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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Invocazione d’amore


 


 
 


Buonanotte filo di grano! Da quando ti ho incontrato non mangio che pane, non bevo che mosto di vino. Non riesco a credere che tu sia anche fegato e polmoni, che tu sia anche viscere e dolore. Ti sei fatto quotidiano come l'odore della stampa, come la pipì al mattino! Buonanotte raggio di luce, d’una luna che grassa m’accoglie nel grembo, d’una luna che secca mi sbatte sui bordi, d’una strada di Roma, senza piazze e traverse, lunga come un destino e per caso t’incontro!
Tu sei il bisogno che arriva ogni notte, la sera che cola e diluisce le ore, sei il tempo che s'affida, si sfilaccia e si rincorre. Grazie per ieri per avermi ascoltata, grazie fiore, terra fertile quando piove, quando ti sogno e mi vieni accanto, non portavo la veletta ma avevo le ali, non c’era terrazza, né Piazza di Spagna, ma un prato di nuvole dove m’offrivo, eterea bianca senza peso e misure.

Mi hai chiesto permesso anche se non dovevi, hai accarezzato i capelli, la nuca, i miei seni, li hai spaiati al riflesso di una luce discreta, per abitudine hai preferito il sinistro, quello che dici ha un’anima a parte, perché tanto vicino al cuore che batte. Lo baciavi come un ciuccio salato, sorpreso, spaurito in attesa che d’incanto sgorgasse, in un getto più caldo, misto a saliva, di nettare e vischio e d’anima munta.
C’era la luna, ricordi? Mi saziavi la bocca e mi fiaccavi le gambe, come ora di notte nutri di grano il mio cuore e fecondi di semi i miei sogni bollenti, qui davanti ostinata che cerco parole, che cerchi il momento per sentire che dentro, c'è una donna più viva che gode e respira e s’illude che ora non serva nient’altro, alle gambe viziate che si muovono sole, alle pause nude che si lasciano andare. Sono fatta di sesso il resto non conta, un filo di sensi appesi che sgrano, come preghiere da bambina nel letto e ripeto ossessiva per lievitarmi dal fondo, l’emozione che ingrossa il cuore e il silenzio.

Ma davvero eri tu ieri sera? Davvero un essere con il naso, le mani? Davvero ero io? Con la voglia di pendere e sentirti vicino, sentirmi all’altezza della tua voglia più calda, di quell’ardore che lento evapora in alto e lievita intenso come il fumo di legna, d’abete sui monti nei camini di notte. E c’era una strada ricordi? Un viottolo lì in fondo dove curvano i rovi, dove i cani a quest’ora ci fanno l’amore, oltre il cancello in ferro battuto, oltre quel pozzo dove l’acqua ristagna, tra i colori del rosso venati di giallo, tra le onde di luce sfumate d’arancio, d’una nicchia di sole che esile filtra, e timida scalda le foglie marcite, e scolora le case, le imposte accostate, le grondaie e gli scoli arrugginiti dall’acqua. E c’era una strada ricordi? Proprio lì dove corrono in fretta i tigli insecchiti, ed arrancano i fiati di pioppi in salita, nel riverbero muto di un barbaglio riflesso, che a piccoli coni scolora i pertugi, le crepe che l’acqua regala al sereno, e poi risale sui tronchi di resina e miele.

T’avrò detto almeno ti amo? Respirato il vapore di parole e di treni, che per quanto retorici sono sogni che vanno, distanti da dove ti scrivo e ti chiamo. M’avrai detto che m’ami? Che almeno stanotte ero tana di voglie, grotte di mare dove nascono pesci, gole profonde che generano venti, che soffiano e seccano questo sesso malfermo, del ventre che apro e spalanco all’amore, come porte e finestre prima d’un temporale. Perché di giorno non sono nulla, non riesco a dire parole, nasco di notte e ad ogni alba poi muoio, sparsa nel buio di tenebre fitte, che penetrano dentro questo vuoto di casa, questo lembo di terra che non trova mai pace, quest’enclave di montagna dove tira sempre il vento.

