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AMORE IN CHAT

Il nome che diamo all’amore
"Sorrido mio caro, illusa di dare un nome all’amore, l’ardore che brucia quest’insoddisfazione perenne che mi travolge ogni volta che rimango da sola e mi porta in fondo ad ogni vicolo stretto dove non posso fuggire, dove all’imbrunire un fascio di luna punta la luce dalle parti della mia incoscienza."









Photo Jaroslav Monchak







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Mia cara signora, spero che ora sia collegata. Ho da farle una confessione importante, ho bisogno di dirle che le voglio un infinito di bene, anzi che l’amo se m’è permesso. Giuro e stragiuro che mai m’è successo di toccare un’anima con le sole parole, di sentirla viva, come un cuore che continua a battere fuori da un corpo.
La prego mi risponda! Ho pensato di non collegarmi più, addirittura di cambiare nick, per costringerla a concedermi un incontro, ma è troppo stretto questo laccio. Non ci sono ragioni in questo silenzio. Per placare la brama che sento, durante il giorno mi faccio forza e continuo a pensare, la notte, il momento che nei miei occhi appaia la luce e nelle mie vene scorra altro sangue.
Signora la prego, mi dica esattamente il giorno, l’ora, dove posso incontrarla, anzi dove posso solo vederla, perché non la disturberò. Non occorre che mi dica se porta una rosa o un giornale nella mano sinistra, la riconoscerei tra milioni di donne che sciamano lungo le strade all’ora di punta. La prego non è il sesso che feconda i miei sogni, il diritto d’entrare tra le sue gambe come mi spetta, ma il bisogno di sapere in quale posto ogni sera si bruciano i miei pensieri, quale anima rivestita di carne li accoglie, li arde al tepore nella speranza che sia arrivato il mio turno. Stanotte domani, lo dica la prego! Mi giuri che nulla sarà impedimento del nostro toccarci, scambiarci saliva, succhiarci le dita come ciucci di bimbi, come stare in un limbo nell’attesa che esploda l’ardore.
Oddio! Ma che dico? Davvero vorrei solo guardarla magari mentre cammina sottobraccio al suo uomo. Mi perdoni l’ardore. Lei capirà il trasporto, l’insolenza che stasera m’ha portato ad uscir dalle righe. La prego risponda.



Sorrido mio caro, lei non mi vede ma sto sorridendo, se penso che cerco soltanto la passione che scambio per amore, l’ardore che spegne e contemporaneamente brucia quest’insoddisfazione perenne che mi travolge ogni volta che rimango da sola e mi porta in fondo ad ogni vicolo stretto dove non posso fuggire, dove all’imbrunire un fascio di luna punta la luce dalle parti della mia incoscienza.
Alle volte mi domando quanto possa ancora andare avanti, quanto mio marito tenga ancora lento questo guinzaglio, quanto lei quello mentale. Chissà se mio marito immagina quanto di giorno mi sfogo, su quale ghiaia genufletto le gambe, sotto quale pioggia mi metto a carponi infangando il cognome che porta, questa casa e sua madre che ogni sera mi chiama.
Mi parla del tempo che fa male alle ossa, che cosa faccio per cena, senza sapere che sua nuora passa i giorni in chat carpendo ogni minimo istinto per tradire suo figlio, per provare piacere nel sentirlo pieno di corna nella bocca di altri, nelle parole avide che ripetono il gusto di farsi una moglie.

Loro parlano ed io l’ascolto, ma mi verrebbe da dire che i miei vestiti sono sempre di seta, che comunque anche puttana mi sento signora, che il più delle volte porto un cappello che mi copre la fronte e due labbra che ad ogni sguardo socchiudo perché sia chiaro che l’amore che chiedo ha già in cambio una culla, il posto più caldo dove accovacciarmi e per fare le fusa.

Mio caro, anche questa giornata non è passata per nulla, questi seni che lei non conosce hanno dato il meglio che l’anima chiede. Erano belli quanto un ramo di pesco in germoglio, quanto un’adolescente illibata che s’atteggia a signora. Nudi sotto una nuvola sparsa aspettavano il vapore di una bocca qualunque, il fremito d’una mano che tocca per il tempo che non è mai abbastanza.

