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Adamo Bencivenga
Il mestiere antico
Senti,
sarà pure vero che ciò che fai è il lavoro più
abietto sulla faccia del mondo, senti sarà pure vero
che il trucco che porti è un’impronta indelebile
sulla tua pelle, un marchio a fuoco, un tatuaggio
per sempre, ed anche dopo struccata ne senti
l’odore, e ti sembra che gli altri lo riconoscano
ovunque, ovunque ti trovi, ovunque ti porti, e
reciti versi e li lasci cucire, dalla luce che nasce
e quella che muore, dentro l’anima a volte che
confondi col cuore, perché sarà pure vero che tutto
ciò non fa poesia, sarà pure vero che l’amore è da
tutt’altra parte, ma che ci vuoi fare se in fondo lo
adori, se quello che offri è solo un dettaglio, e ti
piace lasciarti guardare, e ti piace sentir le
parole, che sanno d’assoluto, d’infinito universo,
indispensabile al mondo, necessaria alla vita, come
una madre in sala da parto, mentre intorno t’avvolge
una notte di stelle, d’aria fredda che sbatte sul
tuo profilo più bello, d’aria calda di fiati che
t’appanna la vista.
Il cielo stasera ha un
cupo colore, d’un giallo velato che intorpidisce
quest’acqua, di un rosa che stria le nuvole basse, e
scolora le mani e le tue labbra di rosso, e smuore
lì in fondo alla riva che curva. Il cielo stasera
rimane in disparte, come fosse la scena e tu la
regina, perché porti un vestito che bianco traspare
ed assume i colori della luce riflessa, perché porti
una pochette ed un filo di perle, dei guanti di seta
che ti fanno signora, e grandi orecchini che ti
fanno fanciulla, e ti arredano il viso come lampade
a muro, sotto un cappello dove deponi i tuoi sogni,
come uova di merle rimaste infeconde.
Sarà
pure vero che gli altri ti credono pazza, sarà pure
vero che ci credi davvero, perché sei figlia di un
avvocato e di una madre distratta, che asciuga lo
smalto ogni notte a quest’ora, e sicuramente non è
per soldi che passeggi e ti fermi, o quando ti siedi
ed accavalli le gambe, ai tavolini all’aperto dietro
grandi fioriere, dell’unico bar aperto di notte.
Tanto lo sai che sarà breve l’attesa, qualche minuto
e ti senti una stella, qualche secondo per sentirti
più bella, sopra un palcoscenico con gli sguardi
puntati, dietro le quinte come quando allo specchio,
ti trucchi e ti vesti prima di uscire, e curiosa
componi una donna diversa, un contorno da sogno di
colori e di stoffe, di malizia alle volte, di
evidenza alle altre, e sfumi l’ombretto e trucchi le
labbra, con un punto di rosso che non ha bisogno di
luce, per riflettere al buio ed avere attenzione,
come un cappello raso sull’acqua, che lento
s’immerge come ti capita spesso, d’affogarti di
notte tra le tenebre strette, in una strada in
discesa coperta di sabbia, tra dune e sterpaglie e
un fascio di luna, che fa luce e penombra e la culla
all’amore.
Senti, sarà pure che nessuno ci
crede, perché non c’è poesia dentro questo lavoro, e
tra le tue gambe c’è una crepa che corre, che
chiamano sesso, che chiamano altro, tanto poi conta
chiudere gli occhi, e respirare quel mare con il
naso e le ossa, e sentirsi una barca che si dondola
al largo, ed avvertire distante la feccia e la
melma, miste al profumo di fiori d’arancio, perché
tu davvero ti senti una sposa, quando indossi le
calze candide e intatte, quando danza alla brezza la
tua gonna d’organza, e leggera raccogli con una mano
i capelli, perché lo sai che tra poco lo senti, un
fischio volgare, uno schiocco di dita, per essere
delta, per essere foce, di un fiume impetuoso che
sbaraglia le sponde ed esonda bollente sulle fertili
forme.