Mi s'intreccia il respiro se solo mi penso, disposta al piacere in attesa che un soffio, di vento che tira, di brezza che s’alza, m’illuda di essere alcova del mondo. Perché è vento che porta rumori lontani, sapori di muffa di gole profonde, di voci e bestemmie contaminate dal giorno, piccole onde strascicate di suoni, che la notte attutisce e li vela leggeri, che la notte ingrandisce di bufere e frastuoni. E’ vento che lascia un brivido caldo, che passa e rimane e fa mulinello, di carezze e lusinghe, di nobile corte, di voglia che preme e mi lascia il sapore, di tetti e di case, di sentieri scoscesi, di funghi seccati al sole a Novembre, di comignoli neri e di legna che arde, di pioggia in autunno che bagna i sambuchi, i cani randagi ed i vecchi in veranda, che il vento poi asciuga e passa di fretta, tra i filari di uva per il Novello a dicembre.

Io ci sono, tu ci sei? Chissà se sei l'angelo che di notte m'assiste, che all'alba svanisce come nebbia sul fiume. E se tu fossi davvero tu quel vento, che spacca, che sbatte grondaie di notte? Che notte stanotte se torni a trovarmi, a dire parole che sanno d’amore e quelle ficcanti, insolenti e malsane, che di giorno m’arrossano il viso e le guance, ma ora vorrei sentirle gridare, farne rimbombo sulla mia pelle che premi, e si fanno ode e preghiera, liturgiche all’atto, come se davanti ci fosse un piccolo altare. Che notte stanotte se mi trovi da sola, con il cappello che mostro e la veletta che copre il desiderio in penombra che sale e m’affama ed ostento le labbra, quella macchia di rosso, che spargo e dipingo perché sia quello il segno, la parte più buona dove accoglierti adesso.

Ecco mi sento! Sono amore che bagna e vento che asciuga, seno abbondante che potrebbe sfamare, chiunque a quest’ora abbia bisogno di zucchero e sale e latte e diluito nel miele. Ecco mi sento! Sono la femmina che tutti hanno colto, la lupa che sazia e urla impaziente, ad un’anima buona che la svuoti nel fondo, per sentirsi leggera più femmina dentro, che nutre ed allatta una parte del mondo. Ecco ti sento! Sei forza di maschio che arrossa la faccia, bocca che succhia e mi strappa le labbra, perché tu sei uomo e sai fino a dove, puoi spingerti in fondo e toccare il dolore.
Ti prego ora, non farmi aspettare, non farmi sentire ridicola e persa, perché se avessi criterio starei altrove, comunque lontano da queste tue braccia, da questo tuo amore inconsistente al bisogno. Porgimi quel guinzaglio che inutile giace, fammi sentire schiava di un sogno, per dare un verso a questo piacere, che cola, che cala nei risvolti che stiri, e a ragione li cerchi per dargli una piega. E’ carne cruda di un’anima inquieta, polpa illibata attaccata alle ossa, è pelle che scarni con i denti e la bocca, e ne succhi la linfa, il sangue la vita.

Ecco la sento, a capo d’ogni pensiero, la sento la forza che m’annienta e m’annulla, che dà spessore a quest’anima in fiamme, di sterile brama se rimanesse che vuoto, d’urla di oca se non avesse il suo maschio. Tappami la bocca che parla, perché quello che dice non avrebbe alcun senso, vane parole che non dicono nulla, se non fosse per il fiato che caldo t’invoglia, se non fosse per quello che volgare ripeto. Tappami il resto per non sentire il risucchio, d’una risacca che strascica umido denso, ed impaziente t’aspetta come un mare di notte, nel punto preciso dove la luna si trucca.

