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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Mi dice di andare, mi dice che è tardi



Stasera voglio concedermi il lusso di un dito di vino e un fritto di pesce, e che sia la mia sera, una cena che dopo, continui alla meglio oltre questa terrazza, oltre Piazza di Spagna che vedo dall’alto, questo vento sottile che gonfia la tenda e fa danzare le foglie, la tovaglia e la seta di questa camicia che in penombra traspare.

Indosso uno scialle di stoffa leggera e una gonna a fiori che arriva al ginocchio, e stasera per vezzo ho raccolto i capelli, per mostrare il mio viso con un po’ di rossetto, a lui che mi guarda senza averne diritto, perché dopo c’è Roma una passeggiata giù in centro, e poi solo un taxi che veloce mi porta, dove oggi sono uscita in segreto inventando, un invito e una cena con la mia amica del cuore.

Se sapesse mia madre dove sto cenando stasera, su questa terrazza che lei conosce da tempo, dietro una siepe di piante d’alloro, che mi ripara dal vento e da finestre indiscrete, anche se poi non c’è nulla di male, anche se poi non è previsto dell’altro, se non questa cena e poi il sorbetto, se non queste maniere studiate d’adulto.

Se sapesse davvero chi ora mi dice convinto, che mai fino ad ora aveva visto l’incanto, che i capelli raccolti mi fanno signora, più bella senz’altro con questo rossetto. Poi mi versa del vino da una bottiglia diversa, mi dice suadente di chiudere gli occhi, di sentire il velluto, il sapore di terra, di respirare a fondo e gonfiare il mio petto, perché solo di bocca sarebbe un peccato, che è come l’amore senza l’anima dentro, quando scarno disseta il palato e l’arsura ed il resto rimane assopito in attesa.

Lo seguo obbediente perché vorrei la meta, diversa da quella che m’ha ripetuto più volte, ovvero parlare di lui e mia madre, che dopo tre anni è giunto il momento, di scambiarsi le fedi davanti ad un prete, di scambiarsi promesse per tutta la vita. Mi parla di lei come una donna di cuore, un paradiso terrestre, un sogno e un incanto, e di ringraziare la sorte ad averla per madre, che è forte sicura e m’ha fatto da padre, quello che mai sono riuscita a vedere, e lei che per anni m’ha ripetuto convinta, che era partito per un paese straniero.

Mi versa altro vino ed accarezza il bicchiere, poi mi guarda sorride e piano sussurra, che sono cresciuta e le somiglio nei modi, quando rido o sto zitta aggrottando la fronte, quando cerco con cura qualcosa da dire, come il rosa di smalto sulle mie unghie perfette, che in segreto nel bagno ho limato pensando, se stasera davvero le avesse notate. Poi gli fisso le mani e mi sembrano pale, sono grandi da adulto per discorsi importanti, come ora le muove ed accompagna la voce, come ora di nuovo stringe il bicchiere.

Oddio, ma davvero, cosa vado a pensare? Lui parla dei nonni che ancora non sanno, dei tanti invitati e la lista di nozze, da un antiquario famoso che ha cose stupende, proprio qui sotto tra i vicoli stretti, tra i gradini sconnessi e le gatte in amore, proprio qui sotto dove la piazza s’unisce, dietro la palma di via della Croce. Poi mi parla di viaggi, di Berlino e di Londra, di un tramonto a Praga sulle tegole d’oro, di donne dagli occhi colorati di sabbia, dai capelli di grano ed il gusto di labbra, di pepe e lampone che mordevano il cuore.

Mi prende la mano e mi sento svenire, perché ho sempre sognato di sentirmi importante, accanto ad un uomo che cinge i miei fianchi, fasciati di nero di seta che dono, a lui che ripete che a quarant’anni passati, incontrare mia madre è una fortuna sfacciata, e ringrazia il destino per ciò che gli ha offerto, la donna più bella in faccia alla terra.
Guardo la strada, la Barcaccia, i cavalli, sento da dentro l’amarezza che sale, più parla di lei e più mi sento una bimba, come fossi vestita in tuta e scarpette, e mi si impacciano i gesti e mi mangio parole, mi mordo le labbra e muta annuisco, senza dirgli che quando ho accettato l’invito, era tutto segreto e credevo ben altro.

