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Adamo Bencivenga
Mia zia Emma
Quando mio padre se ne andò
per sempre io avevo appena compiuto sedici anni. Per me
fu un duro colpo e mia madre quella sera, prendendomi da
una parte, con mio padre ancora disteso senza vita sul
letto di casa, mi disse che un mese di assenza da scuola
non mi avrebbe tolto nulla. In effetti avevo bisogno di
allontanarmi da quella casa, da tutto ciò che mi legava
a lui e lei senza pensarci due volte mi spedì al paese
da mia zia Emma.
Il giorno dopo preparai in
fretta la valigia e, accompagnato da mia madre, presi la
prima corriera del mattino. Feci tutto il viaggio in
apnea, non sapevo cosa avrei trovato, ma sicuramente
sapevo cosa avevo perso per sempre. Perché quando mio
padre morì fu per me il mio primo grande dolore, se ne
era andato il compagno dei miei giochi, il mio
spettatore preferito alle partite di calcio, il mio
allenatore e il mio avversario imbattibile alla Play
Station. Se ne era andato in fretta, appena dopo sei
mesi dall’insorgere della malattia, senza darmi il tempo
di abituarmi alla sua assenza. Lo avevo visto spegnersi
giorno dopo giorno, proprio lui, così energico ed
invincibile, così grande come un eroe dei fumetti, era
diventato pelle ossa e quell’immagine di lui dentro quel
letto, che non faceva il minimo volume, mi rimase
impressa per mesi e mesi.
Alla stazione dei
pullman c’era mia zia ad aspettarmi. Mia madre l’aveva
avvisata e lei mi accolse con la sua aria allegra e
spensierata e sin da subito cercò di consolarmi
dicendomi che avremmo fatto tante cose divertenti
insieme. “Sai il paese non offre molto, ma sono
sicura che ti troverai bene qui.” Con la sua Panda rossa
mi fece fare un giro di perlustrazione per i dintorni
del paese, poi andammo in un agriturismo, assistemmo ad
una gara di aquiloni e pranzammo all’aperto. Nel
pomeriggio visitammo un vecchio maniero diroccato, lei
era appassionata di fotografia e con la sua Nikon mi
fece una serie infinita di foto, poi finalmente
all’imbrunire andammo a casa.
Comunque nonostante
i suoi sforzi per giorni e giorni piansi lacrime amare e
lei fu molto carina con me, mi accolse in casa come un
figlio, affettuosa e premurosa non mi fece mai mancare
nulla. Ogni istante mi domandava come mi sentissi e se
avessi bisogno di qualcosa, lei era single, non aveva
figli, aveva all’incirca il doppio dei miei anni, bionda
con un bel viso tondo e un fisico da sportiva. Mi
chiedevo come mai non si fosse ancora sposata.
Al contrario di mia madre si sforzava di comportarsi da
giovane ed era sempre gioiosa e pronta a qualsiasi gioco
pur di alleviarmi il male che sentivo dentro. Passavamo
le serate a giocare a Scarabeo, sicuramente lei si
divertiva più di me e devo dire che era imbattibile. Una
sera durante la nostra partita le chiesi: “Zia, ma tu
che lavoro fai?” Lei rise: “Tesoro mio, si può anche
vivere senza lavorare oppure trasformando un passatempo
in un vero e proprio lavoro.” Feci la faccia di chi non
aveva capito e lei si sentì in dovere di aggiungere,
senza però spiegarmi quella frase, che aveva ereditato
da suo nonno circa trecento piante di olivi e si
manteneva con il raccolto stagionale. Lei era la sorella
più piccola di mia madre, ma non avevano lo stesso
sangue, perché sua madre, rimasta vedova, aveva sposato
il padre di mia madre, anch’egli vedovo. Nelle
serate davanti al camino acceso mi raccontava di quando
lei e mia madre avevano vissuto insieme nella stessa
casa e di quanto si volessero bene malgrado le infanzie
diverse vissute a centinaia di chilometri di distanza.
Nonostante la differenza di età tra loro aveva regnato
sempre la massima armonia, ma poi, quando rimasero sole,
lei preferì tornare in paese nella vecchia casa dei suoi
genitori.
