HOME   CERCA NEL SITO   CONTATTI   COOKIE POLICY
 
 
RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Letto d'ospedale
Mi chiedi perché? Se sarebbe comunque successo? Me lo chiedi da anni come se ne conoscessi il motivo, come se non mi fossi dannata l’anima tutta






Photo Erve Miozzo
 




Mi chiedi perché? Se sarebbe comunque successo? Me lo chiedi da anni come se ne conoscessi il motivo, come se in tutto questo tempo non mi fossi dannata l’anima tutta, a scovarmi la ragione come adesso dentro questo silenzio, a raccontarti per filo e per segno quanto è successo.
Fabio, se non fosse successo quello che è successo, non te ne saresti mai accorto, te lo dico perché ne sono convinta che non avresti mai sospettato, che quegli occhi quella notte m’hanno fatta più bella, quelle mani più adulta, quei baci più forte del dolore che stavo vivendo, fino a ripararmi dal destino violento che si stava abbattendo sulla mia vita.

Quella notte lui era accorso immediatamente. Fuori pioveva e tu non davi notizie, il telefono spento, la grandine, il vento, l’angoscia che ti fosse successo qualcosa. Allora l’ho chiamato, l’ho chiamato perché era il tuo amico del cuore. Lui si è precipitato e ancora in ingresso tormentava le chiavi e mi ripeteva di non preoccuparmi, m’accarezzava i capelli, mi stringeva, ma eri soltanto tu ad unirci, la pena e l’angoscia senza notizie. E nulla sarebbe accaduto, nulla m’avrebbe convinta se quella telefonata, quello squillo violento non fosse rimbalzato tra i muri di casa nel pieno della notte.

Una macchina t’aveva preso in pieno, chissà quante volte avevi attraversato quella strada, tante quante tornando a casa m’avevi abbracciato chiamandomi amore. Tutto in un colpo s’era spezzato! Eri in fin di vita, Ospedale San Giacomo Pronto Soccorso con la minaccia meno tragica di perdere l’uso delle gambe.

Ci ha accolto un infermiere senza darci speranze, eri sotto i ferri, intervento d’urgenza, e questa era l’unica cosa certa tra il cielo e la terra. Se avessi potuto mi sarei aggrappata al tuo corpo come zavorra, lottando contro uno stupido angelo che t’allontanava da me, se avessi potuto, ma non potevo.
Quello che ho potuto l’ho fatto, abbandonarmi tra le sue braccia, tra le mani grandi di tennista e d’amante che ancora non conoscevo. Avevo il paltò grigio quello con gli alamari, lui m’ha stretta come si stringe un fagotto ed io ho avvertito tutta la mia, la tua debolezza. Il rumore delle ossa del collo e della schiena, gli ossicini della faccia attaccati con lo sputo.
Ero persa Fabio!
Lui piangeva come se tutto oramai fosse ineluttabile, come se nemmeno la speranza potesse darci conforto. Eravamo nel corridoio dell’ospedale e d’incanto davanti a noi si aprì una stanza, un letto d’ospedale, vuoto per comprenderci, intimo per scaricare la nostra tristezza. Ti ripeto Fabio c’eri solo tu tra noi. Tu eri il collante, tu eri la pena. Tu eri il suo amico, io la tua compagna. Ci mancavi e mi mancavi. Stavi distruggendo l’ultimo pezzo d’ottimismo che la mia natura a fatica cercava di conservare.

Ora sei davanti a me e ancora mi chiedi il motivo nonostante siano passati anni. Ti prego smettila! Dovrei essere io a chiederti perché! Perché hai attraversato quella strada, perché proprio lì, perché proprio in quel momento?

Passavano ore ed infermieri, passavano barelle senza avere uno straccio di notizie, dottori che allargavano le braccia, flebo e siringhe senza pazienti. Sentivo il bisogno di riempire quel vuoto che mi stavi trasmettendo, mi stavi lasciando, sentivo il peso di tutto quello che avrei dovuto fare, chiedendomi come avrei affrontato ogni dettaglio, quale forza interiore m’avrebbe aiutato.
Sono uscita da quella stanza non so per quante volte a chiedere notizie, avrei voluto che finisse lì con la felicità d’averti ritrovato, ma ogni volta rientravo nella stanza muta, senza un sorriso. Sfinita m’adagiavo sul letto. Lui seduto sul bordo, immobile per ore, guardava fisso un veliero attorno ad una cornice di plastica chiara.

