tutto il resto, asservita
alle sue parole che s’infiltravano decise tra i miei
pensieri insicuri e in quella stanza d’albergo di fronte
alla scuola indossai le mie prime calze nere con l’aiuto
delle sue mani più esperte, ma quella volta, per quanto
a suo dire fossi bella, non mi volle sfiorare nemmeno,
rifiutando più volte il mio desiderio di corrergli in
aiuto. Ci rimasi quasi male, quasi delusa, senza
rendermi conto invece di quanta autostima cresceva
parallela ai miei anni, e solo in seguito capii il suo
amore per la bellezza, il culto della sensualità quando
affacciata alla finestra lo sentivo ansimare, lo sentivo
sudare per questo mio corpo acerbo.
Mi chiamava
Eva in ogni momento che l’occasione consentiva, come per
imprimere nome e passione nella sua mente e non
scordarmi durante le ore che eravamo distanti. Mi
chiamava Eva, Eva, Eva nel momento più bello, quando non
aspettavo altro che essere sua, mi ripeteva Eva, come un
ossesso, quando ormai plagiata nell’anima assorbivo il
suo amore come carta assorbente o, quando trafitta nel
cuore e nella mente, speravo che le sue urla di gioia si
prolungassero nel tempo, fino ad un attimo prima di
scendere le scale o fino a quando mi riaccompagnava in
macchina e, poco distante da casa, lo baciavo come fosse
un ultimo addio. Ovviamente non capivo perché mi
cambiasse nome, mi sembrava buffo e lo accettavo, ma lo
compresi più tardi quando capii che quell’amore così
singolare andava oltre me, oltre la mia persona.
Amavo quell’uomo come si ama qualcuno quando t’accorgi
d’averlo sempre conosciuto, ed io lo conoscevo da
sempre, da quando nella culla feci il primo sorriso, da
quando bambina lo aspettavo alla porta, da quando più
grande di nascosto dai miei gli diedi il primo bacio. Lo
conoscevo perché era amico e collega di mio padre, poi a
liceo ero capitata casualmente nella stessa sua classe.
E già dal terzo liceo si era offerto di darmi lezioni
private, e fu un pomeriggio, quando mi spiegò
pazientemente il concetto d’origine del mondo per
Anassimene, che mi sfiorò il collant, per poi risalire
con la mano fino a quella parte del mio corpo che
istintivamente già lo invitava, ma lui non andava oltre
ed io mi dimenavo contro la sua mano immobile e
consapevole che non era ancora quello il momento. Seppe
aspettare ancora, seppe aspettare con il motore acceso
tutti i miei giorni di scuola finché decise che era
finita l’attesa ed io lo pregai di condurmi, senza
fermarsi, ai bordi di quella ferrovia dove avrei
cominciato un altro gioco senza chiudere occhi ed
orecchie al prossimo passaggio di treno.
Mio
padre non s’accorse mai di nulla, mentre mia madre
cercava di non lasciarci mai soli. Non capivo il suo
atteggiamento, in fin dei conti era il mio professore di
filosofia che mi stava dando ripetizioni. Ci guardava
come si guarda un francobollo dentro una lente
d’ingrandimento, ci scrutava ogni volta, quando finita
l’ora, cercava nella mia gonna le pieghe sgualcite che
lei aveva certamente stirato. Ma non mi importava nulla
dei suoi sospetti perché già pensavo che a breve ci
saremmo sposati, già i miei sogni s’erano fatti velo
bianco e cerimonia dove solo in quel momento avrei
svelato il mio grande segreto e confessato a tutti il
mio amore per il professore di filosofia, amico di papà.
Ma aveva ragione mia madre! Meglio di quanto potessi al
tempo immaginare, meglio di mio padre che alle volte,
ignaro di tutto, si fermava fino a sera tardi a
disquisire con lui d’arte e filosofia.
Guardando
gli occhi silenziosi di mia madre capii in quale triste
situazione eravamo capitate. Le sue lacrime gelose
scorrevano nel bagno e bagnavano i miei trucchi che mi
facevano più bella e rivale. Lo scoprii in una mattina
di sciopero quando mi bastò infilare le chiavi nella
porta di casa e fare quattro passi nel corridoio per
vedere nella mia stanza mia madre e il mio professore.
