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Adamo Bencivenga
La sposa vietnamita e il
finto marito
...
..Mi chiamo Chi e provengo da una ricca
famiglia di commercianti di soia. Quando iniziò questa storia
avevo 22 anni e insieme ai mei tre fratelli più grandi vivevo
nella bella casa dei miei al centro di Hanoi. Trascorrevo le
giornate intere a studiare e solo la domenica e raramente la
sera d’estate i miei mi concedevano un po’ di svago e,
nonostante fossi ampiamente maggiorenne, mi permettevano di
uscire con le amiche più fidate e selezionate solo dopo avermi
impartito le noiose raccomandazioni e soprattutto l’ora esatta
del rientro in casa.
Nonostante
mio padre fosse un tipo all’antica e piuttosto severo vivevo
senza grandi sussulti la mia vita di giovane donna anche se
spesso, nei miei momenti di sana ribellione, faticavo a
ritagliarmi i miei innocenti spazi di libertà. Dopo il liceo
avevo avuto una storia con un ragazzo del mio stesso quartiere,
ma era finita male proprio a causa dei miei orari rigidi.
“Chi,
stiamo insieme da quasi sei mesi e finora sono riuscito a darti
un solo bacio di sfuggita e per giunta nell’androne di casa.”
Non passava giorno che non si lamentasse finché decise di fare a
meno di me.
Poi passò altro tempo, flirtai con
altri ragazzi, ovviamente rispettando sempre le rigide regole
della famiglia, ma, quando mi accorsi che le mie amiche erano
cresciute più in fretta di me, i miei desideri di donna
cominciarono a tormentarmi.
Frequentavo
l’università con ottimi risultati e al tempo avevo passato tutti
gli esami previsti con buonissimi voti. Avevo preso anche una
lode in Ragioneria Applicata e in Diritto Commerciale.
Mio padre non perse occasione di
dirmi: “Mia cara Chi, sono molto orgoglioso di mia figlia.”
Disse proprio così: “mia figlia”, usando di proposito la terza
persona! Questo era mio padre, anche nei rari momenti di
tenerezza, non perdeva occasione di rimarcare una certa
autorevolezza di padre. Il mio futuro comunque era solennemente
già scritto e, come del resto era successo ai miei tre fratelli,
dovevo semplicemente laurearmi in fretta per poi insediarmi
nell’organico dell’azienda di famiglia.
Dicevo, frequentavo la National
Economy e proprio in un’aula della mia facoltà di Economia
Aziendale conobbi Quy, un bellissimo ragazzo poco più grande di
me. Il giorno stesso che lo incontrai ci tenne a dirmi, anche se
assolutamente non richiesto da parte mia, di essere impegnato
con un’assistente della Facoltà di Scienze. Rimasi delusa più
per il suo poco tatto che per il resto, ma era così bello che
non smisi di pensare a lui. Mi ripetevo che impegnato non
significa sposato, ma di notte nel mio letto mi convincevo che
essendo arrivata tardi dovevo smettere di desiderarlo. Di giorno
invece facevo del tutto per farmi trovare nei posti dove sapevo
che lo avrei incontrato. Ero confusa sì, ma mi dimostrai molto
determinata quando, tra una lezione e l’altra, mentre mangiavamo
un panino al volo, gli confessai il mio insano proposito.
Senza mezzi termini gli dissi:
“Sai non mi dispiacerebbe fare l’amore con te.”
Lo dissi
naturalmente con il sorriso sulle labbra, ma in realtà c’era un
fondo serissimo di verità. Lui, dopo avermi scrutata per circa
cinque minuti, credendo fossi pazza o ubriaca, mi sorrise senza
dirmi una parola. A quel punto, imbarazzatissima, cercai di
ammorbidire la mia proposta e ci impiegai circa dieci minuti
prima di dirgli che la mia era solo curiosità e che non si
sarebbe dovuto sentire in obbligo.
Poi aggiunsi mentendo: “Quy, io
non credo nell’amore eterno e ti giuro che tra noi non ci
sarebbe mai altro.”
L’ultima mia frase risultò così
sibillina che mi sembrò di vedere i suoi pensieri
materializzarsi sulla fronte: “Mai altro dopo l’amore? O mai
altro oltre quell’amicizia?” Ma non pronunciò la benché
minima parola, lo vidi semplicemente sussultare, prendere i
libri e allontanarsi verso l’aula magna con la sua tipica aria
dinoccolata.