Sarò pronta per essere il nulla? Sarò vinta per essere persa? Dammi la regola per non sentirmi più degna, il ruolo che spetta a chi cerca una guida, un angelo nero incontrato di sera, che t’invita e t’incurva nel suo mantello di seta. Dammi la regola, la legge, la norma, per essere degna, per essere brava, una gatta di strada che impregna d’odore, e struscia il suo sesso ad ogni muro che incontra, davanti ad una coda che muta ed indiana, aspetta il suo turno annusando il piacere.

Dimmi davvero che stanotte ritorni, a passi felpati perché non mi desti dal sogno, dove nel bagno mi spoglio e mi vesto, mi faccio più bella con un filo di trucco, poi esco ti guardo e passeggio precaria, struscio i miei tacchi come fossi per strada, come bella di notte al primo cliente, tremula porto una foglia di fico, che mi sbatte e mi copre gli anni che conto, come cerchi perfetti nei cuori dei tronchi, nascondo agli sguardi i miei petali rosa di pelle che a vista dà senso e misura, di quanti negli anni ne sono passati.
Chi mi guarda stanotte non avrebbe alcun dubbio, che quello che cerco è linfa e vita, è amore che inseguo in ogni tormento, è la strada che passa a due metri da casa. Come vorrei che fosse già un’altra notte, che le tenebre nuove m’avvolgessero il sonno, come rami di pioppo all’imbrunire d’inverno, come seta che avvolge una vergine intatta. Vorrei sentire le dita che delineano forme, del volto di labbra, del seno che chiede, che sfacciato si mostra e si lascia guidare, perché nessuna bocca a quest’ora potrebbe far meglio, nessuna saliva inumidire la voglia, che sbatte rimbalza e spalanca le porte.

M’accarezzo alla luce di onde di seta, seguendo le forme diafane al tatto, mentre guardo il riflesso d’un’anima pura, d’una rosa fragrante impalpabile all’aria. Chissà se un giardiniere né apprezzerebbe l’odore o una sposa novella ci immergerebbe il suo naso? Vedrebbe sfumati infiniti colori, finché un nero profondo l’inghiotte e lo sfama, questo amore che bramo per avere attenzione, e testarda lo invoco perché valga la pena, di dirmi parole che siano in fondo, rigurgiti sporchi di un tombino che succhia, avanzi di mondo di rutti stranieri, di scene volgari senza capo né coda, ma che abbiano il senso di sentirmi poi persa, dell’unico uomo che mi ama e mi adora.

Se solo potessi gridare il tuo nome! Ti chiamerei ogni ora dall’alba al tramonto, perché tu sia presente anche quando non dormo, anche quando la mano scompare nel nero, nell’orlo vezzoso che mi divide la pelle, e mi strappa la carne in un m’ama e non m’ama. Ma davvero m’ami anche se non mi tocchi? Mi stappi il piacere ogni volta che chiedo? E se non fossi bella? O se lo fossi solo dentro il tuo sogno? Se i miei capelli non fossero onde come tu dici, non s’abbandonassero in mare per essere vele, al vento che spinge, al tuo cuore che sento, e batte e rimbomba come fosse reale, come se fossi vicino ed io distante.

Ma che dico? Non ci può essere amore tra queste parole, tra quest’abbandono che mi ritrova da sola, e fragile m’appendo ad ogni gancio che trovo, per strada di notte, per strada di giorno, dove si ricorrono volti con un unico sogno, che giuro sia il tuo perché finalmente sia certa, la prova provata che davvero tu esisti. Nessun altro finora ha varcato la soglia, ha dormito qui accanto o si è alzato di notte, prima che l’alba m’illudesse d’avere, un uomo di carne, di ossa e sudore, dall’alito forte e respiro pesante. Da quando mi scrivi tutto il resto non conta, t’aspetto premurosa come madre in attesa, come governante solerte che continua a pulire.