I primi giorni furono abbastanza duri
per me, zia faceva del suo meglio per rendermi felice,
ma io pensavo a mia madre rimasta sola e che forse
sarebbe stato meglio starle vicino il giorno del
funerale ed anche tutti quelli successivi. Lei aveva
solo me, ma, pur di evitarmi lo strazio, aveva preferito
allontanarmi e rimanere in quella casa vuota. Zia
Emma, per farmi stare tranquillo, mi aveva concesso la
sua camera in mansarda. La stanza era piuttosto
minuscola, ma aveva una meravigliosa vista sui lunghi
filari di viti che si perdevano oltre la collina. Stavo
bene lì, anche se ovviamente mi mancavano gli amici e le
mie cose, ma, per farmi coraggio, consideravo quel
periodo una bellissima vacanza e soprattutto un modo per
dimenticare. Mi ero portato i libri di scuola e qualche
libro di letture.
Le giornate scorrevano
tranquillamente finché un pomeriggio, mentre leggevo “Il
barone rampante” di Calvino, sentii chiaramente dei
gemiti soffocati provenienti dalla stanza di mia zia.
Dapprima non ci feci caso, poi quando divennero sempre
più intensi smisi di leggere e mi concentrai su quei
lamenti d’amore. Allora, senza fare rumore e con il
fiato grosso mi alzai dal letto e avvicinandomi alla
scala di legno sbirciai attraverso la porta socchiusa
della camera da letto. Ebbene sì, dallo specchio
dell’armadio vidi chiaramente Mario il barista e mia zia
distesi sul letto. Indubbiamente stavano facendo
l’amore. Mario era nudo mentre mia zia, sotto di lui,
portava un paio di calze nere e il reggiseno allacciato.
Più volte distolsi lo sguardo, ma la curiosità ebbe la
meglio e alla fine guardai tutta la scena fino a quando
Mario si rilassò su di lei e mia zia si accese una
sigaretta. Rimasero qualche minuto in silenzio poi lui
si alzò, si vestì di fretta e uscì di casa senza
salutare.
Ovviamente la sera a cena non dissi
nulla, ma in cuor mio, pur essendo abbastanza inesperto
in maniera, ero convinto che quello a cui avevo
assistito non fosse un amore vero e proprio, ma un
qualcosa più somigliante ad un libero sfogo, visto che i
due durante quei minuti non si erano scambiati né una
parola e né tanto meno una parvenza di bacio. “Sarà
quello l’amore tra adulti?” Mi ero chiesto più volte
durante la giornata. Comunque decisi di fare più
attenzione e dopo qualche giorno avevo tutti gli
elementi per inquadrare meglio la situazione. Mario, che
aveva il bar proprio sotto casa di mia zia ed era
sposato, quasi ogni giorno, tranne il sabato e la
domenica, verso le tre del pomeriggio, metteva il
cartello “Torno subito” sulla vetrina del negozio e dopo
qualche giro a vuoto, forse per confondere i curiosi,
scompariva nel portone di casa di mia zia. Ben presto
imparai a capire i segnali di quegli incontri
clandestini, lei aspettava che io salissi le scale della
mansarda, poi mandava un messaggio col telefono e dopo
aver atteso la risposta andava in bagno a prepararsi.
Mario aveva circa sessant’anni ed un fisico piuttosto
appesantito, mia zia invece era una bellissima donna nel
pieno dei suoi anni e mi faceva strano pensare che
avessero una storia segreta, insomma che fossero amanti,
ma quando più di una sera vidi nella stanza da letto di
mia zia altri uomini che non erano Mario iniziai a
capire.
Nella mia ingenuità capii che le donne
single, al contrario di quelle sposate, possono avere
più relazioni contemporaneamente e che tutti quei
sotterfugi di mia zia fossero dovuti alla gelosia di
Mario. Del resto Mario non era un bell’uomo e
soprattutto non mi era simpatico per cui vedendo altri
uomini nel letto di mia zia mi sentii come risollevato.
Comunque da quel giorno in me cambiò qualcosa e nelle
mie ore intime, disteso sul letto della mansarda,
fantasticavo di fare l’amore con lei o per lo meno,
nelle poche notti che rimaneva sola, di addormentarmi
sul suo seno grande, morbido e materno. Ero certo che in
quel via vai ci sarebbe stato un posticino anche per me,
naturalmente avrei tenuto la bocca chiusa e non avrei
detto nulla a Mario il barista.