Passarono
altri giorni e continuammo a incontrarci nei corridoi
dell’università. Ricordo come se fosse ora la sua estrema
cautela e la mia insolita intraprendenza. Ormai mi ero scoperta,
avevo fatto il primo passo e da parte mia, ne ero più che
convinta, non ci sarebbe stato alcun ripensamento. In effetti lo
desideravo non solo perché mi piaceva fisicamente, ma
soprattutto perché nella cerchia delle mie amicizie ero l’unica
ad essere ancora vergine. Vivevo questa mia condizione come un
vero e proprio handicap e rispetto alle mie amiche mi sentivo
così imperfetta da credere che tutti i miei momenti di vita, le
mie sensazioni, le mie aspirazioni, le mie profondità, il mio
modo di soffrire e gioire passassero inevitabilmente per quella
sottilissima membrana. Ovviamente non ne parlai con mia madre,
soprattutto perché, in quel momento, non volevo che qualcuno
potesse mettere in cattiva luce la mia pazza idea e farmi
desistere.
In quella
situazione è facile immaginare il numero dei salti di gioia che
feci quando, qualche giorno dopo, Quy mi bloccò sul corridoio
della Facoltà. Ero con una mia amica e letteralmente sobbalzai
quando mi chiese gentilmente se avessi avuto un minuto per lui.
Ricordo benissimo il sudore che imperlava la sua fronte quando,
dopo alcune infinite iperboli, arrivò al sodo.
Con la sua voce tremante mi disse:
“Ti ho pensata molto, sai…”
Trattenni il
respiro, avevo paura di rovinare tutto.
Poi gli domandai: “A cosa devo
questa tua nuova attenzione?”
In cuor mio speravo in qualche remota
rottura con la bella assistente, ma lui freddò le mie illusioni:
“Mi stuzzica la tua proposta di fare l’amore e poi amici
come prima.”
Poi subito riprese: “Se non hai
cambiato idea, ci possiamo vedere anche nel pomeriggio.”
Nonostante la delusione, non me lo
feci ripetere due volte, chiamai immediatamente casa per
avvertire che non sarei tornata a pranzo e insieme andammo nella
sua bella casa di Quand An.
I suoi erano
fuori per lavoro, l’imbarazzo di essere soli si palpava
nell’aria, comunque prese lui l’iniziativa e dopo avermi offerto
un thè allo zenzero mi fece accomodare sul divano soffice della
sala da pranzo e lentamente, davanti a quella magnifica vista
del lago dorato, facemmo l’amore.
Purtroppo
non fu un granché perché nessuno dei due riuscì a scrollarsi le
proprie paure e risultò una cosa meramente meccanica e piatta.
Lui tra le altre cose si dimostrò piuttosto maldestro ed io
infinitamente inesperta. Entrambi rimanemmo delusi, tanto che
alla fermata dell’autobus ci salutammo appena.
Ricordo però
come se fosse oggi la mia contentezza quando, la sera al
telefono, lo comunicai alla mia amica del cuore.
Le dissi
dandomi delle arie: “Nhung, oggi pomeriggio ho fatto l’amore
e per giunta con un bellissimo ragazzo!”
Sapevo
benissimo che quella notizia, nel giro di qualche minuto,
avrebbe fatto il giro di tutta la cerchia dei miei amici e
allora cercai di condire il racconto lavorando più di fantasia
che di realtà vissuta. Quando chiusi la telefonata mi distesi
sul letto esausta, respirai profondamente ed ebbi la netta
sensazione di essere ormai una donna!
*****
Purtroppo
quella bella sensazione durò poco, un mese dopo quella
contentezza si trasformò in tragedia. Al terzo giorno di ritardo
feci il test e purtroppo due linee rosa si materializzarono
inequivocabilmente sul display: ero incinta! Lo dissi
immediatamente a Quy, ma lui oltre a darmi un ipotetico appoggio
morale ed economico nel qual caso avessi voluto abortire mi
disse che i patti erano i patti, per cui non avrebbe potuto
offrirmi alcuna altra soluzione. Mi sembrò di impazzire! Durante
il ritorno a casa mi promisi che mai avrei rinunciato al mio
bambino per cui mi cosparsi il capo di cenere e la sera stessa,
dopo cena, chiamai mia madre nella mia stanza.
