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Adamo Bencivenga
Il piccolo cuore di Giada, il grande cuore
di Dominique
PHOTO GAVIN PREST
Probabilmente uscii che era ancora giorno, lasciando quella casa in un
velo di penombra, probabilmente era inverno e faceva molto freddo, di
certo un cielo nero minacciava a temporale. Pensai all’amarezza, a come
fosse triste, uscire da quella porta senza neanche un saluto, e pensai
all’incertezza, a come fosse così vago, l’andare via senza più meta, a
quel giorno di settembre, ed affidarsi ad un destino, conoscendo già
l’epilogo, o quanto meno qualche indizio oppure una traccia, un abbozzo di
pretesto per fare un’altra faccia, nell’attimo preciso che chiusi quella
porta, e un probabilmente uscii sospirando dalla bocca.
Probabilmente scesi in strada col mio impermeabile sporco, erano circa le
sette e mezza della sera e mi mischiai al traffico di quell’ora di punta.
Spostai lo sguardo per vedere altrove cercando un modo per dimenticare
tutto e vidi una signora a spasso col suo cane e vidi un addetto ad una
pompa di benzina. Probabilmente errai tra i locali lungo il fiume, nei
battelli dove a sera, qualcuno canta l’uomo in frac: “Bonne nuit, bonne
nuit, buonanotte, va dicendo ad ogni cosa, ai fanali illuminati, ad un
gatto innamorato, che randagio se ne va...”
Probabilmente aprii
l’ombrello, ma non ce ne fu bisogno, pensai a cosa fare, ma non mi venne
in mente altro. Allora camminai dove i tigli fanno i fiori, dove sbocciano
gli amori, poi sotto i portici lungo le vetrine, mi fermai a guardare un
paio di mutande, già di pizzo nero, esposte in bella mostra. Fu lì che
ripensai a Giada ed a quanto le sarebbero piaciute e quanto a me prima
dell’amore, ma ormai era sera di un giorno non più anonimo, e tutto questo
non aveva altro senso.
Probabilmente entrai in un bar vicino alla
stazione, mescolai la vodka con una spremuta di limone e i miei pensieri
su ciò che avevo fatto, poi guardai la mia faccia dentro lo specchio
sporco, tra un Bianco Sarti e un Rosso Antico, al ritmo di una radio che
mandava jazz americano. Fu in quell’istante che mi voltai, credendo di
sentire la voce di Giada, ma non era Giada e non era neanche bella, allora
mi giocai i ricordi guardando le forme lisce del vestito fucsia di una
bionda di mestiere, seduta nell’attesa, nell’ombra di una storia,
illuminata ad intermittenza da un’insegna viola. Chiesi il permesso e mi
misi seduto, accanto all’ombrello lasciato a sgocciolare. Probabilmente
parlai, sicuramente lei sorrise, non sapendo cosa altro fare ed io ammirai
le sue tette al prezzo di una birra, apprezzai il culo senza sovrapprezzo,
mentre la pioggia fitta sbatteva contro i vetri, ingannai il mio dolore
con un Tavernello Rosso. Probabilmente le chiesi il nome e lei rispose
Dominique, poi aggiunse che un nome vale un altro, se non si deve
ricordare.
Probabilmente mi piacque, non lei, ma l’idea di passare
la mia ultima notte tra le braccia di una sconosciuta e cercare un
improbabile consenso per ciò che avevo fatto, per ciò che non avrei mai
detto. Uscimmo dal bar e ci infilammo in una pensione lì di fronte. Lei
prese la chiave sotto lo zerbino e salimmo al terzo piano. Cinquanta euro
tutto compreso, anche le tette della bionda fucsia, grandi come chiese
quando ti vuoi confessare. Tutto compreso come i graffiti d’uccelli sulle
pareti scrostate, come l’odore di muffa che correva lungo il muro, lungo
la crepa che moriva al soffitto. Tutto compreso con la puttana nel letto
che mi domandava se ci fosse altro da fare, allargare le cosce o
spalancare qualcos’altro, o rimanere in silenzio accanto nel letto. Perché
lei aveva capito. O forse non c’era nulla da capire quando, accarezzando
la mia tristezza, vide il sangue sul mio impermeabile appoggiato alla
spalliera del letto. Fu a quel punto che spalancò le sue cosce, burrose
come miele che cola dal cucchiaio, fu a quel punto che mi invitò ed io
accettai perché non avevo nulla da fare, nessuno a casa che mi avrebbe
aspettato o si fosse preoccupato per il mio ritardo.
