Quest’uomo mi guarda, mi fissa come se il trucco fosse colato tra le rughe
della mia insicurezza, come se sulle mie labbra fosse rimasto appeso il
sapore d’appena mangiato. Mi guardo nel fondo nero del finestrino con la
mia faccia che rimbalza tra i pali della luce e corre sul profilo gassoso
del neon delle insegne.
Mi guardo e mi chiedo che ci faccio dentro
questo tragitto che mi porta lontano dai Bagni Giuditta, dentro questo
fiato di uomo che s’addensa e rimane sospeso come se io fossi la puttana,
come se lui fosse il cliente. Ma io ho smesso! Anzi vorrei che in questo
momento mi trattasse come una donna qualunque, magari da farle la corte,
visto che non sa nulla di me, non sa che ai Bagni Giuditta la sera non si
balla soltanto, ma si tira fino a che la luce del giorno ti faccia
apparire come quei sogni che non finisco all’alba.
Lui non sa che
per caso è sbattuto contro il mio destino bevendo una scusa qualunque come
io bevo tequila, senza domandarsi che ci facevo di notte su quel lungomare
dove pullulano libellule e sanno d’amore, perché a quell’ora non è
possibile pensare che vestita in quel modo faccio solo corredo alla luna o
che so io aspetto un’amica per non essere sola. Hanno labbra carnose che
danno per poco, pance grosse che sanno di fame nel mondo sopra gambe nere
e smarrite che arrancano su zatteroni come gli zoccoli dei cammelli in
pieno deserto.
Lui mi guarda come se non avesse mai visto niente di
simile, come se davvero i miei stivali fossero screpolati dai tanti
tombini dove vanno a finire i miei tacchi, dove ristagnano i miei tanti
propositi che muoiono a sera quando esco di casa.
Non è di queste
parti, ha un accento toscano che mi ricorda un film visto da poco e non
immagina che una ventenne possa fare la vita e portare questi stivali,
così lucidi per le tante lingue che l’hanno leccati, così alti da sentirmi
la luna in mezzo i capelli.
Stanco e con gli occhi assonnati m’ha
chiesto soltanto dove poteva trovare un letto e una doccia, ed io l’ho
spedito nell’unico albergo proprio davanti ai Bagni Giuditta dove conosco
a memoria ogni cigolio di letto. L’ho accompagnato sicura che dopo il mio
nome mi chiedesse se in quel buco di notte avessi ancora qualcosa da fare,
se ero disposta a rendere meno anonimo il profumo di due lenzuola
d’albergo.
Invece m’ha chiesto soltanto se in qualche posto lontano ci
fosse ancora qualcosa d’aperto, se avessi gradito cenare dove l’aria si fa
più leggera, dove il sapore del mare lascia il posto all’inverno
improvviso ed il pesce ad un maiale che fa fumo e nonostante l’odore ti
lasci scaldare.
Per caso a suo dire s’era distratto appresso ai miei
stivali, come se d’incanto la sera non fosse finita, come se le mie gambe
scoperte avessero ancora un senso a quell’ora di notte. Vorrei dirgli che
m’ha notata soltanto perché mi distinguevo in mezzo alle altre, solo
perché la mia pelle di bianca sbatteva al chiarore d’una luna rossastra.
Ed ora che ci faccio davanti a quest’uomo, se davvero stasera avevo
deciso di tornarmene a casa e sentire cosa si prova ad andare a dormire da
sola, senza che un uomo t’aspetti nel letto o t’aiuti a spogliarti perché
vuole fare più in fretta.
Che ci faccio con questa gonna che sale fino
al bordo più scuro del mio imbarazzo. Che ci faccio davanti a questa
faccia che mi guarda soltanto negli occhi, che mi cerca un passato come se
avessi trent’anni.
Vuole sapere di me, come se i miei ricordi fossero
più importanti delle mie notti d’adesso, che cerchiano di viola i miei
occhi come ombretti scontati su un banco di magazzino. Sicura che a breve
mi domanderà cosa ci trovo a far tardi fino a mattina, senza sapere che
quelle ore s’infilano dentro la mia insofferenza, come se quello che
faccio potesse in qualche modo guarirmi dalla noia d’essere una qualunque.