E ti baciano il collo e ti annusano
il sesso, e ti dicono bella e ti dicono altro, tra
il rumore del mare che senti a due passi, o quello
muto del vento che lascia l’impronta; e sono
strascichi lunghi e risucchi e gorgogli, e sono code
di baci che a turno riponi, e confondi ogni volta
con la saliva più calda, che scia sulla pelle e ne
senti il piacere. Che bello, che voglia lasciarti
cullare, che bello che voglia lasciarti portare, da
quel senso infinito di vuoto e di pieno,
indispensabile al mondo, alla notte, alle mani, alla
brama che senti nella folla di dita, come luci di un
palco lungo la pelle, perché è un attimo breve e non
c’è lavoro che tenga, perché tu sei la regina,
l’attrice, la fama, il trofeo di caccia, la
vittoria, il bottino, la dea bendata che a caso
sorride, e dispensa fortuna come semina grano, e
decide a chi dare per intero la posta, il premio più
ambito, la corona e la coppa, la sola a quest’ora
per dare un senso alla notte, un verso di merla che
solitaria richiama, il primo che a caso riempia il
suo nido, come se tutte le donne non avessero tette,
o tu fossi l’unica al mondo ad averle più grandi.
Senti sarà pure che il vento ti gela, le
mani, le labbra e le gambe gemelle, e il mare
d’inverno è pura poesia, solo per chi al calduccio
lo scrive, perché alle volte fai fatica ad essere
brava, ad esser te stessa, esperta e padrona, anche
se poi mai li guardi negli occhi, ma cosa servirebbe
se lo facessi davvero, incrociare lo sguardo e
scambiarci un sorriso, spettinargli i capelli e
baciargli la bocca, baciargli la voce, le pause e i
punti, quando ti dicono che fai bene l’amore, quando
ti urlano come te mai nessuno, e sussurrano frasi
dette e ridette, e dentro il tuo petto ci batte
l’ardore, e tra le tue gambe un piccolo fiore, che a
notte si sfoglia, all’alba si schiude, e spunta tra
il tulle di un fiore di carta, come se fossi una
sposa novizia, in una stanza d’albergo la prima
notte di miele.
E che sia la stanza della
pensione di fronte, e che sia la spiaggia oltre la
strada, o la duna che il vento rimonta e poi spiana,
ma davvero ti chiedi se abbia importanza, se tutto
questo è missione e tu faccia del bene, come fossi
una suora che asciuga la fronte, un’infermiera in
trincea di un campo di guerra, ed ammansisce il
dolore ed addomestica il male, perché tu sei il
bisogno che lava il presente, tu sei quel sogno che
cancella il passato, e fa scordare che il mondo qui
fuori fa schifo, e tutto intorno è una guerra con le
macerie fumanti, e tutt’intorno violenza, egoismo e
rifiuti, e tu offri te stessa e qualche volta
nemmeno, perché basta un bacio oppure nient’altro,
oppure lo spacco della gonna che s’apre, e dentro
c’è un circo di fiocchi e merletti, e nastri e
colori e trine e ricami, a quel candido fiore che
sboccia ogni volta, e sparge nell’aria un effluvio
leggero, che sa di richiamo, di violetta e lavanda,
di gemma che sboccia a febbraio inoltrato.
Perché allora dovresti sentirti più sporca? Perché
vergognarti del seno che mostri? Lo scopri quel poco
per svuotare l’attesa, lo scopri quel tanto per
riempire la notte, per aprire due occhi ancora
indecisi, se farsi una donna o finirsi da soli,
tornarsene a casa o chiedere un prezzo, e chiedere
quanto sia consentito volare, e quanto poi dura il
palio e la giostra, e quanto poi costa la tariffa e
il biglietto, nella voglia d’averti e di fermare la
danza, di mettere in gabbia le tue tette leziose,
che ora ballano al vento mentre cammini, che ora
chiedono mute di farsi toccare, d’essere linfa e
sorgente di luce, lampi accecanti di un temporale
vicino, perché sono stelle che orientano al buio,
sono tette sfacciate che sorridono a tutti, come
orfani bimbi per farsi adottare, obbedienti e
infedeli che si danno per poco, ribelli e sfrontate
che si danno per tanto.