Timido com’ero,
tenevo per me quelle fantasie e non presi mai
l’iniziativa, mi limitavo a spiarla quando ero sicuro
che non mi vedesse per poi lasciarmi andare di sera
nella solitudine del mio letto. Del resto con me zia
Emma si comportava come una madre inesperta
continuandomi a trattare come un bambino nonostante
avessi sedici anni compiuti. Ero sicuro che mai e
poi mai avrebbe pensato che a quell’età potessi avere
delle pulsioni sessuali e figuriamoci delle fantasie
erotiche nei suoi riguardi. Solo una volta a cena mi
chiese cosa facessi oltre lo studio e lo sport e se
avessi una qualche fidanzatina, disse proprio così, ma
ebbi la netta sensazione che me lo stesse chiedendo così
tanto per parlare e che poi non le interessasse molto,
qualunque fosse stata la mia risposta. Comunque le dissi
che non avevo nessuna ragazza e subito dopo, chissà
perché, aggiunsi che non avevo mai fatto l’amore. Lei
diventò rossa, si accese una sigaretta ed io stranamente
mi sentii più grande. Poi si riprese e mi disse
banalmente che alla mia età era più che normale. A quel
punto presi coraggio e le raccontai di Sabrina, la
ragazza che avevo conosciuto al mare, a Santa Severa
l’estate prima, qualcosa in effetti c’era stato,
c’eravamo baciati e in spiaggia avevamo fatto anche
altro, ma lei non aveva voluto fare l’amore completo. A
quel punto mia zia si alzò e sparecchiò la tavola.
Quando mia zia mi regalò una bicicletta rossa feci
salti di gioia, era usata d’accordo e piuttosto
malandata, ma per me rappresentava uno spicchio enorme
di libertà. Potevo spostarmi senza problemi, andare al
campo di calcio, arrivare fino al paese vicino, fare dei
servizi per zia e rendermi utile, oppure fare delle
lunghe corse per la campagna circostante insieme al mio
nuovo amico Saverio, figlio della signora della
panetteria. Saverio aveva una bici nuova con il cambio,
ma io ero sicuro di poterlo battere. Adoravo quelle
folli corse a perdifiato tra i filari e anche mia zia
era contenta visto che per lunghe ore le lasciavo la
casa libera e poteva invitare senza problemi i suoi
amanti.
Purtroppo il mese di vacanza passò in
fretta e quando ormai mi ero ambientato venne il giorno
di rientrare a Roma. Ero molto triste e mia zia cercò di
consolarmi. Oh sì avrei rivisto mia madre e i miei
amici, ma avevo la strana sensazione di lasciare dietro
di me qualcosa di incompiuto e con la lontananza
irrealizzabile. Quel mese era servito a vedere mia zia
in altro modo e il timore del distacco mi rendeva
decisamente scontento. Ero triste perché le mie fantasie
erano rimaste tali, triste perché non le avevo chiesto
di Mario e cosa ci fosse veramente tra loro e perché lo
tradisse. Mi ripetevo che non mi stavo innamorando di
lei, ma quella sua disponibilità con altri mi aveva
illuso che tutto fosse possibile e a portata di mano.
Lei ovviamente pensava che quell’amarezza, evidente
sulla mia faccia, fosse dovuta ad altro e non a lei, mi
aiutò a preparare la valigia, poi mi diede le ultime
raccomandazioni dicendomi di fare il bravo e di stare
vicino alla mamma, ma quando mi avvicinai per salutarla
e darle un bacio sulla guancia, non so cosa mi successe.
Sta di fatto che bastò un solo attimo e quando vidi la
sua camicetta slacciata allungai la mano e, in meno di
un secondo, le strinsi forte il seno destro sperando nel
contempo di incontrare le sue labbra invece della
guancia. Lei rimase per un attimo interdetta, assumendo
l’espressione di chi mai se lo sarebbe aspettato, ma non
disse niente, si allontanò e non sorrise. Mi pentii
subito pensando di averle fatto male, comunque mi scusai
più volte e lei, con la sua solita aria candida, si
riprese immediatamente, mi accarezzò i capelli e mi
disse: “Devi crescere ancora un po’, poi lo potrai
accarezzare.”