Ad occhi
chiusi le dissi sottovoce: “Mamma sono incinta!”
E col
pianto in gola le raccontai ogni minimo dettaglio, facendola
giurare più volte di non dire nulla a mio padre ed ai miei
fratelli.
Lei, nonostante fosse una donna molto
tradizionalista e considerasse l’accaduto un’onta difficilmente
cancellabile, dopo un attimo di sconforto, mi prese la mano e mi
pregò di calmarmi.
Mi chiese: “Suo padre ne è al
corrente?”
Poi si informò sulle sue intenzione e
se avesse voluto rimediare al guaio sposandomi.
Le risposi
senza guardarla in faccia: “Sì lo sa, ma è già fidanzato ed
è disposto a darmi un appoggio solo nel caso decidessi di
interrompere la gravidanza.”
Lei a quel
punto mi chiese: “Tu lo vuoi?”
Ci pensai
meno di un secondo: “No, mamma, mai abortirei.”
A quel
punto, sospirando mi accarezzò i capelli e mi rassicurò
dicendomi che non dovevo preoccuparmi perché non mi avrebbe mai
lasciata sola ed insieme avremmo di sicuro trovato una via
d’uscita.
“Piccola mia, ad ogni problema
c’è sempre una soluzione, ora spegni la luce e dormi.”
Il giorno dopo andammo insieme in una
di quelle agenzie che organizzano ogni genere di cerimonia e
quindi anche finti matrimoni. Ovviamente non c’era tempo da
perdere e occorreva sbrigare la faccenda quanto prima così da
evitare l’imbarazzo della pancia sotto l’abito nuziale. La
consulente dell’agenzia ci accolse in un salottino riservato e
ci avvertì che se avessimo accettato avremmo dovuto seguire un
lungo e complesso percorso.
Poi disse: “Per rendere più vera
possibile la cerimonia, non bisogna trascurare alcun dettaglio,
tipo gli invitati, le torte, la musica, il sacerdote, il bacio
di rito dopo il fatidico sì. È importante che ogni cosa e
persona vadano al posto giusto.”
Poi dopo
avermi chiesto quale fede professassi mi fece vedere un album di
foto ed io passai in rassegna circa cento volti di futuri
mariti. Purtroppo nessuno somigliava a Quy e feci del mio meglio
scegliendo il meno peggio.
Durante quella difficile operazione
la consulente e mia madre parlarono del compenso economico,
seppi in seguito che la cifra totale si aggirava sui
quindicimila dollari, dei quali circa quattromila e cinque
andavano al finto marito e altrettanti in parti proporzionali ai
finti consuoceri, testimoni e tutto il seguito affittato per
l’occasione. Il matrimonio si sarebbe svolto seguendo i riti e i
relativi cerimoniali della mia religione per cui ci sarebbero
state tre tappe importanti ovvero: il giorno della Ong Diga, la
cerimonia in cui si conoscono i rispettivi consuoceri, il giorno
della Una Hoi, durante il quale i futuri sposi si promettono
amore eterno e il giorno vero e proprio del matrimonio.
La donna ci
tenne a precisare che nel prezzo finale di tutto il pacchetto
non era previsto l’obbligo della prima notte, ma era previsto
l’affitto della finta casa per circa un mese dopo di che ci
sarebbe stato il divorzio.
Poi disse ridendo: “A meno che lo
sposo non s’innamori davvero della donna che lo ha preso a
nolo!”
Aggiungendo che non era una
eventualità remota visto che in più di un caso il matrimonio
finto non era poi stato così finto!
Uscite
dall’agenzia il senso pratico di mia madre prese il sopravvento.
Mi disse: “Chi, è una cifra
importante, ma credo che il finto matrimonio sia l’unica
soluzione saggia. Ti mette al riparo da una situazione
imbarazzante che ti penalizzerebbe per il resto della tua vita.”
Poi in auto aggiunse che mio padre e i miei fratelli non
l’avrebbero presa bene, per non parlare delle loro fidanzate e
future mogli, per cui se non avessi acconsentito a quella messa
in scena ci sarebbe stato il serio pericolo di dovermi
allontanare da casa e quindi smettere di studiare e guadagnarmi
la vita da sola con un figlio da mantenere.
