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Adamo Bencivenga
Ragtime
Lei avrebbe voluto ballare
il ragtime, nell’unico locale aperto a quell'ora, che sa
di anni trenta, di cappelli alla cloche, di vestiti e
lustrini, in quella città spezzata d’Oriente, tra fiati
e pianoforte, e sete e broccati, e cosce d’altri tempi,
smagliate e burrose, che ballano americano, negro e
mulatto, quando la mano sinistra batte una marcia e
quella destra una melodia sincopata, al ritmo intenso di
un vecchio ragtime. Lei avrebbe voluto passeggiare lungo
i muri, camminare tra quei vicoli d’odori più densi, tra
i locali fumosi di luci rosse all’entrata, lungo il mare
che dicono Nero, lungo il corno che dicono d’oro, tra le
strade che raccolgono avanzi, di uomini onesti e figli
di cani, di gatte in calore che tirano all’alba.
Lei avrebbe voluto ballare il ragtime, sul fondale
delle torri del Solimano, della torre Galata, e sullo
sfondo i giardini, i bazar delle stoffe, i mercati di
spezie, lei turca per caso, dentro quella città con tre
nomi diversi, incrocio di popoli, linea ibrida di
frontiera e confine senza dogana, tra l’Asia e l’Europa,
tra la luce dei caicchi che scintilla all’orizzonte,
sullo specchio dell’acqua all’ora del tramonto, quando
il ventaglio dei minareti e delle cupole dorate si
allarga a raggiera contro il rosso del mare.
Lei
avrebbe voluto lasciarsi poi andare, in quello
spettacolo suggestivo, per venditori di parole, per
mercanti d’ogni fumo, per puttane d’ogni bordo, scapoli
e millantatori in cerca di bordelli, di avanzi di sessi
scontati di notte, per artisti e poeti in cerca di rime.
Ed è in quei cunicoli quando lei si lascia dietro, i
mercanti ebrei e i venditori di tappeti, e si addentra
lungo i vicoli zeppi d’ogni risma, stipati di melma ed
oppio e piscio e delinquenti. Ed è proprio qui che
escono violenti, dalle case fatiscenti, odori forti di
cibo e spezie nere, e zafferano e aglio e pepe e
cardamomo, intolleranti come mosche che a sciami
t’aggrediscono, quasi insopportabili per ogni
occidentale, per lei la bella Klara, per lei la bella
turca, gemma frettolosa di un ramo di una sera, rosa poi
all’alba già orfana di padre.
Lei avrebbe voluto
ballare il ragtime, lei avrebbe voluto tagliarsi i
capelli, spalmarsi le labbra di un rosso ciliegia, per
esortare i dubbiosi, istigare gli onesti e indossare la
cloche e accorciarsi il vestito, sfrangiare quell’orlo
con la cintura sui fianchi, e muoversi al ritmo del
vecchio ragtime e mostrare le tette e farle succhiare,
esattamente nel modo come avrebbe fatto sua madre. Lei
avrebbe voluto sfumare alla luce, d’un lampione ad olio
che traspare tra i vetri, e fumare seduta ai tavolini in
penombra, e invitare i sopravvissuti nelle sue macerie
fumanti e trastullare i vincitori tra la sua merce da
poco, e sentire le note del tempo stracciato, il binario
accorciato come un treno a vapore, come fosse un due
quarti, come fosse un ragtime.
Lei, la bella
Klàra, d’origini incerte, cresciuta dentro il sogno di
un padre americano, che ovviamene non ha mai visto, che
immagina soldato, quando balla con sua madre, bella e
ballerina, anche se non è un granché, anche se non sa
ballare, forse solo un’intrattenitrice di sera nei
locali, o una venditrice di champagne di sicuro a poco
prezzo.
Lei avrebbe voluto tornare a quei tempi,
con gli echi e rimbombi di una guerra passata, e macerie
di muri e rottami nel cuore, le turche più belle intente
al mestiere, con il seno abbondante per i palati più
fini, e lei ogni giorno rivive la scena, guardando la
foto di un soldato per bene, bello e mulatto e cappello
in attesa, che invita sua madre a ballare il ragtime. Un
invito galante, una mano decisa, muscoli e nervi, odore
di menta, un bicchiere strapieno e mano di ferro, che la
fascia e la prende e poi sussurra parole.
Parole
d’amore che lei non capisce, parole di sesso che lei
scambia d’amore, oh che darebbe per sentire quelle
frasi, vedere sua madre obbedire a quei passi, bella e
farfalla vederla volare, per quell’unica notte, per
quell’unico volo, che si lascia guidare, sedurre,
baciare, come fosse un antico, vecchio ragtime, di banjo
e chitarra, d’un suono di fiati, che arriva fin dove è
concesso arrivare.
Lei avrebbe voluto vederli
poi andare, tra la nebbia del fiume, lungo la strada dei
fiori, e i colori del blu che sfarfallano argento,
abbracciati al chiarore d’una luna orientale, col
vestito di lei di romantica seta, svasato al piacere di
un ufficiale in carriera, con la pioggia che fitta
riempie una sera, come fosse un ragtime che muove
l’ombrello. Lei avrebbe voluto vederli poi entrare, in
un portone d’albergo, una rampa di scale, sua madre che
sale e lui la precede, tra un turco che russa e una
puttana che gode, e buttarsi alle spalle il tempo
perduto, e sognare l’America anche se non capisce, al
tempo di ragtime, al piacere dell’amore, fino a che il
buio non faccia il suo corso, fino a che l’amore non sia
consumato del tutto, e stinto le labbra e stropicciato
il vestito, fino alla voce di un muezzin poco distante,
al fiato di tromba, ad una gemma che nasce, ad un piano
lontano che suona il ragtime.
*****
Lei
ora chiude gli occhi e si lascia rapire, seduta sul
bordo di un divano moderno, oltre i vetri una Roma degli
anni sessanta, distante da Istanbul da un volo di linea,
e dietro i vetri una famiglia moderna, con due bimbi già
grandi, suo marito un console e lei una scrittrice. Sua
madre per anni ha imbrogliato le carte, ogni volta
inventando un padre diverso, ogni giorno più morto, ogni
giorno più vivo, ogni giorno orientale, sultano e
califfo, altri di Boston un uomo d’affari, finché in
punto di morte ha svelato il segreto, la musica, il
ballo e suo padre soldato, che lei ovviamente non ha mai
visto, e lui mai seppe di avere una figlia, e dietro a
quei vetri un passato sbiadito, ma lei ogni tramonto
ritorna in quel posto, per assaporare gli odori, per
sentire quel suono, perché il suo ricordo sia ogni
giorno fecondo, con suo padre e sua madre che ballano
stretti, per quell’unico bacio, per l’unica volta, e sua
madre che sale e lui la precede, tra un turco che russa
e una puttana che gode, poco prima che lei venisse alla
luce, al ritmo di un piano che suonava il ragtime...
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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