Invece sono qui ad ascoltare gli elogi, di lei come un polipo che arriva ovunque, che aleggia stasera su questa terrazza, come un cielo pesante s’annuvola a cappa, ed io esisto perché sono solo la figlia, di una donna elegante ricca di dentro, dall’animo nobile e le maniere gentili, che è bella, che è alta ed io solo un metro e cinquanta. Mi volto di scatto e lo fisso negli occhi, perché mi scavino dove sento covare, l’anima in fiamme che ha bisogno di altro, di altre parole che sarebbero adatte, a togliere terra nei punti più giusti, a farmi sentire un germoglio che cresce.

Se sapesse mia madre che sono tre anni, che la sera nel letto dà corpo al mio sogno, un uomo maturo con un viso perfetto, che come goccia somiglia a quello che ora, sorride e sussurra per intero il mio nome, senza badare quale brivido intenso, mi percorre tagliente lungo la schiena, che scambio e m’inganno per un colpo di vento.
Se lui lo sapesse e chissà se per ore, continuerebbe a parlare senza venirmi in aiuto, e sognare i miei seni con vent’anni di meno, come gemme di pero a febbraio sul ramo, ed ora hanno freddo al vento che tira, ed ora hanno caldo per certi pensieri, e basterebbe una mano possente d’adulto, per stringerli forte e sentirli laddove, s’increspa e s’arriccia la pelle del cuore.

Eppure dovrebbe intuire dai gesti, dal mio sguardo che ora s’è fatto eloquente, da quest’emozione che tangibile sale, perché sono tre anni che spero ed aspetto, che ho vissuto soltanto per questo momento, e sotto la gonna c’è una miniera scoperta, un circo, una giostra e zucchero e miele, una vena che porta dritta al tesoro, che qualcuno finora ha visto soltanto, e nessuno da sempre s’è inoltrato più in fondo.

Continua a ripeterti cosa ne penso, di lui e mia madre uniti per sempre, certo che voglio perché è meglio del peggio, averlo per casa e sentire l’odore, come ora si alza e mi chiede se ho freddo, come ora si ferma e mi guarda negli occhi. Oddio è il momento e si toglie la giacca, e con un gesto d’adulto mi copre le spalle, sorride e mi dice che è meglio rientrare, dentro seduti sul divano al coperto. Lo guardo ed è alto e gli arrivo alle spalle, se s’abbassasse di poco potrebbe baciarmi, ci provo e lo chiamo con un languore di troppo, avvicino il mio viso, ma lui non capisce, e chiudo le palpebre e socchiudo le labbra, se solo volesse sarei già pronta, ad aprirle del tutto e sentire il calore, d’una lingua d’adulto che avrà un sapore diverso, d’una smania impaziente che mi strozza il respiro.

Se solo volesse sarebbe un incanto, con fuori le palme, la Barcaccia e i cavalli, ma lo sento distante, la sua voce mi chiama, ed io davvero imbecille che lo credevo ad un passo, ed invece mi dice che è tardi e mia madre, avrà fatto già il giro di tutte le amiche. Mi guarda e s’accorge che qualcosa è cambiato, e pensa e mi chiede se non sono contenta, del vino, la cena, la carne ben cotta, il fritto di pesce come doppio secondo. Vedo l’impaccio nei suoi occhi curiosi, che ora s’insinuano tra i miei lembi di seta, fino a sfiorare per sbaglio il mio seno, che non è grande come quello di mamma, che all’apparenza non desta la brama, di stringerlo forte e catturarne la voglia, che ora ribelle mi sfida e lo sfido.

Chissà che darei per rivedere mia madre, la prima volta con lui su questo divano, il vestito e le scarpe e come è successo, se portava pesante il suo solito trucco, se c’era nell’aria un non so che di deciso, ed il resto è avvenuto senza forzare la mano. Oppure ha dovuto mandargli segnali, come ora che fremo di fargli capire, di non lasciarsi scappare quel dubbio ribelle, che ora lo vedo gli imperla la fronte, e gli fa domandare se è lecito e giusto, e se davvero sarà che rimanga un segreto!