Non sapevo cosa fare, ma stavo
crollando: “È davvero più importante la tradizione che
l’amore per una figlia o una sorella? Trovo tutto questo davvero
ingiusto e malvagio!”
Poi scoppiai in un lungo pianto
liberatorio. Lei mi consolò con un’aria rassegnata ed io sentii
una rabbia insolita dentro di me, ma in realtà concordavo con
lei vista l’arretratezza culturale della nostra società ivi
compresa quella della mia famiglia che costringeva la donna, per
non essere paragonata ad una prostituta, a giungere vergine al
matrimonio ed attribuendole tutte le colpe in caso di qualsiasi
incidente di percorso.
Mia madre però non s’intenerì:
“Ti rendi conto? Oltre a non essere più vergine sei anche
incinta e il futuro padre non ha intenzione di sposarti!”
Disse
ancora con la preoccupazione che non accettassi la soluzione del
finto matrimonio.
Alla fine
con le spalle al muro le dissi che avrei accettato e mentre
tornavamo a casa mi giurò che mio padre e i miei fratelli non
avrebbero mai saputo nulla e sarebbe rimasto un nostro esclusivo
e pesante segreto. Ovviamente la sera avrei dovuto recitare la
scena madre, ovvero dire che avevo conosciuto un ragazzo ed
avevo commesso il guaio, ma che non c’era nulla di preoccupante
perché il ragazzo era molto serio ed intenzionato a riparare.
A tavola recitai la frase tutta d’un
fiato. Poi dissi: “Tra tre mesi mi sposo!”
Seguì un
interminabile attimo di silenzio gelido, mio padre, spalleggiato
da Nun, il più grande dei miei fratelli, iniziò ad inveire
chiamandomi puttana e poco di buono, poi diede dell’incapace a
mia madre scaraventando piatti e bicchieri sul pavimento. Ovvio,
qualunque cosa di negativo succedesse in quella casa era sempre
colpa di mia madre! A quel punto mi alzai, corsi in camera e mi
chiusi dentro. Solo la mattina dopo mio padre mi bloccò sul
corridoio.
Con la sua solita aria burbera fece
calare il consenso dall’alto e disse: “Non c’è altra
soluzione, hai il mio consenso e quello dei tuoi fratelli a
sposarti.”
La notte aveva portato consiglio, si
era tranquillizzato e soprattutto aveva accettato!
*****
Qualche
giorno dopo conobbi il mio futuro marito. Lo avevo scelto tra i
cento volti dell’album e per me non fu una sorpresa. Ci
incontrammo in una saletta riservata dell’agenzia. La consulente
ci disse che quel colloquio e gli altri a venire sarebbero stati
importantissimi per la buona riuscita del finto matrimonio.
Lành, questo il suo nome, era alto e robusto, ma non
particolarmente bello, aveva un grosso neo sotto l’occhio destro
e un incisivo scheggiato. Era di origine contadina e purtroppo
dovetti constatare che il suo aspetto non la tradiva affatto.
Abitava in una casa popolare di due stanze e bagno nell’estrema
periferia nord di Hanoi con la madre vedova e una sorella di
quindici anni più piccola. Aveva ventinove anni e faceva quel
lavoro da sette. Nonostante non avesse un grandissima proprietà
di linguaggio ricordo che durante quel colloquio riuscì a
tranquillizzarmi.
Mi disse: “Vedrai andrà tutto
liscio, sono abbastanza esperto e so come vanno queste cose…”
Poi, per darmi un minimo di fiducia, mi disse che aveva già
sposato tre ragazze, tutte al terzo mese di gravidanza per poi
divorziare con finte incomprensioni e litigi vari. Gli chiesi se
fossero belle, mi rispose che in quel mestiere era necessaria
una forte dose di serietà e non era possibile trasgredire.
Dopo quella
volta, su richiesta dell’agenzia, ci vedemmo ancora, facevamo
lunghe passeggiate e altrettanti discorsi per conoscerci meglio,
poi ripassammo la storia di dove e quando ci eravamo conosciuti,
baciati, amati ecc. Non aveva studiato, ma notai la sua
spontanea gentilezza e con estremo piacere il suo modo antico di
farmi sentire a mio agio. Sembrava che avesse innato l’incarico
di proteggere la donna, quasi una missione da portare a termine.
