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Adamo Bencivenga
La nubenda
La casa della nubenda è
quella bianca sopra la collina, l’ultima del paese prima
della provinciale, che corre lassù in alto tra i pioppi
ancora in fiore, e la puzza e il rumore di gasolio e di
benzina, di tante braccia nere, stipate sopra i camion,
sudate in affitto, per un giorno o poche ore, per la
raccolta del tabacco agli inizi di settembre.
La
sua casa è di pietra dura che domina il paese, la sua
stanza è una mansarda cotta da quel sole, che
all’orizzonte già s’appresta a scaldare un nuovo giorno,
perché da lì si vede il mare, da lì tutto il paese,
case, facce e fontane e il paese in attesa, ammassato
nella piazza davanti al santuario. Da lì si vede lo
sposo in nero e grigio che l’aspetta, rughe vecchie e
viso cotto, mani ossute e pelle secca, baffetti anziani
e brillantina, un cappello ed un bastone con un’aria
soddisfatta per via della scelta e una gardenia bene in
vista sulla marsina a righe grigie.
Da lì la
nubenda esce e sembra una bambina, da lì una donna esce
come un santo in processione, da lì una Madonna o una
Dea dell’amore, dentro un’aria spessa, mistica cammina,
tra due file di sole donne, per le ultime avvertenze,
tra le mani delle sarte per l’ultimo ritocco. Lei scende
lungo le scale, attenta a non cadere, lentamente a capo
chino, passo dopo passo, strascicando la sua coda di
seta e di merletti, decorata dalle mani di fanciulle
ancora in fiore.
Cammina su quelle scarpe, fatte
su misura, sono bianche, alte e intatte e sembra
scivolare, tra file mute di finestre e logge d’altri
tempi, addobbate con gli arazzi in onore della sposa,
che la scortano fin dove, la piazza s’apre a festa, e la
dirigono sicura senza dubbi né traverse, e la guidano in
discesa perché sia facile il cammino, e più ardua
l’ascesa semmai ci fosse un’incertezza.
La
nubenda scende avvolta nel suo pizzo, nessuno può
vederla, nessuno la sua bocca, men che meno i suoi
occhi, arricchiti di kajal, sfumati d’antracite, che
scrutano curiosi sotto il velo bianco panna, che sa di
antico e sa di oro, di broccato e di Borboni, di nobiltà
rurale, di forzieri in fondo al mare. Lei cammina verso
lo sposo e mostra fiera i suoi pendenti, che tintinnano
come catene che la legheranno a vita, data in sposa a
quel signore che l’ha scelta tra le tante, il più
vecchio ed il più ricco del paese, con i gioielli di
famiglia e lo stemma bene in vista, la moneta fatta
incastonare per la sposa, che ora lei mostra in un
monile per quel poco che si vede.
Lei cammina
verso la notte, la prima e poi le altre, con al seguito
i bauli stracolmi del corredo, arricchito in tanti anni
da finissime lenzuola, fin da quando adolescente, nella
penombra della casa, ricamava il suo sogno sui teli di
lino puro, con le tipiche accortezze che una donna deve
avere, quando il sole all’imbrunire fa talamo e fa sera,
quando la luna è ancora alta e il marito la rivuole.
Perché lei scende quelle scale come un regalo e
un’offerta, come un fiore dato in dono reciso per
l’apposta, tra il brusio degli adulti che si tolgono il
cappello, al passaggio di quel premio che sa di carne e
d’abbondanza, e sa di latte appena munto tra gli odori
della stalla, e sa di balia e governante cresciuta
nell’ovatta, sotto gli occhi di famiglia per tenerla
sempre intatta.
Lentamente scende e mantiene il
suo segreto, intimo e privato come il fruscio della
seta, lei scende e sa di grano pronto per la falce, di
pesce che s’impiglia grasso nella rete, e sa di mare
prosperoso che sfama la sua gente, di preda e stive
piene, di pirati e di razzia, di fianchi abbondanti,
generosi nel suo andare, ad arco come viola stretta tra
le gambe, come ora quel suo viso intravisto sotto il
velo, sa di musica tzigana, di sabbia e carovane, di
enigma e sorriso, di mistero da svelare, sa di zingara
felice destinata al capobranco, durante il ballo che
precede, la prima notte nell’alcova.
