Madame
lei è passata alla storia come assassina seriale, ci
si ritrova?
Sono stata solo una
simpatizzante delle donne che si sentivano
intrappolate in matrimoni sbagliati.
Simpatizzante in che senso?
Non
sopportavo le ingiustizie, ma a quel tempo le leggi
erano fatte dagli uomini per gli uomini, eravamo nel
periodo della Santa Inquisizione per cui l’unica via
per quelle poverette, costrette al matrimonio in età
giovanissima, era passare alle vie di fatto contro
gli abusi e le angherie. Quindi decisi di vendere
loro un veleno, che non lasciasse tracce, da
somministrare ai loro mariti violenti e maneschi.
Madame le sue origini?
Sono
nata poverissima nei bassifondi palermitani, orfana
di padre, analfabeta e priva di ogni educazione,
avevo dalla mia parte solo la mia bellezza. Come
meretrice frequentai la corte di Filippo IV di
Spagna e gli ambienti del clero. Ero una donna
ambiziosa, ma il commercio carnale mi permetteva di
sopravvivere, ma non di elevare il mio ceto sociale
e neppure d'essere amata.
Chi era
sua madre?
Mia madre era Thofania
d'Adamo, giustiziata a Palermo il 12 luglio del 1633
con l'accusa di aver avvelenato suo marito
Francesco.
Quindi per questo motivo
si dedicò allo studio di un veleno che non lasciasse
tracce…
Tramite un frate speziale
riuscii a rifornirmi di polveri chimiche necessarie
per mettere a punto la mia miscela cosi che elaborai
la formula di un veleno inodore, incolore e insapore
con l’aiuto di mia figlia Girolama Spera chiamata in
seguito “l’astroliga della Longara”, la quale nel
giro di poco tempo superò la “maestra”, ovvero la
sottoscritta, in perizia e riservatezza.
Era il veleno perfetto…
Uccideva
lentamente, senza dare nell’occhio, un miscuglio di
arsenico e antimonio che doveva essere somministrato
un po’ per giorno, attraverso un numero preciso di
gocce versate nel vino o nella zuppa. La soluzione
provocava vomito, poi febbri altissime, quindi
conduceva a morte nel giro di quindici-venti giorni
e soprattutto lasciava roseo il colorito del morto.
Insomma procurava sintomi generici facendo così in
modo che l'assassinio non venisse scoperto. Chiamai
la soluzione Acqua Tofana dal nome di mia madre
Thofania
Ma precisamente in cosa
consisteva la soluzione?
L'acqua tofana
conteneva arsenico, piombo e belladonna aggiungevo
acqua distillata aromatica con miscela di anidride
arseniosa, limatura di piombo e antimonio e facevo
bollire quel liquido rigorosamente trasparente in
una pentola sigillata.
Dopo la morte
di sua madre vendette il veleno fuori i confini
palermitani.
Non faticai a piazzare la
merce e i clienti aumentarono in fretta tanto che le
rendite mi consentirono di lasciare il malfamato
quartiere del Papireto. Poi per una serie di
vicissitudini decisi di fuggire e mi trasferii prima
a Napoli e poi, con l’aiuto di un frate Girolamo del
quale mi ero innamorata, a Roma.
Nella città di San Pietro cosa fece?
Decisa a costruirmi un’altra vita presi alloggio in
un bell’appartamento alla Lungara, nel rione
Trastevere, a spese del mio amante il quale
trascorreva le ore di preghiera e silenzio nel
convento di San Lorenzo. Poi lo convinsi a
procurarmi la materia prima, lui non oppose
resistenze e mi rifornì dell’arsenico tramite uno
zio compiacente, un frate speziale alla Minerva.
Rispolverata la vecchia formula tornai al lavoro
vendendo la merce, per mio rigore morale,
esclusivamente alle donne. Qui gli affari andarono a
gonfie vele al punto che riuscii a vendere circa
seicento dosi di veleno che uccisero altrettanti
uomini.
Un commercio fiorente e
redditivo…
A Roma imparai a scrivere,
vestivo come una dama d’alto rango, dimenticando gli
anni bui di Palermo. Finché un’amica più cara delle
altre, la contessa di Ceri, non si venne a lamentare
proprio con me dei maltrattamenti subiti in casa dal
marito.
Purtroppo fu colpita da una
denuncia proveniente dai parenti di suo marito
avvelenato dalla propria consorte….
Purtroppo sì… ansiosa di liberarsi del consorte e
contrariamente alle istruzioni ricevute, gli vuotò
l’intera boccetta del veleno nella minestra,
provocandone la morte immediata e scatenando i
sospetti dei parenti. L’indagine di polizia condusse
presto a me.
Si scatenò una caccia
alle streghe impressionante.
Specialmente da parte della popolazione maschile che
si sentiva minacciata da me. Venni definita una
fattucchiera e una megera. Riparai in una chiesa e
mi misi in salvo, ma poi quando uscii venni
catturata e condotta nel palazzo dell’Inquisizione,
a Porta Cavalleggeri. Sotto tortura confessai di
aver venduto, ma solo a Roma, veleno sufficiente a
uccidere circa 600 uomini, tra il 1633 ed il 1651.
Ovviamente la giustizia non tenne conto che la mia
attività fosse a fin di bene e che vendevo il
prodotto solo a donne insoddisfatte del matrimonio.
Pentita?
Assolutamente
no! Paracelso sosteneva che “tutto è veleno e nulla
esiste senza veleno. Solo la dose fa in modo che il
veleno non faccia effetto.”
Giulia Tofana
fu condannata e giustiziata tramite impiccagione a
Campo de' Fiori, il 5 luglio del 1659, insieme alla
figlia Giroloma e agli apprendisti, nonché a un
certo numero di mogli accusate di aver avvelenato i
mariti somministrando loro la pozione. Solo in
seguito venne approvata una legge che richiedeva la
registrazione per l’uso e la vendita dei veleni.