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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
La stanza rossa
(Lo strano racconto di Mary Ellen Nelson)
"Ormai sono passati tanti anni, sono sposata, ho un marito ricco, laureata ad Oxford, due figli, eppure il mio pensiero corre sempre lì, in quei giorni di un caldo luglio del 1973."

 




Chissà perché sono ancora qui che ripenso a quel racconto. Ormai sono passati tanti anni, sono sposata, ho un marito ricco, laureata ad Oxford, due figli, ora imprenditrice con una bella villa vista oceano, eppure il mio pensiero corre sempre lì, in quei giorni di un caldo luglio del 1973.
Allora avevo appena compiuto 18 anni e mi sentivo bella e donna, insomma un’adulta capace di sfidare il mondo e di averlo ai miei piedi anche se in realtà ero pressappoco un’adolescente, nata e vissuta in Florida e precisamente a Fort Lauderdale, una cittadina incantevole sulla costa sud-orientale. Adoravo come adoro questo posto, conosciuto per le sue spiagge meravigliose e paradisiache e per la “The Strip”, la lunga passeggiata che corre lungo l’autostrada A1A, lungo la costa dell’oceano, piena di raffinati ristoranti all’aperto, bar, boutique e hotel di lusso.

Comunque io sono Mary Ellen Nelson, figlia di un imprenditore alberghiero ed al tempo uscivo con Mark Adams rampollo di una famiglia benestante che gestiva la maggior parte delle sale giochi di tutta la costa. Non eravamo ufficialmente insieme, diciamo che tra noi c’era un’intima amicizia, ma senza alcun legame stretto, insomma una buona intesa favorita soprattutto dalle nostre famiglie, le quali avrebbero visto di buon occhio una nostra unione. Tra l’altro Mark, a mio parere, non aveva ancora ben capito di che pasta fosse fatto tanto che una sera di luna piena mi aveva confessato di aver avuto qualche mese prima un rapporto di sesso estemporaneo con un suo ex amico del college.
Entrambi avevamo finito da poco il college e ovviamente viste le nostre agiatezze, non pensavamo a lavorare o a proseguire gli studi, ma solo a divertici. Ogni sera uscivamo per andare a ballare ed ascoltare musica, fare lunghe scorribande in macchina con i nostri amici o semplicemente per frequentare bei locali con bella gente.

Durante una di queste uscite al Brandy Pub, un locale famoso per i suoi cocktail di gamberetti ed ostriche al rum, incontrammo un uomo di bell’aspetto e sicuramente affascinante. Lui venne vicino al nostro tavolo e noi lo facemmo sedere. A giudicare dal suo viso, impeccabilmente abbronzato, avrà avuto all’incirca una quarantina di anni. Quella sera evidentemente aveva voglia di parlare, ci disse di essere in crisi con sua moglie per cui, per tutta la serata, ci parlò della sua bella villa, dei suoi affari finanziari, della sua bella moglie appunto che viveva a Miami e che per due volte da ragazza aveva vinto il titolo di Miss Florida, dei suoi due cani pregiati e immancabilmente del suo yacht attraccato nella darsena del Coral Ridge Yacht Club.

Sulla terrazza del Brandy Pub passammo quella serata ascoltando i suoi succosi aneddoti di vita vissuta. Del resto era un tipo anche simpatico ed io e Mark ridemmo a crepapelle quando ci raccontò della volta in cui, ad una festa mascherata, scambiò sua madre con una vedova ricca e molto avvenente ritrovandosi penosamente a letto con sua madre. Insomma Erick Brady, questo il suo nome, si dimostrò una persona molto gioviale e sicuramente interessante per cui, d’accordo con Mark, decidemmo di rivederci la sera successiva sempre lì al Brandy Pub.

Il giorno seguente si presentò in perfetto orario con un grosso mazzo di rose gialle per me e una scatola di sigari Cohiba per Mark. Quella sera portava una camicia bianca che risaltava la sua abbronzatura, un blazer e un paio di jeans. Non nascondo che la persona non mi era affatto indifferente e quella sera cercai di essere più affabile del solito sostenendo brillantemente la conversazione. Credo che anche a Mark non risultasse indifferente sta di fatto che verso la mezzanotte quando Erick ci propose di finire la serata nella sua bella villa, io e Mark ci guardammo intensamente negli occhi e decidemmo senza alcun dubbio di accettare il suo invito. Sinceramente non sapevamo che intenzioni avesse, ma tutti e due avevamo bisogno di fuggire da quella routine del solito giro di amici e sicuramente di qualcosa di diverso. Insomma Erick ci sembrava veramente la persona adatta a noi.

