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La nostra missione
Stringevo il suo sesso caldo, ancora
umido per un orgasmo lungo quanto il nostro
tragitto di ritorno. Ero allibito per il mio
coraggio e altrettanto per la facilità con
la quale ci eravamo dichiarati. Avevo tutta
la sua intimità nella mia mano…
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Roman Filippov
Buongiorno Silvia,
spero stia bene e che a Milano oggi sia una
bella giornata. Oramai sono passati più di cinque anni da quella volta
insieme a Verona, ma io la ricordo come se fosse oggi: piazza delle Erbe,
piazza dei Signori e quel piccolo hotel dove alloggiavamo, credo si
chiamasse Giulietta e Romeo con vista sull’Arena. Ci rimanemmo solo tre
giorni. Lei al tempo era il mio direttore e la nostra azienda aveva
pensato bene di mandarci in missione insieme.
Io ero giovane,
inesperto nel lavoro e nell’amore, mentre lei era una donna in carriera
molto più grande di me. Ricordo sul lavoro come assorbivo i suoi
insegnamenti e ricordo l’ultima sera quando lei mi invitò a cena. Io non
avrei mai osato farlo! Facemmo una lunga passeggiata, ricordo un gruppo di
ragazzi, forse cileni, seduti sul selciato a ridosso della fontana, con le
loro chitarrine curiose e i flauti di Pan. Era una serata piacevole e ci
mettemmo ad ascoltare quei suoni strani. Poi ricordo quel minuscolo
ristorante, ma intimo. Lei era bella, bionda come il grano e gli occhi
color di mare, aveva due labbra rosse buone per parlare, meravigliose per
farci l’amore, ma questo ovviamente lo pensai senza dirglielo.
Durante la cena lei mi chiese quale fosse stata la nostra missione, ma
nell’intimità di quel posto pensai che non si riferisse al lavoro. Risposi
confusamente che conoscerci fosse già un buon traguardo, e la conoscenza
portava inevitabilmente ad assaporare il gusto di un’ottica diversa. Le
dissi che la realtà è banalmente oggettiva, alle volte piatta, ma ciascuno
di noi possiede il dono di filtrarla, poi l’adatta, la rende fruibile al
proprio essere. Forse sì, siamo venuti al mondo non a caso, abbiamo una
missione, e in quel momento non trovai di meglio che risponderle che
osservandola vedevo il mondo attraverso i sensi, e viste le nostre
diversità, il nostro compito fosse quello di assecondare il destino.
Ricordo ancora quel ristorante, seduto in quel posto, mi lasciavo
trascinare dalla coda dei pensieri, dalle stanchezze del viaggio, dalle
note della gonna, che danzava sullo sfondo, come un velo in controluce,
che colorava a tinte dense, di verde i miei respiri, d’organza a strati le
parole, nello strascico dei sensi che saziavano i miei occhi, per
lasciarsi conquistare, da lei esperta di malizia, dalla cresta di quel
vento che spirava sulla gonna, ed avvolgeva le sue forme come un velo di
passione, risalendo tra le gambe come amante dentro il letto, che focoso
la pretende, che rovente la rivuole...
La prego, non mi prenda per
pazzo, erano solo pensieri, nel gusto evocativo e sottile della
trasgressione che stavo vivendo, nell’unico fine di dare la dimensione
giusta alla mia anima, a ciò che sentivo. Non è vero che quella sera omisi
e men che meno ignorai le sue domande. Semplicemente le risposi a modo
mio, quando lei parlando di missione parafrasò quella meravigliosa poesia
di Itaca, immaginando quel viaggiatore che fa incetta di mercanzie per
rendere più piacevole il viaggio. Ecco, Itaca era lontana, ma questo non
ci impediva di arricchire le nostre anime nel percorso.