Erano in piedi abbracciati, si stavano baciando, lei
indossava un paio di calze nere con degli strass che non
avevo mai visto. La facevano bella e sensuale, donna
come non l’avevo mai vista. Appena li vidi mi prese una
specie di collasso, feci fatica a rimanere in piedi, e
sorreggendomi feci rumore. A quel punto come ad un
preciso segnale l’atteggiamento di mia madre cambiò,
iniziò a piangere chiedendo a lui delle risposte alle
sue domande, e cioè di essere l’unica donna ad aprirgli
il cuore, di essere ancora la sola donna della sua vita.
Lui non parlava, poi avvicinando la sua bocca a quella
di mia madre, la chiamò Eva! Poi lo disse a voce più
alta come se qualcun altro dovesse sentire. Ero
incredula, non capivo, mi sembrava un vero incubo,
respiravo a malapena per non farmi sentire. Ero
distrutta, mi tremavano le gambe, ma rimasi ad ascoltare
i lamenti gelosi di mia madre che rivendicava di essere
più donna della figlia: “E’ una bambina, cosa ci trovi?”
E poi: “Non potrà mai darti quello che ti ho dato io in
tutti questi anni.” Ecco quello che non avrei mai voluto
sentire! Per un attimo mi ero illusa che la loro storia
fosse iniziata in quel momento, che l’affascinante
professore fosse soltanto mio e trovandosi in casa con
mia madre avesse ceduto alle proprie debolezze. Ma non
era così.
Sentii ancora mia madre dire che ero
uno ragazzina e che lei non aveva nulla da invidiare.
Così dicendo lo baciò avidamente, poi da vera femme
fatale si affacciò alla finestra mettendo in mostra il
suo corpo morbido e ancora sinuoso e le sue belle gambe
ammantate di nero. Lui seduto sul bordo del letto la
guardava, non troppo convinto di resistere alla
tentazione fatta persona. A quel punto scappai sentendo
gli inviti caldi di mia madre, evidentemente decisa a
non mollare la preda, scappai per non rientrare mai più
in quella casa. Andai da un’amica e solo a sera tardi
telefonai per avvertire che avrei dormito fuori. Rispose
mia madre e con mia profonda amarezza sentii la sua voce
calma e soddisfatta, mi chiamò perfino: “Tesoro”.
“Avevano fatto l’amore…” Pensai. Durante la notte piansi
per la mia poca esperienza, per come ancora bambina non
avevo capito che la realtà non fosse fatta solo di
illusioni. Mi rimbombavano in testa le parole di mia
madre, intenta ad avere tutto per sé quell’uomo fino al
punto di vedermi sotto l’unica luce di donna rivale.
Cercai più nella ragione che nel sentimento la mia
rabbia, ma dalla mia bocca non uscì alcuna saliva quando
il giorno dopo salii sulla macchina scura con il solo
scopo di sputargli in faccia odio e disprezzo, ma non
uscì nessuna parola che potesse ferirlo quando la sua
mano risalì le mie gambe che docili non attesero altro
che essere guidate. E non opposi alcuna resistenza
quando sottobraccio salimmo le scale di quel paradiso al
primo piano.
Bastò varcare la soglia per
afferrare il suo piacere e condurlo maestoso
nell’oscurità delle mie voglie scomposte, fino a
sbaragliare, nel breve tratto in salita, le tante
ragioni che solo la mente aveva generato. Uscirono urla
dalla mia bocca, ma solo di piacere, solo attimi
d’incontenibile follia quando avvertii la netta
sensazione che era e sarebbe stato ancora mio. Avrei
voluto domandargli a brutto muso quali fossero le
differenze tra il mio sesso e quello di mia madre. Non
so, più spugnoso, più bagnato, più morbido o comodo, ma
non dissi nulla. Ero stupita, sorpresa, cercai invano le
ragioni che mi avevano condotto lì, era un essere
immondo, per mesi mi aveva tenuto nascosta la sua
relazione con mia madre. Non potevo crederci, il mio
professore era l’amante di mia madre! Ma era proprio
questo il punto. Il mio orgoglio prese il sopravvento.
Perché avrei dovuto desistere, rinunciare, recedere? Per
quale motivo arrendermi? Lui era mio e non di mia madre!