Ci fece salire sulla sua auto, una Pontiac Bonneville rossa col tettino bianco, mi sembrava davvero un sogno quando prima di imboccare il grosso cancello della sua villa davanti alla Sunrise Bay ci fece fare un giro panoramico attraverso la laguna di Fort Lauderdale sfrecciando lungo la Boulevard. Una volta a casa, adagiati sui suoi divani morbidi, ci offrì da bere comportandosi da vero Cicerone e descrivendo nei minimi dettagli i suoi quadri d’autore d’arte contemporanea sparsi sulle pareti della grande sala e frutto di vincite miliardarie nelle aste di Londra e di New York. Poi mise a tutto volume un pezzo dei Led Zeppelin, credo Whole Lotta Love, e mimando i movimenti con la chitarra di Jimmy Page iniziò a cantare a squarciagola. Insomma la serata prometteva bene e di certo stava procedendo come previsto. Non so cosa ne pensasse Mark, ma a giudicare dal suo guardo mi sembrava più che divertito, e quando Erick si avvicinò a me, facendomi i complimenti per come ero vestita e, a suo parere, per la mia sensualità innata, davvero pensai di aver fatto la scelta giusta per quella sera.

Poi ci offrì da bere e preparò due tre sigarette non certo di solo tabacco. Fumammo e bevemmo, poi Erick mi invitò a ballare e nel bel mezzo della sala tentò di baciarmi e contemporaneamente di toccarmi il sedere. Ripeto il tipo era molto interessante, forse in altre circostanze e sicuramente con un diverso approccio e da soli non avrei avuto problemi ad accettare le sue avance, ma in quel momento non mi sembrava il caso per cui rifiutai e lo allontanai in modo brusco. Lui non si perse d’animo e venne di nuovo alla carica toccandomi il seno e ripetendomi che, se avessi voluto, sarei stata la sua regina, ma viste la mie resistenze, fece una faccia stupida come se non se lo aspettasse e purtroppo, da quel momento, cambiò atteggiamento.

Mi spinse sul divano e chiamò Mark ordinandogli di unirsi a noi. Ci disse di baciarci, di accarezzarci e simulare sesso, e noi, vista la piega imprevista che stava prendendo la serata, cercammo di assecondarlo, ma evidentemente non eravamo preparati per quel tipo di situazione, tanto che lui si stufò presto, balzò in piedi e iniziò ad urlarci contro. A quel punto ci costrinse a spogliarci completamente nudi e visto che non ubbidivamo ai suoi comandi, estrasse la pistola ordinandoci di fare l’amore.

Beh sì la situazione era peggiorata nel giro di qualche minuto. Sotto la minaccia di quella pistola iniziai a tremare e lui mi disse di stare calma e di non urlare perché, in quella sperduta landa, nessuno mi avrebbe sentito e se avessi fatto la brava non mi sarebbe successo nulla. Mi resi conto che non potevo fare altro e allora convinsi Mark a baciarmi, poi sempre tenendo d’occhio quella pistola puntata, aprii le gambe e con un gesto molto eloquente dissi a Mark di salire su di me. Lui obbedì, ma, essendo in preda al panico, il suo sesso si guardò bene da essere maschio per cui nonostante i miei sforzi e gli incitamenti di quell’uomo non riuscimmo a fare l’amore.

Erick, evidentemente eccitato dalla situazione, iniziò a masturbarsi e poi prendendo una macchina fotografica, posò la pistola sul tappeto vicino ai suoi piedi ed iniziò ossessivamente a fotografarci. Mark, che aveva seguito la scena, con uno scatto fulmineo si avventò contro di lui cercando di afferrare l’arma, ma Erick fu più veloce, prese la pistola e schivando i pugni di Mark schiacciò per tre volte il grilletto colpendolo al cuore. Ero sconvolta, cercai di fuggire, ma lui mi prese per le gambe e mi fece cadere a terra ed io, presa dal panico, gli gridai di risparmiarmi. Lui con voce controllata mi disse che se avessi obbedito non mi avrebbe fatto nulla.