Lo guardai fisso negli occhi, effettivamente era a distanza
siderale, nel bene e nel male, dall’aria saccente di Quy.
Ci sedemmo
su una panchina e ci tenne a precisare più volte che quel lavoro
finora gli aveva permesso di mantenere sua madre e far studiare
sua sorella, ma che non era affatto felice di imbrogliare la
gente.
Poi riprese: “Ho deciso di farla
finita con questo lavoro e tu sarai l’ultima mia sposa finta.”
Gli chiesi se avesse una ragazza o quanto meno se avesse
desiderio di un matrimonio vero.
Lui sorrise e allargando le braccia
sospirò: “Nessuna sposa all’orizzonte, ma del resto chi mai
potrebbe accettare un uomo col mio lavoro!”
Circa una settimana dopo venne il
giorno della Ong Diga, ovvero il giorno in cui i genitori dei
futuri sposi si incontrano per la prima volta. In realtà nella
tradizione vietnamita questo sarebbe dovuto essere il giorno in
cui i genitori dello sposo chiedono ai consuoceri di concedere
al proprio figlio il permesso di incontrare la sposa, ma in
questo caso, visto il mio stato interessante, i finti genitori
di Lành si limitarono a portare i classici pasticcini fritti di
farina di riso e latte di cocco, chiamati Khanom krok, e le
tradizionali e ben auguranti noci di arec e foglie di betel.
Durante l’incontro conversarono del più e del meno, tranne mio
padre che non disse una parola mentre mia madre cercò di
sforzarsi ed essere brillante per rendere più piacevole e quanto
meno veritiero l’incontro.
La sera stessa i miei fratelli,
avendo avuto modo di parlare con Lành in privato, non
capacitandosi per l’enorme differenza di istruzione e condizione
sociale, mi chiesero dove mai l’avessi incontrato e per quale
strana ragione mi fossi innamorata di lui. Ovviamente risposi
con frasi di circostanza prese in prestito dai manualetti
d’amore di quando ero ancora adolescente.
Il tempo purtroppo non ci dava
tregua, passò così in fretta che dopo pochi giorni organizzammo
la Una Hoi, la vera e propria cerimonia di fidanzamento. Anche
in questo caso i finti genitori del finto sposo vennero a fare
la finta visita ai miei portando in dono le famose scatole
laccate rotonde e i grandi vassoi coperti da drappi rosso
contenenti prelibatezze di ogni genere. Devo ammettere che fu
una cerimonia suggestiva e per un attimo credetti davvero che
fosse autentica e piansi lacrime amare purtroppo vere. Ricordo
che Lành mi strinse la mano e mio padre, vedendomi commossa, mi
venne vicino: “Figlia anche se mai potrò perdonarti per
l’ingenuità che hai commesso, ti auguro un mondo di bene.”
Così dicendo mi baciò sulla fronte.
In quel
momento mi tremarono le gambe e mi dovetti sedere su una
poltrona, mio padre mi sorresse ed io, se non fosse stato per la
prontezza di Lành, gli avrei di certo confessato l’inganno. Non
so come fece ad intuirlo, ma il mio futuro marito mi abbracciò
indicandomi il piccolo altare ed insieme pregammo per chiedere
l'approvazione dei nostri avi.
*****
Finalmente venne il giorno delle
nozze. Il maestro di cerimonie, un finto amico di famiglia dello
sposo, organizzò ogni cosa non trascurando alcun dettaglio,
compreso l’addobbo in sala da pranzo, il rito del fatidico sì e
del bacio, le poesie imparate a memoria e i canti solenni, e non
ultima la cerimonia dei regali alla sposa. Quasi tutte le finte
invitate vestivano in seta con l’abito tradizionale “Ao Dai” dai
colori sgargianti.
Nell’occasione ricevetti
braccialetti, collane e orecchini donati dai familiari e
comparse dello sposo. Ero quasi contenta, per la seconda volta
pensai che tutto ciò sarebbe potuto essere reale se solo Quy si
fosse preso le sue responsabilità. Passavo momenti di ilarità a
quelli di sconforto, un saliscendi che toccava le corde più
profonde della mia anima dalle quali riuscivo a risalire
convincendomi che il mio matrimonio vero non sarebbe stato
lontano nel tempo e meraviglioso allo stesso modo. Addirittura
abbracciai mia madre e piangendo sulla sua spalla la ringraziai
per essere stata mia complice.
