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Adamo Bencivenga
Vigilia di Natale
Sarà che il cameriere stasera
mi guarda, ed ha messo sul tavolo dei fiori di
campo, ed io l’annuso come fossero un dono, perché
sono gialli ed ha indovinato il colore, che sa di
gelosia, d’invidia e rimpianto, di tanti uomini
persi nei bordi degli anni. Sarà che ha la metà
degli anni che mostro, e mi guarda come una zia
vestita da festa, che s’inchina e reclama un bacino
sul viso, su strati di cipria per coprire le rughe,
tenendo stretto all’altezza del seno, quel filo di
perle che non metteva da tempo.
Sarà che
questo locale è sempre pieno di gente, ma stasera
così vuoto mi fa sentire più bella, unica e rara per
rubare i suoi occhi, perché c’è solo un tavolo
dall’altra parte del muro, con due anziane signore
che mi lanciano occhiate, e aspettano mezzanotte per
andare alla messa. Il cameriere gentile non mi perde
di vista, mi chiede ogni volta se manca qualcosa, il
pane, l’olio e il bicchiere per l’acqua, e mi
sorride come farebbe ad una bimba viziata, che fa i
capricci e non vuole mangiare, o a un cliente
qualunque che gli ha lasciato la mancia.
Sarà che stasera è una sera diversa, perché fuori è
Natale e si sente nell’aria, tra gli odori di fumo
di legna che arde, tra voci di bimbi che non vanno a
dormire, che sento da quella porta che ogni tanto si
apre, ed il freddo che entra mi gela le gambe. Per
cena stasera m’ha portato una zuppa, di ceci e
farro, d’orzo e fagioli, e tra poco un secondo di
pesce e patate, e poi per finire anche una fetta di
dolce, che gradirò appena per via della dieta, un
solo cucchiaio per non esser scortese.
Sarà
che questo mezzo bicchiere di vino, è rosso come il
vestito che mi fascia leggero, e nasconde d’incanto
la carne di troppo, mi fa sentire più bella e meno
insicura, mi inebria quel poco da tenere lo sguardo,
e pensare che in fondo non sarebbe poi male. Chissà
se è curioso di sapere il colore, se sono di seta le
mutande che porto. Mi segano l’inguine perché mai mi
rassegno, a comprare una taglia poco più grande, ma
sono belle di marca e fanno figura, se fossero
indosso ad una sua coetanea.
Vorrei dirgli di
fermarsi almeno un momento, di dedicarmi le pause
che passa in cucina, invece di impregnarsi d’odori
di fritto, e riempirsi di fretta di boccate di fumo.
Magari sedersi su questa sedia davanti, e sposta il
cappotto e si lascia guardare, quella faccia di
bimbo che ogni notte nel sogno, mi pare reale e mi
bacia e mi tocca. Se solo volesse… ma che vado a
pensare, perché lui è il cameriere ed io la cliente,
che mangia ogni sera quello che passa, e mai s’è
scordata di lasciargli la mancia.
Questa
candela fibrilla ad ogni soffio di vento, mi fa
sentire signora come se fossi importante, e lui non
avesse che occhi che mani, che ora delicate mi
versano acqua. Chissà se ha visto nei miei occhi un
lucido strano, o qualcosa che somigli ad una piccola
voglia, che signora per bene non lascia intuire, e
se per caso ci fosse è per quel sorso di vino. Sua
madre è di là che spiattella e cucina, e ogni volta
lo chiama e lui scappa di corsa, lasciandomi in
bocca parole strozzate, che diventano fiato inutile
e denso. E’ bella ed avrà meno degli anni che
mostro, perché quelli veri non mi fanno giustizia,
perché dentro li sento che vanno più lenti, e quelli
di fuori non li conto da tempo.
Quasi avverto
un sussulto che lento s’infila, dalle parti del
cuore sotto il seno sinistro, come se tra loro ci
fosse un’intesa, un filo sottile d’intimo e schifo,
e lascia fuori nel mondo qualsiasi estraneo. “Ma che
vado a pensare!” Arrossisco al timore che le signore
sedute, abbiano per caso intuito le mie indecenze,
ma davvero vorrei rubarlo a sua madre, almeno sapere
se ha finito la scuola, se ha una ragazza che vede
di giorno, se lei porta merletti dello stesso
colore.