Lo so che ci vuole almeno esperienza, che una donna intrigante non si inventa una sera, che testarda ho voluto per bruciare le tappe, scegliendo la preda più difficile al mondo, e sentirmi già donna prima del tempo, e sentirmi che posso guardarmi allo specchio, truccando i miei occhi come fossi mia madre, come fossi un’amante già femmina fatta.
Quanti dubbi ho avuto prima di essere pronta, prima che stasera salissi le scale, ma nei miei sogni di notte non ci sono altre facce, né coetanei infantili che danno certezze, d’abbandonarmi alle mani e chiudere gli occhi, per sentire davvero che spicco il mio volo, che plano leggera per sentirmi importante, al primo decollo dentro un cielo diverso, che tingo di rosa, d’azzurro e sudore, dentro il mio letto quasi tutte le notti.

Spero s’accorga che ho bisogno di guida, e mi porti nei posti dove non sono mai andata, e m’accarezzi la fronte quando sospesa, m’accorgo che sotto non c’è erba né terra, non c’è madre che possa impedirmi stasera, e domani e per sempre di non essere figlia, perché le mie gambe non sarebbero adulte, e le mie calze soltanto un neutro stinto, che non danno l’idea che sotto la gonna, il bordo finisca molto prima dei fianchi. Chissà se l’ha mai vista questa trama velata, questa riga che sale fin sotto la gonna, e chissà se si è accorto a chi l’abbia sottratta, che sono impacciata su questi tacchi importanti e prima in terrazza a momenti cadevo.

Ripete ossessivo che è ora di andare, ma si siede accanto e troppo vicino, e io sento l’odore dell’attesa che incombe, il calore che stagna oltre la stoffa. Ha le mani impazienti, la cravatta slacciata, mi chiede se voglio qualcosa di forte, mi porge un bicchiere e mi sfiora le dita, per un attimo lungo mi s’intreccia il respiro.
Chiudo gli occhi e mi sembra di sentire un accenno, un fiato che ora è umido e caldo, che mi bagna le labbra, mi schiude la bocca, e sa di buono e d’adulto questo bacio che sento.

Mi dice di andare, mi dice che è tardi, ma io non lo ascolto perché lo sento vicino, lo sento che freme, che m’accarezza la fronte, e la mano percorre i capelli ed il collo, ed io che cedo e gli offro il mio seno. “Ma allora mi vuole, mi vuole davvero! Non potrebbe toccarmi la voglia del seno, se avesse soltanto un sapore di figlia, o non fossi la madre di un sogno che scoppia.”

Mi dice di andare, mi dice che è tardi, ma io penso ad altro a chissà quanto è bravo, ad intuire il mio cuore, ad ascoltare il silenzio, a recepire di fretta che potrebbe osare, senza farmi domande sull’amore o quant’altro, perché non mi serve e non gli serve stasera, sapere se il cuore batte o sta zitto, sapere che voglio e lo voglio per altro, senza imbarazzo come fossi un’esperta, che lo invita e lo prega di sedarle ogni dove s’annida e scalda questa incoscienza.

Mi dice di andare, mi dice che è tardi, ma io voglio che vada come avevo previsto, sentirmi tra un’ora più grande e già donna, che sbottono la maglia con la mano più esperta. Insisto e accavallo le gambe, insisto per non spezzare il mio sogno, di tornarmene a casa e guardarmi allo specchio, e chiudere gli occhi sospirando davvero, che gli ho dato il permesso di sposare mia madre, con in cambio la voglia di essere più grande.

Ma sono solo parole che grido a me stessa, sono pensieri che non hanno una scena, perché ora apro gli occhi e lo vedo distante, niente labbra e carezze a due passi dal cuore, niente mani che mi stringono il seno, niente bordo di pizzo che mi fa più signora.
Lo guardo e lui ha indossato la giacca, sta chiamando un taxi per Piazza di Spagna e mi rendo conto che è un sogno soltanto, perché lui mi guarda come un bimbo stordito, ha la fronte imperlata e un ghigno provato, un lieve tremore che a stento controlla.
Chissà quanta forza c’è voluta per questo, chissà quanto amore per un netto rifiuto, allora mi alzo, gli sorrido e lo bacio, ma è un bacio innocente quasi da figlia, perché lui è degno di sposare mia madre, perché lo ammiro e ne vorrei una copia, perché questa sera mi ha conquistata per sempre, perché è una sera che vale più di un sì sull’altare, perché ripete che è tardi, ripete di andare.


 





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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
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