Poi con tutti i parenti, finti e
veri, ci trasferimmo in un ristorante di lusso. Ci furono varie
portate tra le quali l’hu tieu xao thit bo, un pasticcio di
manzo e fagioli, il pho, una zuppa di tagliolini e il canh chua
ca un piatto di pesce speziato e molto piccante. Il tutto venne
annaffiato dal famoso Ruou ran, il tipico vino di serpente
vietnamita. Finita la cena il maestro di cerimonie diede avvio
alle danze e tra canti e balli la festa si protrasse oltre le
due del mattino.
Finita la cerimonia, con mio marito
ci allontanammo insieme tra la contentezza dei parenti che ci
auguravano amore eterno, felicità nonché figli sani e robusti.
Ovviamente io e Lành ci separammo
dopo un centinaio di metri, quella sera e tutte le altre a
seguire lui tornava a casa dai suoi mentre io dormivo sola in
una casa messa a disposizione dall’agenzia. Il giorno invece lo
passavo insieme al mio finto sposo, per finti pranzi, finte
visite ai parenti, agli amici più stretti ed ai miei. Ricordo
che mi fece un immenso piacere quando Lành mi portò a conoscere
sua madre vera e sua sorella vera.
Non era
previsto nel programma ed io chiesi a Lành: “Anche le altre
spose le hai invitate a casa e le hai fatto conoscere tua
madre?”
Lui sorrise: “Ti faccio notare
che non è la prima volta che fai riferimento alle altre spose…”
Alludendo al fatto che io potessi essere gelosa o qualcosa del
genere.
Risposi un po’ stizzita: “Mio
caro, non penserai davvero che io possa essere gelosa di finte
spose!”
Sua madre si
dimostrò molto cortese e pur conoscendo l’attività del figlio mi
chiese, evidentemente confusa, se quel grembo, ormai
visibilmente pronunciato, fosse merito di suo figlio.
Risposi:
“Oh signora, ci siamo sposati appunto perché ho fatto un grosso
guaio, ma a questo guaio gli voglio un bene infinito.” Così
dicendo mi accarezzai la pancia.
Alla mia risposta lei s’intenerì, ma
nel suo volto si materializzò un ghigno di velata delusione.
Ricordo bene che anch’io in quel momento ebbi un sussulto di
dispiacere. Ecco quello fu il primo avvertimento, mi chiesi se
davvero avessi desiderato che Lành fosse stato il padre del mio
bimbo, naturalmente non dissi nulla a lui quando tornando a casa
mi chiese la ragione di quella tristezza.
*****
Ormai lo conoscevo bene ed avevo una
buona considerazione di lui, in effetti era un buon uomo e visti
i suoi propositi di non continuare quell’attività mi proposi di
aiutarlo. Una sera ne parlai durante una cena ai miei genitori
ed ai miei fratelli. Era pur sempre mio marito! Mio padre rimase
perplesso, ma questa volta stranamente mi venne in aiuto mio
fratello Nun, dicendo che da poco nell’azienda si era liberato
un posto per la Sicurezza.
Disse con un filo di sarcasmo:
“Non è un granché, ma sicuramente sarà un posto adatto per tuo
marito!” Io invece ne fui contentissima!
La mattina seguente Lành fece il
colloquio e venne assunto come incaricato alla sicurezza
interna. Ricordo che fece salti di gioia quando, dopo il primo
giorno di lavoro, venne a trovarmi dicendomi solennemente che
era orgogliosissimo di indossare la divisa gialla e nera
dell’azienda della mia famiglia.
Ovviamente
non gli diedi tregua: “Mi prometti che andrai immediatamente
in Agenzia e ti farai cancellare dall’elenco dei finti mariti?”
Mi fissò con i suoi occhioni neri:
“Chi, l’ho già fatto.”
Ci abbracciamo. “Sai, quel lavoro
non ti rende merito. Anche se mi è servito spero davvero che in
questo paese, in un futuro prossimo, le donne possano crescere
fino al punto di non avere più bisogno di queste commedie per
sopravvivere.”