Sapesse mio caro! Quanto al solo ricordo la voglia mi fa scoppiare le gambe, confusa nel desiderio scomposto che s'aggira dalle parti del cuore. Ma poi m’accorgo che non è cuore, non è anima, non è spirito e né religione, ma solo banale sesso di donna, che pulsa e che freme dentro ordinarie mutande di stoffa.
Ho quarant’anni e m’illudo di non dimostrarli, ma poi sfacciata mostro questo seno che balla, che pende, che mi spoglia di quella finta malizia costruita a fatica davanti allo specchio. Mostro i miei seni sì, attratti da quest’infinito bisogno d’essere oggetto, desiderio evidente nelle patte rigonfie. Le giuro, non conosco altro modo per essere femmina, altro genere per essere donna, quando m’accorgo che non stanno nella pelle, quando mi seguono discreti e gentili per poi diventare cafoni e volgari tra le mie mani che si fingono esperte, tra le mie gambe che s’aprono appena.

Scopro il mio seno quel poco per svuotare l’attesa, lo scopro quel tanto per riempire il mio giorno, per aprire due occhi ancora indecisi, se chiedere quanto sia consentito volare e quanto poi dura il palio e la giostra, e quanto poi costa la tariffa e il biglietto, nella voglia d’avermi e di fermare la danza, di mettere in gabbia le mie tette leziose, che danzerebbero al vento mentre cammino, che chiedono mute di farsi toccare, d’essere linfa e sorgente di luce, lampi accecanti di un temporale vicino, perché sono stelle che orientano al buio, sono tette sfacciate che sorridono a tutti, come orfani bimbi per farsi adottare, obbedienti e infedeli che si danno per poco, ribelli e sfrontate che si danno per tanto.

Sono campi di grano, rigogliosi e fecondi, distese di mare che nutrono pesci, ma anche siepi d’alloro che sanno di piscio, lische marcite per i gatti di notte. Sono palle bagnate di saliva e di voglia, spugne sgualcite di piacere imbevuto, poi il vento le asciuga e riprendono forma, pronte e stirate per la prossima bocca, che esperta le tratta come un bene prezioso, che inesperta le graffia, che infantile le gusta, come un cono gelato di panna e pistacchio, zucchero filato la domenica in piazza nella bella stagione. Sono gatte in calore sotto le finestre di notte, che s’accoppiano al primo dopo ore di corte, ma poi ammiccano al branco che muto le aspetta, quando i fiati del primo si fanno insicuri.

Vorrei ostentarle oltre questa chat, gonfiarle al vento ogni sera, perché siano ombrelli per ripararli se piove, perché siano stufe per scaldarci le mani, e siano chiocce, ricordi materni, per chiunque s’illuda d’averle già viste, attaccate alle madri che sgorgavano latte. E vorrei che ne uscisse abbondante, per ogni bocca che succhia e ogni lingua che lecca, come nettare d’anima che nutre la mente, e farla ingozzare fino all’ultima goccia, quando scade la voglia e s’affloscia il respiro, e non rimane che sonno e non rimane che niente, forse solo la luna che si spegne nel mare, e lascia un alone che scambio con l’alba.

Non cerco un amante, un rozzo signore che mi punti dritto nel sesso, che mi puntelli in un angolo per il gusto di farmi piacere. Nei miei deliri cerco un uomo che abbia il coraggio di soffiarmi in bocca senza permesso, che mi chiami con un nome diverso, che imbrogli le mie labbra d’essere parte del mondo e le illuda che un sesso alla volta è solo un timore borghese, un anoressico sogno d’una mogliettina in attesa nel letto.
Cerco un uomo che abbondi saliva nei baci che offre, al punto di non credere che siano atti d’amore e mi faccia fino in fondo pensare che se fossero sputi sarebbero graditi lo stesso. Non ho bisogno d’essere riempita di carne, d’essere gonfiata d’aria addosso ad un muro, mentre l’uomo di turno mi chiude e mi schiude questa conchiglia che ha bisogno d’ossigeno.