Hai voglia a dirgli che non faccio sconti a nessuno, che non sono i soldi
quello che aspetto, non sono gioielli tempestati di lusso, perché nella
mia anima non ci sono buchi per appendere orecchini, non ci sono anulari
da offrire.
Hai voglia a dirgli che il mio orgoglio finisce quando le
sue palpebre s’abbassano, quando il suo sesso comincia a pensare quello
che l’aspetta domani. Perché dopo l’alba c’è una luce che m’appiattisce le
forme, che mi toglie misure al mio seno perfetto, perché dopo l’alba non
servono fiori, non serve sentirsi una rosa tra i crisantemi.
Mi
parla come se i miei stivali fosse opachi, come se fossi uscita stamattina
da un ospedale ed avessi bisogno di cure. Mi parla convinto di potermi
scalfire almeno i ricordi perché il presente sono queste labbra che stampo
sopra un tovagliolo, che passo e ripasso perché siano pronte ad ogni
evenienza, come pomelli lucidi d’una locanda di passaggio pronta ad
accogliere qualsiasi ospite.
Se avessi previsto questa serata diversa,
forse mi sarei vestita più sobria, avrei messo dei fiori sui miei capelli
raccolti, avrei indossato un paio di scarpe con la punta rotonda. Ma poi
m’accorgo che non ne possiedo, che il meglio che offro sono questi
stivali, queste gonne che quando mi siedo mi mostrano per quella che sono.
Come posso dire a quest’uomo che non mi ci sento, che la mia anima non
porta stivali, non fuma e non porta merletti che ora, se solo mi scoprisse
la gonna, cambierebbero tono ai suoi discorsi di padre.
Come posso
dirgli che non deve redimere un bel nulla se è questo il motivo perché
m’ha portata qui sopra, dentro questo ristorante dove mi sento in
trasferta e le mie gambe non danno l’effetto come sul lungomare davanti ai
Bagni Giuditta. Ma poi non parlo e penso che abbia ragione che davvero mi
sento fuori luogo se lui non recita la parte del cliente ed io l’unica che
mi riesce e conosco a memoria.
Davvero ora vorrei essere soltanto
una donna, o magari una sua allieva visto che conosco il latino e lui ha
la faccia e la barba di un professore di lettere. Perché stasera vorrei
aver smesso, vorrei che lui m’aiutasse, magari portandomi a letto
comunque, senza per questo farmi sentire puttana e lui cliente.
Lo
guardo e penso che avrà gli anni di mio padre, che per mia madre potrebbe
essere l’uomo ideale e che mai avrei immaginato stasera d’essere seduta a
parlare senza che il fine sia una stanza da letto, siano queste tette che
ora vorrei per magia farle sparire. Ma poi penso quanto starei a mio agio
se mi chiedesse soltanto di ciucciarle o allungasse una mano e mi
stringesse i capezzoli.
Mi guarda di nuovo, ma senza che il minimo
dubbio gli possa illuminare i pensieri, mi prende la mano, ma è una mano
da prete, da anziano come se volesse andare oltre la pelle dalle parti del
cuore. Mi parla come se già mi conoscesse e poi domanda, riflette, ascolta
i miei mugugni e fa una faccia come se avesse capito. Ma cosa gli importa
se faccio la troia e quanti uomini ho ospitato in questi ultimi due anni?
Cambia discorso e ricomincia ad interrogarmi come se davvero fossi una sua
allieva. M’accarezza la faccia come se stessi per piangere, ma di cosa
dovrei sentire la colpa? E cosa dovrei mai confessargli se basterebbe solo
guardarmi e mettere in fila ogni giudizio.
Mi sento confusa, vorrei
dirgli che se vuole potrei semplicemente allargare le cosce, senza passare
attraverso una sfilza di insufficienze ed impreparati, per poi sentirmi in
difetto come di notte ai Bagni Giuditta quando ingoio la sabbia e respiro
boccate di sale.
Perché si vede a vista che le mie labbra non sono
fatte per parlare, non sono fatte per fare discorsi d’un certo interesse,
per ammorbidire i ricordi e farli diventare racconti. Vorrei dirgli di
farla finita con questi occhi che penetrano, con queste mani che scavano e
già sanno che dalle parti del cuore troveranno un sogno indifeso, misto al
bisogno di non farmi fregare anche se è l’unica regola che ogni sera
rispetto.