*****
Compatibilmente con il suo nuovo
lavoro ed i miei impegni universitari, ci ritagliavamo
obbligatoriamente qualche ora insieme per portare avanti il
nostro finto matrimonio. Piano piano scoprimmo che quell’obbligo
era quasi un piacere ed una mattina, come due sposi veri,
andammo a visitare il “Lago della Spada Restituita.” Ci alzammo
presto e raggiungemmo il lago dopo una lunga passeggiata, poi ci
sedemmo sulla sua riva nella parte sud per ammirare meglio la
pagoda della Torre della tartaruga.
A quel punto
Lành si sentì in dovere di raccontarmi la leggenda del lago e
l’origine di quel nome. “C’era una volta un re di nome Le
Loi particolarmente sfortunato. Si racconta che, nel 400 con il
Vietnam invaso dai cinesi, lui provò più volte a scacciare gli
invasori, ma rimase sempre sconfitto. Un giorno, mentre
passeggiava sulla riva di questo lago, ricevette da una
tartaruga dorata una spada magica per mezzo della quale riuscì a
cacciare via tutta la dinastia Ming da Hanoi ed ottenere
l’indipendenza del Vietnam. Fiero della vittoria il re nei
giorni successivi venne spesso qui per esercitarsi con la spada.
Un giorno però, mentre faceva i suoi esercizi, una tartaruga
gigante emerse dall’acqua e gli ordinò di restituire la spada
perché non avrebbe dovuto più difendersi dai cinesi. Lui accettò
e in quel momento vide la spada fluttuare magicamente nell’aria
e dirigersi verso la tartaruga. Con la spada in bocca, la
tartaruga si rituffò nel lago e da allora quello stesso lago fu
chiamato: “Lago della spada restituita”.
*****
Un
giorno mentre attraversavamo le strade del quartiere francese
per andare verso la zona del Tempio della Letteratura, dissi a
Lành che avevo ritirato le analisi e il bambino stava bene e
cresceva a meraviglia.
Lui non disse nulla ed io allora le
chiesi: “Non ti dispiace vero se ne parlo?”
“Perché dovrei essere
dispiaciuto? Hai fatto tutto questo per il suo bene, rischiando
in prima persona. Sono sicuro che sarai una mamma meravigliosa.”
Disse lui rallentando il passo.
“Sì lo so, ma io mi riferivo ad
altro… Tu non sei il padre e potrebbe darti fastidio...”
A quel punto si bloccò e a voce bassa
disse: “Sai una cosa? Credo di esserlo più io di qualsiasi
altro uomo.”
Quella risposta mi lasciò perplessa,
ma preferii entrare in un negozio lì vicino e provarmi un
bellissimo cappello rosa e verde.
Come da
contratto dopo circa un mese la consulente ci invitò in agenzia
per mettere insieme la messinscena dei grandi litigi e iniziare
a preparare le carte per il divorzio. L’avvocato si raccomandò
di essere precisi e dettagliati in modo da evitare lungaggini
durante la causa. Purtroppo durante quel periodo io e Lành
eravamo andati di comune accordo e non avevamo avuto neanche il
minimo bisticcio per cui fu un’impresa gravosa mettere insieme
dei motivi plausibili.
Ricordo la sera quando le chiesi di
salire in casa e rimanere da me qualche ora, in fin dei conti
dovevamo finire di scrivere esattamente le nostre rivendicazioni
con le quali avremmo chiesto consensualmente il divorzio. Lui mi
guardò con aria strana, ma accettò l’invito.
Ci sedemmo al tavolo della cucina, ma
dopo un’ora il foglio rimase miseramente bianco. Ridemmo a
crepapelle, sembrava davvero non ci fosse nulla di finto!
Lui allora mi guardò e mi disse:
“Mia cara Chi, se non troviamo difetti sarà difficile
divorziare!”
Senza pensare risposi: “E perché
mai dovremmo farlo?”
Contemporaneamente avvicinammo i
nostri visi, le nostre labbra divennero una calamita e per la
prima volta, dopo mesi e mesi, ci baciammo.
Era vero,
non c’era nulla di finto e quello fu il nostro primo bacio vero!
Poi ne seguirono altri, ma questa è
un’altra storia.
FINE |
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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TUTTI I
RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
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