L’estate mostrava la sua coda, a sud qualche temporale mentre da noi si
era alzato un fastidioso vento, ma il cielo continuava ad essere sereno e
il clima caldo. Caroline era ancora in vacanza, il bel René era partito,
destinazione Los Angeles, per andare a trovare un suo cugino virologo in
California. Dopo qualche giorno di riassestamento mi sentii di nuovo
tremendamente sola e una mattina senza pensarci due volte preparai il mio
zaino e decisi di prendere il treno per tornare da mio padre a Mont Saint
Michel. Lui fu molto contento di vedermi ed io di farmi qualche altro
giorno di mare prima di riprendere gli studi.
In realtà senza
ammetterlo con me stessa, l’idea di tornare in quel luogo aveva preso
forma ripensando a quella volta nello spogliatoio dello stabilimento
quando avevo trattato in malo modo Antoine, l’amico di mio padre, che col
suo modo del tutto goffo aveva tentato di stringermi a sé. Ovviamente non
avevo riferito l’accaduto a nessuno e tanto meno a mio padre. Del resto
quell’approccio era durato solo qualche secondo, ma più volte mi ci ero
soffermata chiedendomi se mi avesse baciata o cosa di preciso avesse
toccato. Ricordavo quelle mani ruvide sui miei seni, ma nulla di più.
Quando arrivai mio padre stava grigliando un grosso pesce e Antoine
era seduto al tavolo di legno nella piccola veranda. Mio padre fu sorpreso
di vedermi mentre Antoine fece un’espressione tra il sorpreso e il
soddisfatto. Forse davvero in quel momento stava pensando che fossi
tornata per lui e questo mi dava un fastidio insopportabile. Durante il
pranzo lui mi riempì più volte il bicchiere di vino ed io questa volta
ebbi modo di guardarlo attentamente. Aveva il viso rugoso e cotto dal sole
da vecchio pescatore ed era decisamente molto più anziano di mio padre. In
un certo senso rimani delusa perché nei miei pensieri lo avevo immaginato
più giovane. Più volte in quei pensieri mi aveva toccato e nonostante
l’eccitazione più volte lo avevo respinto per il solo motivo che mai avrei
voluto che lui si accorgesse di quanto fosse in realtà facile godere delle
mie grazie.
Dopo pranzo andai in bagno e mi tolsi mutandine e
reggiseno rimanendo con la mia gonna di lino e la camicetta bianca. Poi
tornai in veranda, salutai i due che avevano già sparecchiato per godersi
la loro infinita partita a carte e me ne andai in spiaggia. Scelsi il
posto più solitario dietro ad una roccia, quello più isolato possibile per
non essere disturbata, anche se, su quella spiaggia, in verità i bagnanti
si potevano contare sulle dita di un’unica mano. Mi distesi sul piccolo
asciugamano, ma prima di spogliarmi, adoravo prendere il sole nuda, sentii
il vento caldo accarezzarmi il viso e il sole alto baciarmi le labbra.
Inevitabilmente ripensai alle mia avventura con Clothilde, ai suoi
baci di velluto. Non ero pentita affatto, anzi dentro di me era davvero
successo qualcosa di miracoloso, quell’esperienza mi aveva dato una
fiducia incredibile tanto che mi sembrava di essere cresciuta così in
fretta da vedere le cose in un’altra prospettiva, quasi più distaccata. In
poco tempo avevo imparato a fregarmene degli altri e tanto più dei loro
giudizi sulla mia facilità di accettare le loro avances. Insomma mi
sentivo grande e finalmente capace di affrontare il mondo da sola,
compresi i suoi risvolti oscuri e le sue perversioni, ora per me meno
ignote.
Mi addormentai.
Quando mi risvegliai, strizzai gli
occhi per allontanare il torpore, mi sentivo parecchio intontita e non
sapevo bene dove fossi o cosa stessi facendo in quel posto. Il mare si era
alzato e l’acqua lambiva i miei piedi, quel piccolo lembo di spiaggia era
deserto e il sole all’orizzonte era diventato una grossa palla di fuoco.
Decisi che potevano essere le cinque o giù di lì e che quindi ad occhio e
croce avevo dormito quasi due ore!
Avevo sicuramente sognato, ma non
sapevo bene cosa. Mi voltai più volte per cercare un segno di vita, ma
nulla, ero completamente sola. Sorrisi vedendomi ancora vestita con la mia
gonna bianca di lino leggero e la camicetta. Anche se la gonna era bagnata
e arrotolata fino ai fianchi e la camicia era completamente sbottonata e
copriva a malapena il mio seno.