Accanto al corpo di Mark sanguinante, credo ormai senza vita, mi legò le mani con la sua cintura, poi mi penetrò più volte esaltandosi per la sua virilità di maschio esperto. Avevo il cuore a mille, piangevo per la disperazione e per il mio amico, ma cosa strana riuscii ad avere più orgasmi. Lui se ne accorse e mi baciò avidamente la bocca dicendomi che avremmo passato insieme una meravigliosa notte. A quel punto mi trascinò in un’altra stanza, appena la vidi capii immediatamente che si trattava a tutti gli effetti di una stanza della tortura, senza finestre e con le pareti coperte di velluto rosso. C’erano sparsi degli attrezzi di ferro pesante e delle corde, una sedia con delle manette e una specie di ghigliottina d’epoca. Lui mi adagiò su una panca, mi baciò di nuovo in bocca sussurrandomi che quella notte sarei stata la sua schiava e la sua regina.

Durante quelle ore interminabili non feci altro che sottostare a qualunque suo desiderio, stravolta finsi urla di piacere, orgasmi ripetuti elogiando smisuratamente le sue doti di maschio e padrone. Sopra quella panca, lui fece colare sui miei seni la cera bollente di una candela accesa e poi mi fasciò con delle bende lasciando scoperti solo i capezzoli e il mio pube che strinse con dei morsetti collegati ad una batteria. Quelle piccole scariche non erano del tutto insopportabili, ma ovviamente non provavo alcun piacere, ma solo tanta paura e sapendo che avrei risparmiato la mia vita solo assecondandolo non persi mai conoscenza.
Ossessivamente mi ripeteva ridendo che mi amava, che ero la donna perfetta per lui, poi però iniziò a piangere lacrime vere quando mi raccontò dei continui tradimenti della moglie. Subito dopo mi penetrò di nuovo chiamandomi col nome di sua moglie, mi picchiò prendendomi a male parole. Finalmente verso l’alba, quando ormai aveva esaurito tutte le sue voglie, cambiò di nuovo atteggiamento, docile e remissivo, mi disse che ero stata fantastica e che, se io avessi voluto, sarei potuta diventare per sempre la sua donna.

Mi slegò e addirittura mi chiese di aiutarlo a far scomparire il cadavere di Mark. Lo trascinammo con il tappeto insanguinato lungo tutto il corridoio fino alla stanza della tortura, poi lui, chiudendo la porta a chiave, mi disse sorridendo che mai più nessuno avrebbe trovato anche la minima traccia di quel corpo. In ginocchio mi baciò tra le gambe scusandosi per quello che era stato costretto a fare al mio amico e confessandomi che quella sarebbe stata la fine di chiunque si fosse messo contro il nostro amore.
Salutandomi mi chiese quanto lo amassi e cosa ne pensassi di lui, ma per fortuna la sua pazzia non desiderava risposta anzi, con le mani giunte e ancora in ginocchio mi chiamò regina e mi implorò di amarlo dicendomi che nutriva una smisurata fiducia nei miei confronti tanto da lasciarmi libera perché sapeva benissimo che a nessuno mai avrei raccontato quella storia. Mi fece anche promettere che la sera stessa ci saremmo rivisti al Brandy Pub. Promisi tutto e dissi sempre di sì. Dentro me avevo il terrore che ci ripensasse e volevo a tutti i costi salvare la mia vita uscendo da quella casa maledetta.


*****

Tornai a casa e nessuno per fortuna si era accorto della mia assenza durante la notte, del resto ero solita fare le ore piccole per cui, entrata in casa, mi feci una doccia, poi andai nella mia stanza e mi misi a dormire. Tra incubi e sogni dormii per dodici ore di fila, poi al risveglio dissi a mia madre di non stare bene e che non avrei desiderato vedere nessuno. Avevo il terrore che lei si accorgesse di qualcosa di strano e, ancora sotto shock, avevo bisogno di riflettere e al momento non volevo parlarne con nessuno. Il giorno dopo ricevetti la chiamata del padre di Mark, mi disse che era preoccupato per l’assenza del figlio, ma io gli risposi mentendo che non lo vedevo da giorni. Insomma ero ancora nel panico assoluto con la tremenda paura che Erick, visto che non mi ero presentata al Brandy Pub, mi stesse in qualche modo cercando. Del resto non sarebbe stato difficile per lui sapere dove abitassi e allora imposi a mia madre di non aprire a sconosciuti e in caso mi avessero cercata al telefono di dire che ero partita per un lungo viaggio in Europa!