Mi prendeva la mano, la stringeva forte, la baciava, ed io sentivo il suo respiro caldo e m’era di sollievo, come se quell’alito mi riscaldasse l’anima dentro e colorasse tutt’intorno quella stanza bianca e grigia. Le sue dita erano l’unica forma di vita che avvertivo in quel momento, perché io ero morta Fabio, ti giuro, morta nei polmoni e nel fegato con la testa in agonia, ancora in vita per provare dolore.
Mi baciava i capelli, m’accarezza le braccia finché il dorso della sua mano ha sfiorato il mio seno ed io nell’angoscia dei pensieri ho avvertito un sollievo distante. Sono stata io ad alzare la maglietta senza che lui me lo chiedesse. Non sono andata oltre chissà perché, come se il reggiseno fosse l’ultimo baluardo di coscienza e potesse farmi tornare indietro in qualsiasi momento, potesse farmi recedere dal desiderio d’avere in quel momento un conforto tra i seni.

Siamo rimasti per un tempo interminabile nella stessa posizione con la sua testa appoggiata sul mio petto. Era immobile e fisso, come un medico che ascolta i battiti del cuore, come un gatto che ti guarda per ore. Finché da lontano ho avvertito la sua lingua umida insinuarsi tra i miei merletti, e poi la sua mano che sganciava il gancetto del reggiseno e l’altra che risaliva le mie gambe sotto la gonna del mio tailleur grigio fumo.
Se mi chiedi ancora il motivo d’impatto potrei dirti che desideravo ingannare la violenza dell’attesa, che non significa nulla se ora non riesci a comprendere quanto t’amo, quanto t’amavo, se ora non comprendi quanto lungo può essere un minuto dentro una camera d’ospedale, che non significa nulla lo stesso se fuori dal contesto pensi che in fin dei conti ho aperto solo due cosce e magari anch’io lo penso se ora sono qui a confessarti quello che mai era uscito dalla mia bocca.

Abbiamo fatto l’amore, Fabio! Io con l’amico del cuore e lui con sua moglie. Perché tra noi in quel momento non c’era altro, né passione e né sentimento. Forse la paura di pensarti già morto, forse la contentezza di saperti, nonostante tutto, ancora vivo o forse quel chiarore che allontanava la notte e le tante paure appese come pipistrelli al soffitto. Ti prego non mi far continuare, non farmi cercare per forza una ragione, mi ricordo solo che è bastato quel niente, quello sfiorarsi di mani, un sorriso forzato a pochi centimetri dalle nostre bocche a breve infedeli.
Se ora ti dicessi che sentivo il tuo calore, la tua vita che non volevo che si spegnesse, sono sicura che non mi crederesti. Se ti dicessi che t’amavo tanto e t’ho tradito per questo, che sentivo il tuo amore proprio nel mentre mi pigiava sul ventre, proprio nel mentre avvertivo una vampata di caldo salirmi da dentro.

Ho chiuso gli occhi ormai convinta che avrei accettato tutto quello che sarebbe accaduto. Non c’era differenza, mi baciava come tu avresti fatto, mi scavava come se il mio sesso fosse stato solo la porta d’entrata ed in fondo in fondo ci fosse stata la mia angoscia che a tutti i costi dovevo fargli raggiungere.
Ti giuro io non t’ho tradito! Come faccio a farti capire che stava alleviando il mio dolore, la paura d’averti perso per sempre? Premeva e spingeva sussurrandomi parole di conforto, spingeva e premeva dicendomi che sarei stata meglio, che il piacere m’avrebbe distratta, m’avrebbe fatta capace d’affrontare ogni evenienza. Pigiava ed affondava ogni oltre piacere, bagnandomi i capelli, turandomi la bocca perché da lì a poco sapeva che avrei gridato, urlato tutta la mia infelicità.