Lei scende
lentamente come un reo o una regina, come un branco di
cammelli fieri nel deserto, e sa di mercanti e
faccendieri per le vie della seta, che svendono le
stoffe per un sorso d’acqua pura. Perché lei scende
lentamente e chiunque possa dire, d’aver visto le sue
dita ancora prive della fede, d’aver visto una novizia
in dubbio per quei voti, e per un attimo soltanto, tra
le labbra una preghiera, un miraggio all’orizzonte che
corre lungo il filo, che nulla è ancora perso se non
altro, il desiderio.
Perché lei leggera scende,
impalpabile si muove, come dentro un gineceo la
prescelta fra le altre, come sposa s’abbellisce,
s’adorna di ghirlande, e profuma le sue grazie, e vela
le sue forme, quando aspetta il proprio turno, quando
guida quell’istinto e gabba il proprio sposo, che la
invita e la pretende, finché lui davvero creda, d’averla
scelta come eletta, tra le tante preferita, tra le poche
concubine.
Perché lei leggera scende, tra gli
spifferi d’incenso, che si spandono striati tra le grate
della chiesa, e sa di sacro e di profano, di sandalo
bruciato, d’ocra e d’amaranto, di canapa e cotone,
d’amanti e conviventi nei postriboli d'oriente, di
nubenda impreziosita che scende lentamente, data in
cambio di mille olivi, già strapieni e più frondosi, o
d’asini e di muli che lavorano la terra; data in sposa a
chi alla fine, s’è svenato nell’offerta, comprata a peso
d'oro per un baule di marenghi, lei nuda sulla stadera
circondata dalle donne, ha atteso il terzo colpo per
suggellare il suo destino e lo sposo ufficialmente ha
preteso la sua mano.
E lei leggera scende di
fianco al suo segreto, e lo sguardo tra la folla pare
scorga un viso bruno, che non somiglia affatto allo
sposo in attesa sull’altare, ma ad un giovane del posto
che conosce molto bene, è bello, alto, magro con i
muscoli di ferro, e il giovane la vede, discreto
l’accompagna e una lacrima che scorre suggella il suo
segreto, sembra dirle coi suoi occhi, che mai nulla sarà
invano, nulla sarà ricordo se il suo cuore batte ancora,
se la voglia non ha fine sotto il cono della luna,
saranno baci caldi sotto l’ombra degli ulivi.
Come ieri o l’altra sera quando tra le braccia forti,
sarebbe bastato poco e forse anche meno, tra quei tanti
baci buoni, segreti e clandestini, finiti giusto in
tempo, trattenuti per dovere, per lasciarla tutta intera
allo sposo che l’attende, per lasciarla tutta intatta al
talamo stanotte, ma domani finalmente, sembra dirle con
lo sguardo, che passata questa notte, sarà amore, amore
vero, anche se non sarà il primo a cogliere quel fiore,
ma non ci saranno più ragioni o altro impedimento, a far
l’amore tra gli olivi, a varcare quella soglia,
sorpassare quel confine fino ad oggi proibito.
E
lei scende maestosa di fianco al suo segreto, lei scende
più leggera nel vestito evanescente, di seta
impreziosita da pietre luminose, da merletti e da ricami
che ne adornano lo scollo, all’inizio del bel seno con
un velo che l´avvolge, per quegli occhi neri e maschi
fuori dalla chiesa, per l’amore che l’attende passata
questa notte. Perché lei scende lentamente con il suo
incedere austero, per via di quelle labbra morbide e
carnose, farfalle variopinte che sanno già dove posarsi,
e la fanno incespicare ma è un attimo soltanto, per poi
ricomporsi e seguire il suo destino...
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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