Passarono esattamente tre settimane quando tra sensi di colpa e pentimenti mi convinsi che quel corpo insanguinato di Mark e quella notte di violenza sul mio corpo straziato dovevano avere un minimo di giustizia. E allora chiamai mia madre nella mia stanza, chiusi a chiave e le raccontai per filo e per segno di quella notte. Lei ne fu sconvolta e insieme decidemmo di andare alla stazione di polizia di Fort Lauderdale.


*****

Il tenente Laura Coldrige era una donna di colore di mezza età, ci accolse nel suo ufficio e mi ascoltò in religioso silenzio. Sulla sua scrivania c’erano in bella vista le foto di Mark per cui non le fu difficile unire i due casi. Mi fece alcune domande a cui risposi in maniera lucida e dettagliata descrivendo nei minimi particolari il soggiorno e la stanza della tortura, dove avevo subito quelle violenze e dove era stato chiuso il cadavere di Mark. Alla fine mi fece firmare un modulo e immediatamente fece partire le indagini. Una macchina della polizia partì subito in direzione della villa di Erick Brady, mentre io e mia madre tornammo a casa nella speranza che il caso potesse risolversi in poco tempo.

Laura Coldrige, non avendo ancora alcun mandato di perquisizione, bussò con la dovuta cortesia, ma Erick non fece alcuna resistenza, anzi accolse il tenente con la sua solita aria affabile. Ovviamente si dimostrò socievole e disponibile, fece accomodare gli agenti e offrì loro caffè, thè e pasticcini. Sorrise davanti a quelle accuse e, visto che non aveva nulla da temere, invitò gli agenti a perlustrare a fondo la casa. Il risultato fu che non venne trovata alcuna stanza della tortura, anzi nel lato della casa indicato da me, vi era una scala che portava ai piani superiori. Nella grande sala al posto dei due grandi divani di pelle nera e dei quadri d’autore vi erano rispettivamente delle grosse poltrone rosse arabescate e degli affreschi stilizzati in bianco e nero che ricordavano Manhattan. Insomma in quelle settimane la casa era stata completamente stravolta e la mia confessione risultò non veritiera. Tra le altre cose furono prelevati alcuni campioni sul pavimento e sulla mobilia, ma i rilievi scientifici esclusero qualsiasi traccia di sangue e liquido umano. A quel punto Laura Coldrige chiamò i miei genitori ed io fui interrogata da un team di medici, praticamente una visita psichiatrica! Il loro intento era quello di scavare nella mia adolescenza e soprattutto nella mia personalità. Alla fine il tenente decise che la mia storia era totalmente inventata ed io fui ritenuta una bugiarda patologica anche se a scopo benefico in quanto, secondo loro, ero stata traumatizzata dalla scomparsa del mio amico Mark.

Quindi, nonostante avessi denunciato l’accaduto, esponendomi di fatto a grossi rischi personali, la polizia non mi aveva creduto anzi aveva creduto a quell’assassino! Sebbene i miei fecero del tutto per tranquillizzarmi e dissimulare la loro preoccupazione per il mio stato mentale, sentivo a pelle la loro diffidenza, del resto per loro non era facile credermi e per me non fu difficile dimenticare quella maledetta storia. Beh sì da piccola avevo letto molto gialli, mi ero anche appassionata a storie dal sapore noir ed anche scritto qualche racconto per cui col passare dei giorni iniziai anche io a dubitare di aver vissuto quella storia. Forse era solo un modo per difendermi dalla mia stessa fervida fantasia e forse davvero Mark era scappato di casa per i tanti contrasti che aveva avuto con i genitori e di certo non era mai stato disteso, con il torace sanguinante, sul tappeto di quella casa.