Seppur imbarazzato ero contento,
lei non mi aveva affatto rimproverato per quel gesto
così goffo, ed io avevo toccato finalmente il seno di
una donna grande! Sicuramente me ne sarei vantato con
gli amici di Roma! Comunque quella frase non smise di
frullarmi nella testa e mi martellò il cervello, non
solo durante il tragitto con la Panda rossa, non solo
fino alla stazione dei pullman, non solo durante il
viaggio, ma anche tutte le sante sere nella mia stanza a
Roma quando disteso sul mio letto pensavo a mia zia Emma
annusandomi le dita in cerca del suo profumo. Dovevo
crescere certo, crescere in fretta e così ogni giorno
davanti allo specchio misuravo la mia altezza, così come
ogni sera in bagno il mio pene pensando a quanto potesse
essere grosso quello di Mario.
Razionalmente
sapevo benissimo che anche se l’avessi rivista, mai e
poi mai avrei potuto assaporare le sue grazie, ma era
più forte di me, il mio pensiero andava sempre a lei,
mia zia, e nelle notti d’amore la chiamavo Emma e
cercavo di ricordarmi ogni dettaglio del suo corpo
durante tutte le volte che l’avevo vista con Mario il
barista. Avrei voluto essere lui, avere i peli lunghi e
neri sulla schiena come lui, avere le sue mani tozze e
callose, e pensavo a quanto fosse fortunato lui e tutti
gli altri con cui lo tradiva.
“Devi crescere
ancora un po’, poi lo potrai accarezzare.” Quella sua
frase ribalzava dentro le mie fantasie libera ed
anarchica come se avesse avuto il potere di oltrepassare
ogni limite e trasgredire ogni regola. La sussurravo
ripetutamente senza pensare che era stata pronunciata
per ottenere semplicemente l’effetto desiderato, ossia
tenermi a distanza e nel contempo darmi una vana
speranza.
Poi si sa le cose vanno sempre come
devono andare, e giorno dopo giorno, mese dopo mese,
assorbito dalla mia quotidianità, pensavo a vivere la
mia vita, ma non mi dimenticai mai di zia Emma. Quando
presi la maturità con ottimi voti, di nascosto da mamma,
presi la corriera e l’andai a trovare. Le dissi che era
un nostro segreto e lei con aria complice giurò di non
dire niente. Ero felice! Pranzammo in un casolare poco
fuori dal paese, lei portava una camicia bianca forse la
stessa di quella volta quando mi aveva accompagnato alla
stazione e le avevo toccato il seno. Comunque nessuno
dei due durante la giornata accennò a quell’episodio e a
quella frase che rimbombava ancora nella mia testa, ma
quando mi riaccompagnò alla stazione dei pullman mi resi
conto che ancora non ero cresciuto abbastanza. Ed in
effetti non ero ancora adulto perché ignoravo che alle
volte i grandi dicono le cose tanto per dire, oppure per
rimandare, oppure per togliersi dall’imbarazzo. Nella
mia ingenuità credevo che lei non l’avesse dimenticata e
stava aspettando solo il tempo che io crescessi per
mantenere la promessa.
L’anno dopo mi iscrissi ad
Economia e Commercio alla Sapienza. Dopo quattro anni
ero già laureato e ricevetti varie offerte di lavoro.
Alla fine scelsi di entrare in una società di
investimenti finanziari. Lì incontrai Noemi, la mia
futura moglie. La sposai perché era bionda come Emma,
alta come Emma, perché aveva gli occhi chiari come Emma,
il viso tondo come Emma, le tette grandi come Emma, la
erre moscia come Emma. La sposai perché pensavo ad Emma
come ad un sogno che mai si sarebbe realizzato. A lei
non parlai mai di quella mia zia, che poi non era zia,
come se avessi il timore di contaminare quella promessa
o che dicendola l’avrei resa vana. Rimase solo un mio
meraviglioso segreto. Purtroppo, lo stesso giorno che
nacque Andrea, mio figlio, persi per sempre mia madre.