Una bimba slava spalanca l’entrata, e
mi porta freddo e gelo e un bocciolo di rosa, chissà
se ha capito che davanti non siede nessuno, che sto
solo aspettando un secondo di pesce, perché oggi è
vigilia e nessun uomo elegante, uscirà da quel bagno
e mi dona la rosa, e mi porge il cappotto e mi copre
le spalle. Ma lei mi fa cenno che non vuole dei
soldi, mi dice d’accettare perché sono bella, perché
il mio cappello le ricorda sua madre, che un uomo
cattivo l’ha portata lontano. Mi chiede quanto è
lontana La Spezia, se è possibile raggiungerla a
piedi, se appena uscita da questo locale, deve
andare a destra oppure a sinistra. La guardo e
sorrido. E’ tenera e dolce, avessi ancora una figlia
non starei in attesa, di un cameriere che mi porta
un secondo, ed io che sorrido e lo fisso negli
occhi, per capire se è vero e capire per quanto, la
mia faccia con un filo di trucco, non somigli per
tutto ad una parente lontana.
Mi sento
ridicola pensando al suo cuore, che batte che freme
al solo guardarmi, e il mio seno abbondante possa
destare interesse, per il ricamo che ammicca ed esce
vezzoso, uguale all’altro che porto di sotto, e
nessuno negli anni ne ha apprezzato il colore. Mi
guardo e penso che poi non è male, che se solo
volessi potrei scollare il vestito, per farlo notare
senza troppo imbarazzo, come un soffio di fiato fa
spostare le frange. Non credo che mi guarderebbe
ancora da zia, se solo non fosse occupato a servire,
perché di sicuro ci farebbe un pensiero, un
biglietto che scivola e si posa leggero, sopra il
tovagliolo e sopra le gambe, ed io che l’afferro
stretto nel pugno, di nascosto da sua madre e dalle
zitelle.
Due parole per dirmi d’aspettarlo di
fuori, tra un’ora davanti al bar che fa il turno,
oppure mi chiede se domani mattina, potrei
concedergli un’ora o quel tanto che basta, per
sentirlo che trema e sicura che apprezza, queste
calze che indosso velate di nero, dove dietro
s’allunga un cruccio ed un vezzo, una riga d’incanto
che mi sono concessa. Tra meno di un niente
accavallo le gambe, e per magia il vestito s’aprirà
in uno spacco, chissà se questo velo di calze è di
suo gradimento, se ho messo per caso le sue
preferite. M’assale il timore d’aver sbagliato la
trama, d’aver ecceduto al desiderio d’essere bella,
trascurando le richieste d’un bambino cresciuto, che
magari ha altri gusti che io non conosco.
Sono nere come la trasgressione che mi prende la
sera, quando esco da questo locale, e faccio due
passi per smaltire la cena, per sentire le voci che
rimbombano al buio, che impazienti mi chiamano alla
meglio signora. Forse sarà il cappello ed i guanti
che fanno figura, ma sono voci di uomini e sanno di
fregatura, odorano di masturbazione e di sesso
all’in piedi, di fretta nei vicoli o dentro un
portone. Non sanno d’amore e non hanno la grazia, di
questo mazzo di fiori che mi toglie la vista, e mi
riempie i polmoni e m’affama la voglia. Non riesco a
capirla mi prende e m’impaccia, ma lascio che il
pensiero defluisca da solo, lasciandomi il sapore di
questa sigaretta che fumo, la prima e la meglio di
tutta la sera.
Sarà che questo bicchiere di
vino ha fatto già effetto, che questa fetta di dolce
mi fa sentire più vuota, ma non mi lascio travolgere
dall’astinenza che sento, resisto e spero che questa
vigilia mi faccia nascere in grembo, un bambino che
scaldo che cullo gelosa, e contenga l’amore che
lievita dentro. Lui s’avvicina e mi guarda, lo vedo
impacciato, ha tolto il papillon nero e la giacca:
“Signora, stiamo chiudendo.” Mi guarda le calze come
se fossero rotte, non ha in mano un biglietto e non
guarda il merletto, non m’aspetta davanti nell’unico
bar aperto di notte.
Sarà che ora mi alzo e
gli chiedo cortese, d’aspettare un secondo per
rifarmi il trucco, e cammino traballo e m’infilo nel
bagno, ma lui non mi segue ed io chiudo la porta.