Mi parla di anni passati, di latino che è tutto il suo
mondo, mi chiama Angelo cose se fossi un maschietto o solo per fugare
qualsiasi dubbio di questa mano che cerca il contatto. Chissà se mia madre
ha mai avuto vent’anni quando le crescevano i capelli soltanto castani,
chissà mai se si è ritrovata con un uomo che non le guardava le gambe, ma
che faceva domande come chi scava in un giardino di casa, perché il fine
magari è piantarci dei fiori o solo bulbi d’inverno che il cuore protegge.
In sincerità ma io cosa potrei dirgli? Come potrei descrivergli quello che
provo, come potrei risalire al giorno quando ho cominciato? Che ne so io
cosa ho pensato quella sera che neanche ricordo, che ora nobilito
convincendomi che volevo soltanto tenermi distante dalla demenza di cui
sono affetti i miei coetanei. A pensarci bene loro non credono d’essere
malati come io, del resto, mi sento sana e perfetta facendo solo
attenzione ai rischi che il mestiere m’impone. Provo a parlare, ma mi
sembra tutto così stupido e banale, ogni mia parola sembra una
giustificazione, ogni mio respiro un chiedere perdono, ogni mio seno un
imbarazzo. Eppure se rimango qui ad ascoltarlo e non scappo vorrà pur dire
qualcosa, lui finora non ha per nulla sfiorato il discorso e ne avrebbe
avuto il diritto perché in fin dei conti m’ha incontrata su quel lungomare
dove non stavo mangiando un gelato o sottobraccio portavo libri di scuola.
Ma poi a quell’ora chi potrei prendere in giro? Come faccio a fargli
credere che ho smesso, che se mi proponesse di fare un viaggio dall’altra
parte del mondo ci andrei senza passare per casa e prendere almeno un
cambio di mutande.
Mi guarda e m’accorgo che non sono passati
neanche dieci minuti da quando ci siamo seduti, che il cameriere non ha
ancora portato la lista dei vini. Forse è solo un tipo che vuole prenderla
alla larga, che si eccita pensando che sia una sua allieva, come un medico
si fa la assistente o un paziente la sua infermiera.
Tra meno di un
attimo mi sentirò davvero una mano che risale la calza e sbaraglia questi
pensieri di bimba che stasera hanno deciso d’affollarmi la mente. Forse
davvero si sta innamorando e come Luca mi crede vergine nel cuore e questo
gli basta. Ora gli trema la voce, gli suda la mano che ha smesso di
stringermi. S’avvicina e mi sfiora le labbra. Ma come è possibile che un
cliente baci la propria puttana? No, gli dico di fermarsi! Se non ha
ancora capito gli sputo in faccia il mio mestiere, gli sbatto sul naso i
miei stivali, perché è l’unico posto dove accetto dei baci, dove ogni sera
scorrono lingue e mi fanno più bella.
Lui non molla ed io mi sento
annegare in un brodo di giuggiole. Che ci faccio io con parole d’amore,
con un uomo davanti che si gonfia soltanto nel cuore, con una faccia che
s’arrossa e si sbianca al solo pensiero di dirmi ti amo. Lo scongiuro di
fermarsi in tempo, ma lui mi guarda negli occhi e mi spoglia più di quanto
sarei disposta fuori da questo locale. Vorrei chiedergli cosa ci vede
d’interessante, cosa mai potrei offrirgli di meglio oltre a questo mio
seno a portata di mano. Se mi vedesse Fanny! Mi direbbe che ho perso la
testa, mi direbbe che basta una miccia per farmi diventare una bomba, che
mi squaglio come neve d’inverno al primo raggio di sole.
Sono
confusa, mi alzo ed esco.
Fuori c’è un vento che m’imbarazza la gonna,
c’è una notte di pesto che m’assomiglia e m’accoglie come se fosse il
posto più comodo dove stare da sola. Aspiro boccate di fumo ed aspetto la
prima macchina che mi riporti sul lungomare. Perché questa notte è una
notte qualunque, una di quelle dove ai Bagni Giuditta si balla e si fa
karaoke, dove s’aspetta l’alba e si beve Tequila, senza che nessuno
affoghi nei miei occhi e trascuri i miei stivali, o mi faccia sentire
fuori posto soltanto per dirmi parole d’amore.
CONTINUA...
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