Erano passati sedici anni da quando era morto
mio padre, sedici anni da quando ero andato a trovare la
prima volta Emma. Sedici anni sì, ma risentii lo stesso
identico dolore e allora in preda allo sconforto decisi
di ascoltare lo stesso consiglio di mia madre e
prendermi un nuovo mese di vacanza e di trasferirmi al
paese. Ero sicuro che anche in questa occasione la
terapia avrebbe funzionato. La zia mi aveva estirpato
quel dolore rendendomi leggero e facendo in modo,
inconsapevolmente, di farmi ritrovare in una situazione
molto più grande di me anche se era rimasta soltanto un
bellissimo sogno. Ora però lei rappresentava
qualcosa di più, era l’unica persona che mi rimaneva di
tutta la famiglia. Per me il suo ricordo era come le
foto in bianco e nero, come le radici degli olivi, il
mio cordone ombelicale attraverso il quale si coltiva
l’attaccamento morboso alle proprie origini. Noemi pur
giurando di capirmi e di comprendere le mie scelte non
mi seguì, io invece, proprio in quel momento, mi accorsi
di non averla mai amata o meglio di averla amata come
copia, visto l’impossibilità e la pazzia di amare
l’originale. Non ci volle molto a capire che il mio
cuore era rimasto lì, dentro la Panda rossa, tra quei
filari di viti, alla stazione dei pullman, dentro quella
casa, nel bar di Mario.
Quando bussai alla porta
di mia zia Emma il respiro grosso mi si strozzò in gola
e solo in quel momento mi accorsi di non averla più
sentita e di non aver avuto più notizie di lei. In quel
momento, dicevo, immaginai che un ipotetico marito,
oppure lo stesso Mario, avrebbe potuto aprire la porta,
ma non fu così, lei era sola, molto più bella di sedici
anni prima o di quando avevamo pranzato insieme in quel
casolare. Quando mi vide si commosse e scoppiò in
lacrime baciandomi. “Ma sei tu? Davvero tu?”
Rimanemmo abbracciati per un tempo interminabile. Mi
ringraziò per aver scelto nuovamente il suo conforto, la
sua casa calda come culla del mio dolore. La sera a cena
le parlai di Andrea e delle grandi difficoltà che stavo
incontrando con mia moglie Noemi. Le confessai di averla
sposata perché le somigliava molto, lei non commentò,
anzi mi disse che iniziava a stancarsi di quella vita,
anche se sinceramente non avevo ancora capito bene in
cosa consistesse e in quel momento, dopo sedici anni, mi
chiesi cosa facesse realmente oltre a raccogliere olive.
Ed in effetti era tempo di raccolto e il giorno
dopo ci alzammo molto presto, era tempo di bacchettare
le olive ed insieme appoggiati ad una rete metallica, ai
margini del campo di Emma, assistemmo a questo antico
metodo. Ad un segnale convenuto tre contadini armati di
grossi bastoni di legno si sparpagliarono per il campo,
iniziarono a colpire ripetutamente i rami degli alberi e
magicamente le olive caddero a pioggia su grandi teli
disposti sulla superficie del terreno sotto gli alberi.
Al bordo di quel terreno, posto sopra una collinetta
poco fuori dal paese, Emma seguiva con attenzione tutte
le fasi della lavorazione mentre per me fu come
assistere ad un antico rituale, ma toccai l’apice
dell’emozione quando Emma, senza dirmi nulla e senza
guardarmi degli occhi, cercò segretamente la mano.
Rimanemmo mano nella mano per tutto il tempo del
raccolto. Ero felice! Questa volta, ne ero certo, il suo
non era assolutamente un gesto di compassione, Emma
aveva finalmente intercettato il mio sentimento.
Due sere dopo facemmo l’amore, avvenne in maniera
naturale senza che nessuno dei due prendesse
l’iniziativa. Lei ovviamente non si ricordava di quella
promessa ed io invece le dissi che non l’avevo mai
dimenticata e che già a sedici anni avrei voluto
ardentemente stare disteso con lei in quel letto. Lei
rise a crepapelle giurandomi che per nulla al mondo
avrebbe fatto l’amore con un ragazzino.
In quei
sedici anni passati avevo avuto altre donne, ma con lei
fu un rapporto intenso, unico e speciale. Concentrai in
me tutti i desideri dei miei sedici anni compresi quelli
di quando spiavo Emma da sopra la scala o quando la
sognavo nelle mie notti a Roma. Alla fine le chiesi di
Mario, lei rise: “Ma davvero hai creduto che potessi
vivere e mantenermi con il solo raccolto delle olive?”