Buonanotte amore mio, buonanotte filo di grano. Chissà dove sei e per quale maledetta ragione non bussi alla mia porta, t’aspetto sai e mi dirai che m’ami perché ti scrivo d’amore, ma non sai che quello che esce, è frutto di donna bisognosa d’amare, come un rivolo lento che bollente s’addensa, a rami si spacca, s’ingiallisce e si posa, tra le gambe scomposte che nessuno assapora. Che notte stanotte se rimangono intatte, riempite di vuoto e di parole infeconde, inconsistenti e leziose che non servono a niente, ma io ti aspetto, ti bramo, ti voglio, per riempire la notte che altrimenti scolora, per sentirmi più bella, intrigante e signora, tra mandrie di uomini che s’accalcano a ressa, e mi fischiano dietro perché sono dedita ad un uomo, l’unico a cui ho aperto il mio cuore, e stasera ha deciso di gonfiarmi l’attesa.

Ma cosa scrivo se tu non mi chiami? Se stanotte rimango a rivedermi negli anni, lungo le notti dove marco i contorni, di labbra che rosse stingo al bisogno, di uomini onesti e figli di cani, che m’hanno insegnato a camminare di notte, a schivare lo sterco a passi di danza, senza che il cuore s’accorga per caso, che dipingo le labbra per essere foce, per essere zingara d’un circo ambulante. Sono fatta di spine angosce e tormenti, vuote parole che pioggia riempie, sono petali secchi friabili ai venti, che un soffio poi sparge e non rimane che niente. Chissà che diresti se mi incontrassi davvero, di notte per strada con la veletta, con un cappello da sera e guanti di rete, che aspetto ed invito tra la pioggia che batte avanzi di gente che fanno la fila e mi chiedono quanto e mi chiedono dove, e chissà se mi vedessi che tremo, al solo pensiero di darti piacere, al desiderio che ora corri incontro alla notte, e sfidi la pioggia per venirmi a trovare.

Dove sei anima mia? Che notte stanotte se mi vieni a trovare, ti offro i miei odori acidi e densi, questo vuoto che un uomo può solo riempire, questi attimi d’ansia che mi fanno più bella. Che scema che sono a pensare davvero, che tra poco il tuo volto sarà folta peluria, zigomi alti che bacio e respiro, barba sorniona che da sola mi invoglia. Sei solo un’attesa, un caffè corretto preso al volo di notte, un amore senza nome e cognome, ma mi scrivi parole come se fossi il mio specchio, come se fossi io ad averle già scritte.

Dove sei infinito amore? Anima buona che m’istighi e permetti, di inoltrami da sola lungo i sentieri, di onde di suoni ed echi lontane, per sentirmi più bella come vergine intatta, alla prima parola che penso e tu dici e ripeto e mi piace sentirmela dire. Che scema che sono che m’illudo e ci credo, d’essere un fiore al primo ritardo, con l’ansia e la colpa al mattino segreta, che scruta una macchia rossastra nel letto. Lascia che le mie gambe diventino foce, di tutte le piogge che corrono al mare, di rami di trote e bottiglie di vetro, e selvagge ti sfidano ad esser fedele, ad un unico seno in un’unica bocca. Prendimi ora, prendimi adesso, che sento reali queste mani scellerate, sanno di me e mi toccano in fondo, mi fanno sentire incompleta d’ardore, impaziente che nulla m’appagherà questa notte, incredula tremo, grido e t’imploro, di dirmi almeno che esisti davvero, che queste parole che mi cercano in fondo, non sono le mie e non sanno di donna, ed il vapore che m’alita il ventre, è il tuo sussurro che invoca l’infinito immortale. Dimmi che ci sei, che sei ragione ed istinto, sei sangue che scorre e pelle che suda, perché non voglio null’altro in questo momento, perché se mi dicessi amore sarebbe pazzia, se mi dicessi che m’ami sarebbe un sogno, allora ti prego dimmi solo che esisti, perché questa notte non sia fatta di vuoto, e l’amore che m’offri non rimanga silenzio.




Photo © Erve Miozzo





Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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