Punto i tacchi e m’appoggio sulle piastrelle, lui è
dietro lo sento che impaziente m’aspetta, un sospiro
che intona una canzone ormai vecchia, un rumore di
chiavi, sua madre che chiama. Allora apro il vestito
e vedo l’effetto, chissà che farebbe vedendo queste
calze velate, queste mutande che coprono rosse, un
segreto inviolato, una voglia intatta. Se solo
sapesse entrerebbe senza nessuna premura, mi
bacerebbe dove ora nascondo le mani, dove un fremito
intenso mi fa tremare le gambe. “Signora, serve
aiuto?” Lui bussa ed io dico di aspettare un
momento, un solo momento che mi dia la forza, di
aprire la porta e mostrarmi più bella, e guardarlo
negli occhi per sentirlo sul seno, per sentirmi
appagata proprio dove una notte, di festa e Natale
mi fa sentire più vuota.
Slaccio il vestito
e lascio che scivoli a terra, ma non ho il coraggio
di aprire la porta, e allora penso e faccio finta
d’uscire. “Si è bloccata la serratura! Non riesco ad
aprire!” Lui muove la maniglia e cerca di entrare.
“Stia calma.” Ma io sono calma! M’accarezzo il seno
con queste dita leggere, col il dorso della mano che
sa di cameriere inesperto. M’avvicino alla porta e
lascio che la maniglia, mi sfiori e mi dia quel
brivido intenso. E’ lui che mi tocca che
m’accarezza! E’ lui che ora più forte mi cerca, e
poi rallenta e poi continua insistente. “Non riesco
ad aprire!” Mi dice apprensivo. Sono quasi in estasi
e lo scongiuro: “Provi ancora la prego non smetta!
Vada su e giù con questa maniglia, non si dia per
vinto perché sento che cede, e tra poco vedrà
s’aprirà per incanto!”
Chiudo gli occhi e
stringo le gambe, penso che è quasi mezzanotte e
Natale, ed io sono chiusa per finta in un bagno, che
aspetto il piacere rubato ad un ragazzo, che in
ansia mi crede davvero in angoscia. Penso a sua
madre che lo aspetta impaziente, alle due zitelle
che m’hanno vista adocchiare, un bambino cresciuto
con i miei seni più gonfi, ricamati a dovere da un
merletto che spunta. Mi s’intrecciano immagini di
stanze d’albergo, di camere e letti e lenzuola di
seta, di uomini onesti e figli di cani, che m’hanno
presa senza una tregua, tra le albe più chiare che
s’inseguivano in fretta, tra quelle più scure dove
proseguiva la notte. Ma mai mi sono sentita più
amata, mai abbandonata al piacere come in questo
momento, dentro questa furia di sesso che
inconsapevole cerca, una donna di classe con le
calze velate.
Ora sono solo brividi che
salgono asciutti, fremiti umidi fin sotto i capelli,
sono palpiti di labbra che si schiudono appena, e
quelli più intensi che mi trovano pronta, proprio
nel punto dove nulla e nessuno, ora davvero non
troverebbe più attrito, mentre lo cerco contro
questa maniglia, dentro questo sussulto di ferro e
di voglia, che continua incessante a sfiorarmi la
pelle, ad avere ragione di questo vizio di donna,
che per etichetta resiste per finta.
Lo
imploro di non fermarsi, lo sento sudato,
concentrato su questa maniglia che non riesce ad
aprire, che è la stessa che da dentro mi sfiora, ed
ora più maschio mi scalda le gambe. Vorrei
accarezzarlo se non ci fosse una porta, asciugargli
il sudore e baciargli la bocca, e rimanere
abbracciati perché la prossima volta, sarà come lui
scriverà sul biglietto. “Signora, devo forzare
la porta!” Ma ormai è troppo tardi, mi ricompongo i
capelli e lascio scorrere l’acqua, che lava e
dissolve ogni residuo impuro, ogni vergogna che
ripongo dentro questo velo di calza, dentro questa
vigilia che un destino contorto, mi ha regalato
l’amore richiusa in un bagno. “Signora, mi sente?”
Urla da dietro, mi riguardo allo specchio perché
tutto sia a posto, trattengo il respiro e raccolgo i
capelli, m’imprimo sul viso un velo d’angoscia,
prima che un sortilegio al momento opportuno, faccia
d’incanto riaprire la porta.
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Photo Maja
Topcagic
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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