Non so cosa
dissi durante l’amore, ma durò molto perché sapevo che sarebbe stato
l’ultimo. La sua bocca era molto esperta e mi disse che ero stato il primo
quella sera, ne fui felice, ma sinceramente non ne capii la ragione. Alla
fine lei mi chiese: “Perché?” Già perché? Quasi lo avevo dimenticato.
Ammansii i suoi indugi raddoppiandole il prezzo, ma lei insistette, prese
i suoi vestiti e fece per andare, ma rimase lì. No no non aveva paura, ma
era solo curiosa di sapere con chi aveva fatto l’amore poco prima e restò
in silenzio ad ascoltare il mio dolore. Certo sì una donna, perché non si
soffre mai per altro. Certo sì un tradimento perché c’era troppo sangue
dentro quella casa.
E allora raccontai, ma la presi alla larga
sperando che lei capisse, ma in realtà non temevo il suo giudizio, ma solo
che potesse uscire prima che io finissi di parlare. E allora parlai del
mio quartiere, non di quelli malfamati, ma comunque senza pretese, abitato
per lo più da gente che si alza a buonora. E poi le descrissi l’odore
della rampa delle scale, l’ascensore sempre guasto, il cane del portiere.
Erano circa le sette e venti. “Mai uscire un’ora prima dal lavoro senza
avvertire” mi diceva spesso mia madre e per fortuna che mio padre lavorava
su una piattaforma in mezzo al mare, pensavo ogni volta, e lì non era
possibile uscire prima!
Arrivai al piano, avevo il fiatone, infilai
la chiave nella toppa. Percorsi il corridoio, poggiai le chiavi sulla
mensola di marmo. Chiamai Giada, ma non ebbi risposta quando mi accorsi
che la porta della stanza da letto era socchiusa. Fu quello il momento che
sentii chiaramente dei gemiti. Erano semplici, infantili e puliti come se
davvero provenissero da un amore onesto. Ed invece non lo era affatto,
perché lei era distesa sul nostro letto, ma non era sola. Con lei un
ragazzo giovane, biondo, sicuramente capace più di me di soddisfare una
donna. Chissà perché cercai di scoprire chi fosse, come se un viso anonimo
avrebbe alleviato il mio dolore, ma era di spalle e non capii se fosse il
garzone del macellaio, un collega o l’impiegato delle Poste.
La
stanza era in penombra, lui le tirava i capelli, la chiamava amore ed
altro. Oh sì anche altro, quell’altro che a me non era mai stato concesso!
Le stringeva il collo da impedirle il respiro, le tappava la bocca per non
farla urlare, le strizzava i seni per un piacere che io non conoscevo, ma
lei non si ribellava, anzi con la voce strozzata lo supplicava di
continuare. Dentro quel letto di lenzuola pulite, quei due corpi si
fondevano, bollenti come lava, colanti come cera, come se le loro anime si
scambiassero di posto o ne occupassero uno a malapena. Lui nudo su di lei,
lei nuda sotto di lui. Era bella Giada, anche in quella posizione era
bella. Quasi invidiai quell’uomo, quasi lo incitai a darle più piacere.