Passai un altro mese rinchiusa in casa, poi decisi di riprendere a studiare, cambiare vita e andare lontano dalla Florida per cui salutai i miei genitori e andai ad Oxford in Inghilterra. Forse sarà stata la distanza da casa, i miei nuovi amici, l’impegno con cui cercavo di studiare, le nuove abitudini inglesi, i nuovi locali dove la sera andavamo a ballare, insomma a poco a poco mi convinsi che quella storia risiedeva nella mia mente ben prima che accadesse. Per cui, visto che mi frullava nella mente da anni, dovevo assolutamente scriverla in modo che mi rendessi finalmente conto di non averla mai vissuta. E chissà perché la scrissi in forma di diario con la voce narrante dello stesso assassino il quale una sera di luglio aveva invitato nella sua bella villa due ragazzi di nome Mary Ellen e Mark eccetera eccetera...

Ci impiegai una notte intera, all’alba avevo già scritto la parola fine e mi chiesi come mai non ci avessi pensato prima, perché era stato alquanto straordinario scrivere una storia come questa, con centinaia di particolari, vissuta intensamente e assaporando il pericolo delle vittime, il rischio della vita, il piacere del dominio, della violenza e della tortura, il sopruso e le sensazioni distruttive. Insomma diedi adito alla più fervida fantasia e visto che era un mero racconto non mi sentii mai coinvolta personalmente. Anzi fu per me una vera liberazione, non tanto da ciò che ora ero convinta di non aver mai vissuto, ma dal mio stesso incubo ricorrente. Ero di nuovo la Mary Ellen Nelson di un tempo, convinta che prima o poi avrei rincontrato il mio amico Mark Adams e ci saremmo fatti una bella bevuta insieme e soprattutto grasse e grosse risate su ciò che non era mai accaduto!


*****

Esattamente sei mesi dopo l’accaduto, il signor Patt Commer e sua moglie Linda, residenti a Fort Lauderdale in una villa davanti alla Sunrise Bay, durante la loro solita passeggiata mattutina, notarono in un giardino a un centinaio di metri dalla loro casa, un uomo di circa quarant’anni, disteso su una sdraio, da tre giorni di fila e sempre nella stessa posizione. I coniugi Commer si allarmarono e chiamarono la polizia. Dopo un breve sopralluogo non fu difficile al tenente Laura Coldrige decretare la morte di quell’uomo e dichiarare senza ombra di dubbio che le sue generalità corrispondevano al nome di Erick Brady.
Già Erick Brady era morto. Si era tolto la vita bevendo latte al cioccolato e cianuro, un mix insolito, ma decisamente letale. Dopo il funerale, la moglie di Erick, decisa a cancellare qualsiasi traccia della sua vita passata col marito, fece passare alcuni giorni e poi avviò i lavori di ristrutturazione della villa.
Gli operai seguendo le istruzioni ricevute smantellarono praticamente tutto il piano inferiore della casa. E furono loro stessi a scoprire gli orribili segreti, trai quali i resti del corpo smembrato di Mark Adams, ritrovati chiusi dietro una lastra di cemento all’interno di un box doccia. Quando gli stessi operai smantellarono la scala di marmo italiano trovarono una piccola porta blindata per mezzo della quale entrarono nella famosa camera della tortura con le pareti di velluto rosso, uguale per filo e per segno a quella descritta dalla fervida fantasia di Mary. Il tenente Laura Coldrige durante l’ennesimo sopralluogo, scovò ben nascosto, dietro uno stipite di legno, un diario in cui l’uomo aveva annotato meticolosamente la storia che Mary aveva raccontato agli agenti.


*****

I genitori di Mary Ellen per preservare la loro figlia, vista anche la distanza, le tennero nascosta la vicenda. Del resto, essendo morto l’assassino, la polizia decise di non intentare alcun processo e quindi di non coinvolgere la unica testimone del caso. Mary Ellen Nelson, dal canto suo, ormai eccellente studentessa della Oxford University, seppe dell’accaduto attraverso un trafiletto di un giornale londinese, nel quale si raccontava della vicenda del ritrovamento di quella stanza della tortura e del diario, ma senza citare i nomi dei protagonisti. Mary Ellen Nelson rileggendo l’articolo non si scompose più di tanto, ma si chiese soltanto come fosse stato possibile che il suo racconto fosse finito in quella stanza e per quale strana ragione quell’uomo avesse seguito dettagliatamente la sua storia per compiere quell’efferato delitto.








 Il presente racconto è liberamente tratto
dalla vicenda del rapimento di Albert Brust
avvenuta nel luglio del 1973 a Fort Lauderdale
in Florida che ha visto coinvolti
la quindicenne Mary Ellen Jones e il suo
amico Mark Matson allora sedicenne.



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