“Mia
fanciulla del deserto, mia giovane amante, le mie orme sono stanche, ad
ogni passo più profonde, infiacchite dalla notte, da ogni luna più
pesante, perché i miei sacchi sono pieni, di seta e di broccato, il mio
tragitto una curva, la mia strada un tornante, anche se m’illudo ancora,
che sia una linea retta, la strada più spedita per raggiungere la meta.
Perché domani sia un’alba, leggera e rosa chiara, perché domani sia l’alba
nel villaggio di Menshur, e possa vendere la merce ai mercanti di Giudea,
e guadagnarci quanto basta per volere del buon Dio, per tornare fino a te,
e riscattare il mio cammello, per tornare fino a te, e comprarti a peso
d’oro.”
Questa mattina, insolitamente mi sono alzato presto, più o
meno alle 9, ho fatto una lunga passeggiata per le stradine del quartiere,
l’ho pensata, mi creda dopo cinque anni ho pensato ancora alle sue
domande, al Caso che ci aveva messi di fronte, alla nostra azienda che
aveva deciso di mandarci insieme a Verona. Ecco ho immaginato se le cose
fossero potute andare in maniera diversa, forse il tempo e i modi e dove
una situazione diversa ci avrebbe potuto portare… Ma in quel momento ero
solo affascinato da lei, il suo modo di vedere le cose, molto diverso dal
mio, il domandare direttamente, come se avesse già una meta, come se già
conoscesse la risposta, come se già la vita l’avesse messa di fronte a
simili percorsi, ma altro non so perché non sapevo nulla di lei.
Oggi è una bellissima giornata, piena di luce, una luce nuova, mi sono
seduto ai tavoli del bar del mio amico Domenico. Abbiamo scambiato due
parole mentre gustavo il suo splendido caffè dal sapore denso e terroso.
Mi affascina tutto questo, mi saziano i dettagli, entrare nell’umanità
delle persone, entrare nelle loro debolezze e nelle loro fragili gioie,
anche se poi si scambiano due parole leggere, sul tempo o sul calcio,
sulla politica o sulle donne, va bene lo stesso, qui non ci sono grandi
temi, non si parla mai dell’origine del mondo, di missioni e prove, le
cose vanno come devono andare, in quell’atavico fatalismo per cui accade
ciò che deve accadere: “questo è” e se piove “è tempo suo…”. In quel
frangente ho pensato a lei, al nostro incontro, forse davvero doveva
accadere, e forse non c’è bisogno di tante domande, ma solo di risposte… e
già, ciascuno ha la propria missione e quella di Domenico è quella di
servirmi un buon caffè…
Non mi chiedo perché seduto in questo bar
le sto scrivendo, non mi chiedo perché lei risponda, in fin dei conti
abbiamo fatto solo l’amore, sì lì proprio lì a Verona, dopo quella cena a
lume di candela, Dio com’era bella, Dio come è stato lungo quel tragitto
di ritorno e quella scala di quel piccolo hotel che non finiva mai. Lo
ricorda vero? Mentre saliva davanti a me l’ho presa per i fianchi, lo so è
stato un azzardo, un attimo, un barlume d’incoscienza, poteva finire anche
con cinque dita sulla mia faccia, ma in quel momento le sue movenze, il
suo tacco alto, la sua forma ad anfora romana, i suoi anni, la sua calza
con la cucitura erano per me un richiamo di mille sirene. Allora ho agito,
ho puntato tutti i miei averi sul nero, il mio colore preferito, l’ho
stretta a me, e poi la mia mano magicamente è scivolata sotto la sua gonna
fino al punto da rendermi conto quanta femmina nascondeva quel vestito. Mi
sorpresi e lei mi disse: “Una donna senza mutande è una donna già presa.”
