Secondo un’indagine operata dalla Commissione Affari
sociali della Camera dei deputati, a Torino vi sarebbe
una concentrazione di prostitute pari al 21% del
totale in Italia. Medaglia d’argento alle spalle di
Milano. Una così vasta concentrazione di prostitute
nella sola città di Torino è visibile anche ad occhio
nudo soprattutto nei quartieri più periferici, nelle
zone con scarsa illuminazione e nelle vicinanze di
parchi.
Prostitute perlopiù provenienti
dall’Africa e dall’Europa dell’est, si spartiscono
nelle ore notturne accuratamente le zone per
nazionalità. I prezzi si differenziano per paesi di
origine, generalmente le nigeriane e le ivoriane
dall’atteggiamento dimesso sono disposte a tutto pur
di guadagnare pochi euro, mentre le ragazze dell’Est
molto più esuberanti con i loro stivali inguinali
chiedono tariffe sensibilmente superiori.
Ma la
prostituzione a Torino non è solo un fenomeno recente.
In fatto di bordelli non si è mai fatta mancare nulla.
Già nel 1400 l’attività era ammessa e veniva gestita
direttamente dal Comune con un postribolo vicino a
Porta Pusterla. Le prostitute potevano uscire solo 2
giorni alla settimana, il mercoledì e il sabato,
portando una fettuccia sulla spalla destra che
consentisse di riconoscere la loro professione.
Potevano andare a messa solo nella chiesa di San
Dalmazzo non oltrepassando il campanile.
Nel 1594
Carlo Emanuele stabilì che le meretrici potevano
abitare in città, ma solo negli ultimi cantoni, verso
le muraglie. In via Bertola la sera veniva calata una
barra di ferro per sbarrare la strada ed era fatto
divieto alle prostitute varcarla per qualsiasi motivo.
Nel 1631 le cose cambiarono la prostituzione non
era più ammessa. La polizia provvedeva alla punizione
col carcere a pane e acqua e, se recidive, anche con
la fustigazione.
Le donne accusate di prostituzione
venivano rinchiuse nel Ritiro delle Forzate oppure
nell’Opera delle Convertite dove la disciplina era
severissima. Il periodo napoleonico fu caratterizzato
da una tolleranza vigilata con un rigido controllo
sanitario.
A metà dell’800 se ne contavano più
di 2000 e la zona di lavoro si dipanava nel quadrato
racchiuso tra via Bertola, via Stampatori, via dei
Mercanti e via Santa Maria.
Ai tempi di Cavour vi
fu la necessità di emanare regole e leggi per
controllare il fenomeno con tanto di controlli medici
e tasse da pagare.
Le case di tolleranza vennero
legalizzate con decreto del 1857, soprattutto per
soddisfare le esigenze delle truppe alleate francesi
di Napoleone III.
Le tariffe andavano dalle 2 alle
5 lire. Il cosiddetto decreto Cavour riprendeva molte
disposizioni dal Codice napoleonico, e le case dove si
poteva praticare la prostituzione erano controllate
direttamente dello Stato. I punti fondamentali del
Regolamento erano:
Iscrizione (schedatura) delle
prostitute;
Visita medica periodica;
Cura
obbligatoria nei sifilocomi fino alla guarigione.
Il Regolamento Cavour rimase in vigore fino al 1888,
sostituito dalla legge Crispi.
Con questa legge si
proibirono la vendita di cibi e bevande,
l’assembramento, i balli, i canti nei bordelli, e gli
stessi proibiti nelle vicinanze di negozi, scuole e
asili.
Si stabilì inoltre che le imposte sugli
infissi dovessero rimanere chiuse, creando così
l’espressione ancora attuale di “case chiuse”.
Le
prostitute, infine, non erano più obbligate a
registrarsi ufficialmente, ma erano i luoghi a dover
essere registrati.
Nel primo censimento
nazionale del 1892 la provincia di Torino risultava
quella con il maggior numero di bordelli in rapporto
agli abitanti. Torino del resto è sempre stata una
città con numerose caserme e fabbriche ed al tempo il
numero degli abitanti uomini era il doppio rispetto
alle donne (rapporto di 1,9 maschi per ogni donna).
In città le case chiuse si strutturavano in tre
livelli: basso, medio e alto. Al primo appartenevano i
bordelli di via Conte Verde; nella media si
collocavano le case di via Calandra e di via Principe
Amedeo; mentre al livello più alto vi erano le case di
via Michelangelo, corso Raffaello e via Massena, per
giungere al top di via Cellini: la casa chiusa più
esclusiva di Torino.
Nei livelli bassi una
signorina poteva arrivare a trenta quaranta marchette
al giorno.
Le case di livello più alto offrivano
invece una serie di optional tipo il “servizio
libero”: cioè una cameriera guardava che non ci fosse
nessuno sulla strada mentre il cliente usciva, così da
escludere possibili incontri compromettenti! Qui le
ragazze potevano concedersi giorni di festa, a
differenza delle altre che invece lavoravano anche
nelle festività comandate, solo Natale era escluso.
Prima dell’accesso al bordello erano
controllati i documenti dei “maggiorenni sospetti”,
per evitare che tra le maglie della rete di controllo
potesse passare qualche minorenne. In genere, a
Torino, ogni casa chiusa disponeva di saloni per
l’attesa che potevano contenere fino a cinquanta
clienti. Nelle ore di punta però quegli spazi non
erano sufficienti per contenere l’afflusso e così si
formavano code sulle scale e davanti all’ingresso.
Tutto questo fino al 1958, quando, la legge
Merlin, divenne operativa il 20 settembre 1958. Questa
legge, abrogò tutte le leggi precedenti in materia,
vietando di fatto i bordelli, e creando il reato di
sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione.
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