In caso lo era stato! Ora era mio! Del resto non gli
avevo mai chiesto nulla del suo passato e chissà quante
altre madri e figlie c’erano state nei suoi anni. A quel
punto lui mi prese senza respiro, intuiva i miei
pensieri, mi disse esattamente cosa stessi pensando e mi
prese più forte fino a ricacciare nel mio sesso tutte le
convinzioni notturne, le stesse che ora ritenevo
insensate, infantili e si disintegravano ad ogni
passaggio.
Mi resi conto che non avevo nulla da
chiedergli e mentre era dentro di me accennò al giorno
prima, ma senza scusarsi di nulla, mi disse solo che si
era accorto della mia presenza e mi rimproverò per non
aver avuto il coraggio di assistere fino in fondo. “Devi
imparare ancora molto da lei!” Poi mi disse che era
stato lui a dire a mia madre della nostra relazione e
che quell’incontro era stato organizzato, sapendo dello
sciopero, per mettermi al corrente. “Le parole a volte
non dicono tutto, sai! Ed io volevo che tu ti rendessi
conto.” Poi dopo un attimo di pausa, mi disse
solennemente guardandomi negli occhi: “Io e lei stiamo
insieme da una vita. Tuo padre non si è accorto mai di
nulla e noi abbiamo vissuto segretamente una storia di
altri tempi, una storia di amanti clandestini e
passionali che mai hanno potuto coronare il loro sogno.”
Poi mi disse che il giorno prima avevano fatto l’amore e
che lui, se non fossi andata via, avrebbe pronunciato
davanti a me la parola fine. “Provo ancora un affetto
immenso per tua madre, ma lei sta sfiorendo, ci stiamo
inaridendo e quando un amore non cresce inevitabilmente
muore. La mia paura è che finisca tutto
nell’indifferenza ed io non voglio che un grande amore
svanisca nell’oblio.” Fece una pausa e poi riprese: “Poi
sei arrivata tu, sei cresciuta, e solo il destino poteva
farmi questo meraviglioso regalo. Tu le assomigli tanto,
sei il proseguimento di un amore, come se il destino
avesse deciso che quell’amore non dovesse morire mai.
Ovviamente lei non sente ragioni, sarà una lunga agonia,
ma già pronta a rinascere in altre forme. Per questo
motivo tu dovrai pazientare, per questo amore, unico e
vitale che va oltre le persone.”
Non capivo,
anzi sì capivo benissimo, capivo che tra loro non era
finita, che avrei dovuto lottare ancora tanto, ma capii
ancora meglio quando il mio professore tirò fuori dalla
tasca quel paio di calze nere con gli strass che avevo
visto il giorno prima indosso a mia madre. Non chiesi
nulla, come nulla lui a quel punto avrebbe dovuto
spiegarmi. Le presi in mano con tanta delicatezza come
fossero un oggetto sacro, le annusai sentendo l’odore
della pelle di mia madre, poi, seduta sul bordo del
letto, le indossai lentamente senza parlare. Mi sentivo
diversa, come fossi io, come fossi lei, come fossi
unica, come fossi l’erede di un grande impero, ed
obbedendo a ciò che non mi aveva chiesto lo baciai
avidamente, poi lo invitai con voce calda, come avevo
visto e sentito fare a mia madre il giorno prima. Ero
pronta a tutto, e tutto successe nel breve attimo di un
desiderio. Lentamente mi scostai da lui, spalancai la
finestra e affacciata con i gomiti sul davanzale,
avvertii chiaramente i suoi occhi guardarmi
intensamente, fu quella la prima volta che mi sentii
davvero desiderata. Poi lo sentii ad un passo, sentii il
suo fiato caldo. Mi prese di nuovo, e mentre il dolore
saliva, la nebbia di marzo invase il mio cervello ed
avvolse le sue parole che divennero via via straniere ed
incomprensibili. Ero caduta in una sorta di incantesimo,
contenta di emulare mia madre accettavo quell’uomo, quel
sesso, quel dolore e quelle calze fino a credere che
niente avrei potuto desiderare di meglio. Mi chiamò Eva,
due volte e poi ancora, e in quel preciso istante
compresi quel nome, perché ero lei, ero mia madre, ero
il tempo che passa e la natura che si rinnova, l’erede
di un grande regno, ero la continuazione di una
meravigliosa storia, ero la storia infinita, ero
l’amore, eterno.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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