Eh già lei in quel ristorante aveva già fatto l’amore con me,
ignaro di tutto. Si era bagnata, si era toccata a mia insaputa, aveva
goduto sorseggiando quel buon calice di vino rosso. Aveva sorriso,
risposto alle mie domande, replicato alle mie risposte, a quale fosse la
nostra missione. Forse per lei era già sufficiente e magari non si sarebbe
mai aspettata quella mia reazione su quelle scale. E invece eravamo
proprio lì, in bilico, precari, su quelle scale, stringevo una donna
nuova, molto più grande di me, un nuovo profumo, dolciastro e ricco di
seduzione. Stringevo il suo sesso caldo, ancora umido per un orgasmo lungo
quanto il nostro tragitto di ritorno. Ero allibito per il mio coraggio e
altrettanto per la facilità con la quale ci eravamo dichiarati. Avevo
tutta la sua intimità nella mia mano e contro quel muro assaporavo il
gusto dell’attesa e a breve la nostra intimità segreta in una delle due
stanze. Lei mi fissò negli occhi e quasi dispiaciuta mi implorò: “Ma io ho
già fatto l’amore con lei.”
Rimasi per un attimo a pensare. Non
volevo aggiungere nulla a quella magia, a quel miracolo che l’aveva già
sciolta, perché, pensai, l’oblio è e mai sarà e ogni persona ha il suo
modo di raggiungerlo. Ma lei sorrise: “La prego non cerchi la chiave della
stanza.” Poi mi prese per mano e scendemmo una rampa di scale. Scivolammo
in una penombra silenziosa entrando prima in una stanza di servizio piena
di scatoloni e poi nella cucina dell’hotel.
A quel punto senza parlare
lei si tolse il soprabito, rimase in un trasparente babydoll bianco, poi
puntò i suoi tacchi sul pavimento, si appoggiò contro una credenza e
sollevò quei merletti. Era nuda. Mi sussurrò: “Prima mi sono lasciata
andare perché non credevo di essere l’oggetto delle sue attenzioni.” Poi
mi portò a sé avvicinando la sua bocca: “Lei è un illuso, cosa mai crede
di trovare tra le cosce di una signora matura?”
Già cosa stavo cercando
se non la risposta a quale fosse la nostra missione… ma non risposi perché
non era una domanda, ma semplicemente un invito.
Lei chiuse gli
occhi e disse: “La prego mi prenda qui, dentro questa cucina, godiamoci
questo presente, perché tra qualche minuto sarà già futuro e quello non ci
appartiene. Venga nel mio Paradiso, la prego, si goda la coda di questo
lungo strascico di orgasmo.”
La presi.
Solo a quel punto capii
cosa lei intendesse e quale fosse la nostra missione, ovvero fare l’amore
in quel modo, anzi fare sesso buono senza spazio e tempo, cause e ragioni
come in un sogno, come fosse un qualcosa di imponderabile, senza per
questo coinvolgere i nostri mondi, i nostri ruoli per poi tornare
tranquillamente nelle nostre stanze separate.
Così fu.
Non
dimenticherò mai quel bacio, il più lungo in assoluto di tutta la mia
vita! Le nostre bocche si unirono per tutto il tempo che facemmo l’amore.
Succhiai la sua anima e lei tutta la mia passione, finché un urlo muto e
simultaneo ci diede il segnale della fine della nostra missione.
Non ci salutammo.
Lei risalì le scale lentamente e rientrò nella sua
stanza, avrebbe chiamato suo marito, gli avrebbe detto che era andato
tutto bene, che aveva cenato con un collega in un meraviglioso
ristorantino vicino Piazza delle Erbe, che ora aveva una gran voglia di
dormire e poi avrebbe riattaccato dicendogli “Buonanotte Amore!” Rimasi in
quella cucina finché non chiuse la porta, poi risalii le scale. Anch’io
sarei rientrato nella mia stanza, avrei chiamato mia moglie, le avrei
detto che era andato tutto bene, che avevo cenato con una collega in un
meraviglioso ristorantino vicino Piazza delle Erbe, che ora avevo una gran
voglia di dormire e poi avrei riattaccato dicendole: “Buonanotte Amore!”
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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