Per questo non t’ho tradito, per il semplice motivo che la mia carne neanche se ne è accorta, perché lo sentivo esattamente sbattere contro il mio dispiacere, scoparmi l’attesa di quei momenti, scaricarmi il peso di non pensare all’alba che già invadeva la stanza.
Aggrappata alla maniglia della finestra facevo forza per resistere ai suoi colpi, indurivo i muscoli, respiravo a bocca aperta per rilasciarli. Pregavo dentro me che non trovasse resistenza, che riuscisse ad oltrepassare qualsiasi impedimento, per ritrovarlo nel posto dove si confonde il dolore alla speranza, l’incoscienza a quel pensiero fisso sotto i ferri.
Gli chiedevo di non fermarsi, di non finire nel momento quando vigile pensavo al peggio, quando ti vedevo già spacciato e me spacciata. Desideravo solo che lì a breve fosse entrata un’infermiera, che m’avesse visto in quelle condizioni, nuda e infedele! Non m’importava Fabio! Avrei solo voluto la buona notizia, che tu ce l’avessi fatta o che almeno potessi continuare a sperare. Ma nulla, lo pregavo di resistere, di continuare, di non avere accortezze perché quello non era amore, ma una sopportabile distruzione per sentirci più vicino nella pena che stavamo vivendo.

E sono stati ancora colpi sul muro, pianti d’angoscia, urla e lamenti. Non mi vergogno Fabio a dirti che ho provato piacere, per un attimo, un istante è stato come davanti ad un’ampia vetrata in una villa in montagna. È stato sesso d’amante che all’alba ti lascia la sola voglia di ricominciare. Non mi vergogno Fabio, ma gli ho urlato tutta la mia rabbia, e quanto ho urlato, di cercarmi, nei meandri dell’egoismo, l’incoscienza di saperti distante, di non averti mai conosciuto e nonostante tutto di sapermi ancora tua, tra le braccia di un altro, unico uomo che mi sbriciolava le ossa e mi penetrava il cuore. Ho pensato che se fossi morto non mi sarei ritrovata da sola! Oddio sì che l’ho pensato!

Pigiava e spingeva le nostre liti ormai senza senso, il nostro cane che a quell’ora stava grattando la porta, le nostre sfide a guardarci per ore negli occhi e constatare immancabilmente che sarei stata la prima a battere le palpebre o a sorriderti con tutta la tenerezza che mi saliva da dentro. Mi pigiava e scavava i nostri momenti dove c’era sesso e c’era cuore, dove non sarebbero mai bastate le parole per gridarti tutta la felicità che sentivo e sentivi. Mi sbatteva e mi premeva duro e padrone, ora come allora, dentro quell’infinita ossessione di rimanere scompagnata da lì a breve per ogni altro momento. Tu m’avevi preso giovane ed io non ero mai cresciuta, non avevo mai fatto nulla senza il tuo assenso, mai due passi che tu non sapessi e men che meno l’amore, e in quel momento ero lì con la morte nel cuore a farmi fottere la vita come la tua dall’altra parte del muro che testardo non facevi altro che negarla.

Fabio io ero certa che il mio domani non sarebbe stato il tuo, che il mio domani era questo ventre che offrivo e mi veniva offerto contro ogni logica di vita, contro ogni lutto stretto nell’anima, contro ogni morale che m’avrebbe voluta a piangerti come stavo facendo, distrutta come lo ero, ma non sopra quel letto d’ospedale a chiedere amore, ma non fino al punto dove mi ero ridotta.
Fabio, ho voluto solo allungarti la vita, scolpirmi nelle fibre dell’anima un tradimento, un senso di colpa che già pensavo come giustificarlo, perché eri tu, lì vivo, a chiedermene ragione giorno per giorno in tutti questi anni.

Ti prego, io non so fino a che punto tu possa compatirmi, ma ti giuro io tornerò da te portandoti queste rose gialle che tu amavi tanto, tornerò ogni giorno finché avrò ed avrai la certezza che quello che ho fatto era solo per amore, e che i tuoi occhi, che ora guardo fissa nella foto, m’abbiano finalmente perdonata.





FINE

 

 



























 










Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


© All rights reserved
TUTTI I RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA


© Adamo Bencivenga - Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma,
senza il consenso dell'autore




 







 
Tutte le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi autori. Qualora l'autore ritenesse improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione verrà ritirata immediatamente. (All images and materials are copyright protected  and are the property of their respective authors.and are the property of their respective authors. If the author deems improper use, they will be deleted from our site upon notification.) Scrivi a liberaeva@libero.it

 COOKIE POLICY



TORNA SU (TOP)


LiberaEva Magazine Tutti i diritti Riservati
  Contatti