Sperai con tutta me stessa che
nessuno fosse passato di lì mentre dormivo, ma non mi chiesi il motivo
perché fossi seminuda, anzi iniziai ad accarezzarmi il seno. Era davvero
piccolo, e ancora stupita mi chiesi di nuovo per quale motivo fosse
piaciuto così tanto all’amica di René e inevitabilmente ripensai a lui, al
suo sesso eretto e alla sua ostinazione di farmi raggiungere in fretta
l’orgasmo. Comunque non mi alzai, rimasi distesa e solo a quel punto
avvertii tra le mie gambe una strana sensazione ricordando il sogno…
Rabbrividii quando addormentata mi lasciai rotolare lungo la discesa
verso il mare. Forse sarai annegata se proprio sul bagnasciuga due braccia
robuste non mi avessero afferrato. Era un vecchio pescatore di circa
sessant’anni, avevo il viso cotto da sole solcato da grandi rughe
espressive. Mi disse nel sogno di chiamarsi Antoine ed io trovai naturale
sorridergli mentre lui mi prese di peso sollevandomi. Annusai quell’odore
di sale e mare sulla sua pelle quando lui slacciandomi la camicetta e
senza dire nulla iniziò a leccarmi il seno. Le sue carezze erano ruvide,
le sue mani callose e la sua pelle odorava di sudore dei grandi. Gli dissi
che lo stavo aspettando, anzi che avevo fatto diversi chilometri per
rivederlo. Lui mi rispose semplicemente: “Sapevo che saresti tornata.”
Mi baciò appena sulle labbra, ma non era la mia bocca che gli
interessava. “Pensa che sarei dovuto partire la settimana scorsa, ma poi
ho chiesto a tuo padre di ospitarmi ancora.” A quel punto dissi: “Anch’io
lo sapevo. Era solo questione di tempo.” E poi ancora: “Grazie per avermi
aspettata.”
Poi mi adagiò sul piccolo asciugamano e senza attendere
oltre mi divaricò le gambe. “Prendimi.” Gli sussurrai già in preda al
desiderio pensando dispiaciuta che per colpa mia non sarebbe mai stato il
mio primo uomo. Lui non perse tempo, si guardò intorno e constatò che non
ci fosse anima viva. C’era solo spiaggia, mare e una roccia che ci
separava dal mondo, dagli ombrelloni e dai gabbiani.
Disse: “Ti
conosco da qualche anno e ti ho sempre desiderata.” Ricordo che sottovoce
lo pregai di non dire nulla a mio padre. Lui sorrise. Poi mi accarezzò i
capelli e velocemente si accomodò tra le mie cosce. Non mi disse: “Ti
amo”, ma semplicemente: “Ora sei mia.” Sentii il suo peso sopra di me.
Sentii il suo impeto rude, il suo alito di aglio e di vino, ma non c’era
violenza in quell’atto, solo l’istinto di prendermi. Pensai chissà quante
volte lo aveva fatto nel sogno e quante si era masturbato pensando a
quello che ora era reale.
Per facilitargli il compito rimasi
silenziosa ed immobile finché i suoi sessant’anni, quaranta più dei miei,
mi penetrarono semplicemente. Non c’era trasgressione, non c’erano
perversioni mentali, una terrazza, dello champagne o le luci di Parigi, ma
solo la sua voglia di farsi una ragazzina, o forse la figlia del suo
migliore amico e dall’altra parte il mio pentimento di averlo rifiutato
per chissà quale recondita ipocrisia.
Allargai le mie gambe per
sentirlo fino in fondo, vidi una punta di dolore nei suoi occhi, il suo
sforzo per non deludermi e ben presto la stanchezza di quell’amore troppe
volte desiderato, ma allo stesso tempo troppo difficile per i suoi anni da
saziare completamente. Affondò di nuovo il suo corpo nel mio, sentivo il
suo cuore battere disordinatamente, il suo fiato grosso. In quei momenti
non pensai a me, ma solo al suo piacere. Ecco sì, quando si rese conto
guardandomi di essere all’ultima curva, lo incitai, anch’io stavo
arrivando, ma il mio ero un piacere diverso, quasi mentale. Mentre lui era
al culmine del suo affanno pensai alla nostra differenza di età e che
finora, nella mia poco esperienza, avevo fatto l’amore con una donna, con
un vecchio e un ragazzo che a chiare lettere mi aveva detto di non amarmi.
Allora mi divincolai per il troppo piacere, poi strinsi la sabbia nei
pugni e godetti urlando. Fu una sola volta, ma intensa. Ci baciammo, poi
il sonno quasi subito mi riavvolse.
Ecco sì ora ricordavo
chiaramente quel sogno. Mi alzai, controllai tra le mie gambe la presenza
del seme, ma ormai era passato troppo tempo. Presi i miei sandali e mi
incamminai a piedi scalzi, lentamente verso casa. Da lontano vidi le luci
a gas accese della veranda. Speravo che lui non fosse più lì, che fosse
partito, in fin dei conti aveva ottenuto quello che aveva sempre
desiderato. Mi fermai un attimo. No, no, la mia non era vergogna, o pudore
o che ne so imbarazzo, semplicemente speravo di non rivederlo mai più
perché era stata un’esperienza unica e soprattutto desideravo con tutta me
stessa rimanere nel mio dubbio se davvero l’avessi vissuta o fosse stato
solo un bellissimo sogno di fine agosto.
FINE
TUTTI I RACCONTI DI
VIOLETTE BERTIN