Sono campi di grano,
rigogliosi e fecondi, distese di mare che nutrono
pesci, ma anche siepi d’alloro che sanno di piscio,
lische marcite per i gatti di notte. Sono palle
bagnate di saliva e di voglia, spugne sgualcite di
piacere imbevuto, poi il vento le asciuga e
riprendono forma, pronte e stirate per la prossima
bocca, che esperta le tratta come un bene prezioso,
che inesperta le graffia, che infantile le gusta,
come un cono gelato di panna e pistacchio, la
domenica in piazza nella bella stagione. Sono gatte
in calore sotto le finestre di notte, che
s’accoppiano al primo dopo ore di corte, ma poi
ammiccano al branco che muto le aspetta, quando i
fiati del primo si fanno insicuri. Tu cammini, le
ostenti e le gonfi ogni sera, perché siano ombrelli
per ripararli se piove, perché siano stufe per
scaldarci le mani, e siano chiocce, ricordi materni,
per chiunque s’illuda d’averle già viste, attaccate
alle madri che sgorgavano latte. Come vorresti che
ne uscisse abbondante, per ogni bocca che succhia e
ogni lingua che lecca, come nettare d’anima che
nutre la mente, e farla ingozzare fino all’ultima
goccia, quando scade la voglia e s’affloscia il
respiro, e non rimane che sonno e non rimane che
niente, forse solo la luna che si spegne nel mare, e
lascia un alone che tu scambi con l’alba.
La
tua amica ti guarda, è poco distante, si muove
sicura ed ha mirato una preda, e quello che pensi
non la sfiora nemmeno, sono balle soltanto di una
ragazzina borghese, che ha il padre avvocato e
s’illude ogni volta, che l’amore che cerca è nella
bellezza che prova, che cerca ogni notte spalancando
le gambe, che trova soltanto tra il letame e gli
avanzi, convinta che al mondo non c’è posto
migliore, per far nascere rose e nutrire i suoi
sogni. Sono brividi forti, sono colpi di maschio,
che cerca all’estremo un piacere più alto, come se
il tuo sesso fosse solo l’entrata, di un circo con i
clown, gli acrobati e i nani, un capriccio che passa
non appena conquista, per il desiderio più intenso
vicino ai polmoni, per sentire una donna e
sentirsela tutta, quando geme e poi urla e
s’accascia di voglia, e fiero s’innalza incredibile
e vero, per esser riuscito ad inorgoglirsi quel
tanto, di sentirsi più uomo anche se a pagamento.
Senti sarà pure vero che t’illudi soltanto,
perché tutto questo non ha mai fatto poesia, e
quello che fai è il mestiere più antico, e le
puttane ci sono senza dubbio da sempre, come i cani
d’inverno con le bocche fumanti, come i pini marini
ritorti dal vento. Ma se scavi nell’anima di ogni
cosa che vedi, se giri di notte e passeggi e
cammini, vedi te stessa in un alone fatato, e ci
vedi una donna in cornice che aspetta, appoggiata
sull’ombra della falce di luna, ed un pittore di
fronte che intinge i colori, nell’umore che cola e
la fanno più bella. Lui dipinge le labbra e
scontorna le tette, scompone la faccia per
ricomporla più tardi, fissando i colori al vento che
tira, al sesso che grande la riempie e la sazia, e
sfama il bisogno di essere bella, di essere regina
di un mondo sommerso, di nani e di gnomi e di avanzi
di notte, di lattine di birra e cocci e vetri, di
zingari onesti in cerca di rame, di figli del mondo
senza una madre, che aspettano l’alba per un goccio
di latte, e l’alba poi viene, certo che viene, e
lava i suoi viali e sbiadisce i colori, e invade le
strade di un grigio languore, di piccole donne
sempre di corsa, di piccoli uomini che inseguono il
nulla, ed allora ti rendi conto che sei fuori posto,
perché il giorno che viene non fa poesia, la luce
che viene sbiadisce le rime, e non ha i colori
adatti per sentirti regina, e non c’è più musica
dentro questo silenzio, ed il mare che vedi è una
piccola fogna, mentre il camion d’immondizie
distante t’avverte, che è ora di andare e scomparire
nel nulla, prendere un taxi che al volo si ferma, e
tornartene a casa ed andare a dormire.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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