Allora davanti a quell’evidenza così spontanea e
naturale mi si illuminò ogni dettaglio di quel mese
vissuto insieme a sedici anni, ebbi la sensazione che
nessun’altra donna al mondo avrebbe potuto essere più
interessante ai miei occhi.
Per non essere troppo
indiscreto e sconvolgere la sua vita decisi di prendere
in affitto una piccola casa nello stesso edificio. Del
resto non ero più un bambino e la mia presenza sarebbe
stata troppo invadente. Lei ovviamente non fu d’accordo,
mi disse che non ci sarebbero stati problemi ospitandomi
volentieri, ma risposi che ero stufo di farmi lunghe
passeggiate in bicicletta. Ridemmo convenendo che al
momento fosse la soluzione migliore per entrambi.
Passarono alcuni giorni, ognuno dei due faceva la
propria vita e la sera ci vedevamo a cena. Stavo bene e
mi piaceva starle vicino, alle volte rimanevo in
finestra a gustarmi il panorama e inevitabilmente a
guardare i tanti Mario che con fare circospetto
guadagnavano la porta e poi la scala della casa di Emma.
In quei frangenti mi chiedevo che amore fosse il nostro
e come facessi a non impazzire di gelosia, ma fu proprio
Emma a smentirmi e darmi indirettamente la risposta.
Infatti dopo alcuni giorni con enorme sorpresa mi
accorsi che più nessun uomo e a nessuna ora del giorno e
della notte varcava quella soglia.
Non ci potevo
credere! Aspettai ancora qualche giorno per la conferma,
poi un pomeriggio di inverno inoltrato, quando i
comignoli iniziavano a sbuffare per riscaldare quelle
meravigliose case, di corsa salii le sue scale a quattro
a quattro, bussai e col fiato grosso le dissi di getto:
“Mi vuoi sposare?” Lo dissi con la consapevolezza che
l’avrei amata anche se non avesse rinunciato al suo
lavoro. “Dici sul serio?” Sgranò gli occhi.
“Credimi, non sto scherzando, Emma.” Risposi portandomi
le mani sul cuore. “Tu sei matto!” Disse scuotendo la
testa. In quell’istante notai in lei un leggero
mancamento. “Che c’è di male o di tanto strano
sposare una zia?” Lo dissi per sdrammatizzare la
situazione e lei questa volta rise. “Se mi fossero
importate le chiacchiere della gente non avrei mai fatto
quello che faccio anche se penso che per le malelingue
sposare un nipote è di gran lunga un male peggiore…”
“Appunto, al di là di ogni pregiudizio, tu hai
dimostrato di essere una donna libera e per questo
motivo mi sono innamorato di te.” “Ma tu sei
sposato!” Disse per prendere fiato e tempo. “Quello è
il problema minore…” Dissi abbracciandola e stringendola
forte a me. Quella sera non cenammo, avevamo altro da
mangiare e ci saziammo per tutta la notte. Lei aveva
appena compiuto quarantotto anni ed io ne avrei fatti
trentatré a breve, ma guardandola in controluce col
profilo della luna mi accorsi che quella differenza di
età era solo un fattore anagrafico.
Poi si sa,
le cose vanno come devono andare, Noemi aveva accettato
un lavoro all’estero, sarebbe partita l’estate seguente
e mi concesse volentieri il divorzio. Io tornai a Roma
solo per sbrigare le mie faccende, decisi di vendere
tutto e licenziarmi definitivamente dal lavoro. Con i
soldi ricavati dalle vendite aggiunsi alle trecento di
Emma altre mille piante di olivo e quel casolare che ci
aveva visto pranzare insieme poco fuori dal paese.
Mettemmo su una vera e propria azienda agricola, a quel
punto davvero avremmo potuto mantenerci con il raccolto
e la produzione di vino e verdure. Nel frattempo, quando
la madre partì, Andrea venne a vivere con noi. Ero
immensamente felice quando lo vedevo giocare sull’aia e
correre dietro a Carmine il nostro bastardino e alle tre
galline di razza padovana: Nina, Pinta e Santa Maria.
Esattamente dopo due anni e tre mesi sposai Emma in
comune, Andrea fu il solo invitato oltre ai due operai
dell’azienda che ci fecero da testimoni. Dopo nove
mesi nacque Adele e vivemmo liberi e sereni.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
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