Cerco un uomo che mi riduca obbediente, che sappia farmi sentire il potere arrivando qui dentro, nel punto preciso dove ogni sesso diventa un’essenza, dove ogni donna sia certa d’avere l’anima in mezzo alle gambe.
Le giuro! Non sono questi buchi in superficie che addobbo e coloro di pizzi e merletti perché un uomo ne trovi più facilmente la strada! Non sono questi vestiti che eccentrici danno l’idea che me ne intenda di maschi, come se conoscessi a memoria ogni dettaglio che vibra, che invece senza sapere mi procura soltanto un vuoto mai sazio.
E’ qualcosa che vive dentro il mio ventre, tra queste carni che si comprimono ogni volta, quando un uomo riesce ad arrivare dalle parti del mio concetto, a sfiorare l’idea perché faccio l’amore. Perché in amore c’è differenza ed io ne voglio sentire più di quanto il mio corpo non dica, più di quanto il suo corpo s’affanna, perché l’amore non è altro che un grido, una banale illusione che chiamano orgasmo, un sapore d’incompiuto che lascia roca la voce e placa ogni desiderio.

Lascio alle altre l’odore polveroso di una stanza d’albergo, il piacere di sentirsi graffiare da una fratta di spine. Nel mio sogno c’è posto soltanto per una donna che sente a distanza l’odore del sesso, l’odore di maschio che gonfia i polmoni e fa colare una femmina.
Mi vedo immobile, aperta e bagnata come acquasantiera, dove chiunque possa intingere dita e sentire la consistenza del mio umore più denso. Appropriarsi dell’odore della grande madre terra che chiede in cambio d’essere il mondo o qualcosa di simile che valga la pena di vivere, come grondaia che scola e raccoglie, come tombino che succhia e rigurgita dopo una giornata ininterrotta di pioggia.

Mio caro, mi rendo conto quanto le mie parole possano essere vane, possano risultare insipide al cospetto di chi non ha mai creduto che l’amore fosse altro. Ma io sono ancora lì in attesa, dentro un vicolo cieco e cammino, lungo il bordo di una pallida luna, sotto una pioggia fitta di foglie che si posa leggera sul mio cappello, che all’imbrunire mi fa più bionda di qualsiasi tinta appena rifatta. Mi chiedo quanta femmina c’è sotto questi capelli e quanta ancora ne potrei ostentare al mondo, a questi uccelli notturni che mi girano attorno e mi fanno sentire più preda di qualsiasi insetto che li possa sfamare.

Tolgo il reggiseno e intravedo dentro una specchietto d’una macchina parcheggiata il mio profilo abbondante. Mi ricorda quello di mia sorella più grande, rigoglioso ed in attesa, seno di donna matura, seno di zitella. Davanti allo specchio aspettava due mani, le sole che mai vennero a toccarlo, mai a sentirne defluire il pulsare di una donna promessa, il calore intenso che a stento freddava, al cospetto del suo riflesso ubriaco d’amore, ubriaco di voglie rimasto a stagnare nel punto preciso dove erano nate, nella parte di femmina dove non arrivano mani, dove non arrivano sessi.

La spiavo nella sua stanza tra la luce del buio mentre testarda si procurava piacere, rubava minuti alla cena mentre la sua tetta schiacciata diventava doppia e più grande contro lo specchio. Ed era un fibrillar di dita, di respiri, di vetri appannati mentre io curiosa trattenevo in gola i miei fiati acerbi. La guardavo e rimanevo in attesa, come se da un momento all’altro dovesse scoppiare, urlare al mondo la gioia cercata solo dentro sé stessa. Mi pareva un rito, una liturgia per chieder perdono ad un cielo che io pregavo soltanto. Per anni l’ho pensata devota, ho creduto davvero che il suo seno fosse un mezzo per arrivare ad un Dio, la parte più tenera da sacrificare alla supplica. La vedevo invasata, in balia d’un movimento che non chiamavo piacere, d’un fascio di luna che si posava come maschio tra la schiena e le gambe. Posseduta si lasciava andare come se davvero il suo uomo fosse tornato a riempire il suo ventre, a spalancare quel mondo arido sino alle viscere.

Chiedeva amore scoprendo il suo seno, stringendolo a forza fino a procurarsi dolore. Lo stesso che ora sento, lo stesso che riesco a capire mentre in attesa mi faccio del male, violenza e perdono dentro un vicolo cieco a mostrare le mie parti di femmina, una qualunque che mi faccia sentire regina ed attiri uno sguardo che incredulo ringrazi il destino, per essere passato per caso proprio ora dove una donna sta cercando invano di dare un nome all’amore.


 
     CONTINUA...     


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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti è puramente casuale..
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