Lei con le natiche già pronte, lui eretto e maschio, capace di soddisfare
un intero bordello. Per un attimo mi parve di incrociare lo sguardo di
Giada, ma non mi vennero parole, né cagna e né puttana, solo un denso
sguardo penoso di disprezzo.
Dietro quello stipite aspettai per
vedere fin dove avrei sopportato quel dolore, ma durò poco, troppo poco
per sentire le urla del piacere, perché quei gemiti divennero delle
sirene, come di Polizia, come di emergenza, e allora presi la mia pistola
di ordinanza. Ah già sì non ve l’ho detto, sì sono un carabiniere, fedele
all’Arma ed a mia moglie, ma a questo punto credo che non ne sia valsa la
pena. Con l’impermeabile ancora indosso entrai nella stanza, lui sopra di
lei non si accorse di nulla, e comunque non ebbe la prontezza di fuggire,
rimase lì dentro di lei, nel suo culo ad anfora romana, tra le cosce di
una moglie non sua, tra quella seta infiocchettata, tra quel velluto di
pelle color pesca.
Eh già, lui rimase immobile, come un bersaglio
fisso al poligono di tiro. Lei vide la pistola puntata e cacciò un urlo,
era terrorizzata, ma dalla sua bocca uscì ben poca cosa, l’urlo rimase
strozzato in gola, come il piacere rappreso del suo sesso. Furono attimi
come lame di un coltello, gelidi come una canna di pistola prima dello
sparo, ghiacciati come il cuore dopo un tradimento. Furono attimi lunghi e
corti, pieni e vuoti, ma un carabiniere sa sempre quello che deve fare ed
io lo feci, come un dovere, una fede, come fossi in servizio…
professionalmente… obbedii ad un ordine, come se fosse un ladro, uno
spacciatore o semplicemente un traditore. Uno sparo e via senza pensarci
troppo. Uno sparo secco, netto, preciso, uno sparo unico che trafisse lui
alla schiena e poi uscendo arrestò la sua corsa nel piccolo cuore di
Giada.
Probabilmente non pensai a nulla, perché non c’era nulla da
pensare, forse riflettei solo sul fatto che quei due amanti erano morti
insieme e quindi in qualche modo avevo suggellato per sempre il loro
amore. Rimisi la pistola in tasca e me ne andai lasciando quei due corpi
lì, abbracciati, colpiti dalla stessa pallottola. Poi scesi in strada col
mio impermeabile sporco, erano circa le sette e mezza della sera e mi
mischiai al traffico di quell’ora di punta. Già c’erano voluti solo dieci
minuti per avere la consapevolezza di essere cornuto e poi un misero
assassino.
La puttana mi ascoltò senza dire una parola, seduta per
tutto il tempo al bordo di quel letto, si accese una sigaretta, diede due
sorsi a una bottiglietta di vodka che teneva nella borsetta. Guardò fuori
la finestra come per pensare, come per prender tempo su quello che avrebbe
dovuto fare, ma non commentò, mi chiamò Tesoro e mi asciugò il sudore
sulla fronte. In fin dei conti aveva fatto l’amore, sì ok con un
assassino, ma l’amore cancella tutto anche le macchie di sangue sopra un
impermeabile. Mi baciò, ma era un bacio diverso, sapeva di buono, quasi
s’affetto e per nulla di mestiere. Poi facemmo di nuovo l’amore ed io
nascosi il mio viso tra le sue tette morbide, sapevano di madre, odoravano
di culla. Sentii il suo grande cuore battere quando esplose in un infinito
orgasmo, questa volta vero, ed io la strinsi forte a me e le dissi di
chiamare la Polizia.
Lei mi sorrise e non perse tempo, andò in
bagno, tornò con l’impermeabile pulito e mi disse: “Quello che è successo
a casa tua non puoi saperlo, forse una rapina o forse sì una vendetta, ma
tu eri qui con me e nessuno mai potrà incolparti di nulla.”
Fuori
albeggiava ed aveva smesso di piovere.
FINE |
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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