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INTERVISTA IMPOSSIBILE
Elsa Schiaparelli
Rosa shocking
Stilista e sarta italiana, maestra ante
litteram di provocazione, self made-woman,
capace di inventare e imporre un nuovo
colore, il rosa shocking. Insieme a Coco
Chanel, è stata considerata una delle più influenti figure della moda all'inizio
del secolo...
(Roma, 10 settembre 1890 – Parigi, 13 novembre
1973)
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Madame lei sognava di diventare un’attrice…
Da bambina
era il mio sogno, sognavo i grandi palcoscenici, ma non mi fu permesso per
via della mia provenienza aristocratica.
Gli Schiaparelli
erano noti intellettuali piemontesi…
Giovanni è stato un
famosissimo astronomo direttore dell'osservatorio di Brera, Ernesto un
archeologo che fondò il Museo egizio di Torino, mio zio Luigi fu un famoso
paleografo.
Ci parli dei suoi genitori…
Mia
madre proveniva da una famiglia dell'aristocrazia napoletana discendente
dai Medici. Mio padre ricevette dal Re Vittorio Emanuele II il prestigioso
incarico di direttore della biblioteca dell'Accademia dei Lincei.
Per questo motivo suo padre si dovette trasferire da Torino a
Roma? Infatti io nacqui a Roma a Palazzo Corsini.
A 21 anni grazie a suo cugino pubblicò il suo primo libro di
poesie…
In realtà quelle poesie le avevo scritte molti anni
prima. Era un libretto di versi appassionati, quasi erotici,
Uno scandalo!
Fu un vero cataclisma che mi segnò per
sempre. I giornali se ne occuparono ampiamente. Mio padre considerò la
vicenda una terribile disgrazia e non lesse mai il libro.
La vicenda confermò il suo spirito ribelle…
Avevo un pensiero
fisso in testa: salvarmi dalla monotonia della vita di salotto e
dall’ipocrisia borghese. Per le mie idee d’avanguardia venivo considerata
una folle.
La sua famiglia decise di punirla, vero?
Fui mandata in un collegio nella Svizzera tedesca con l’intento di calmare
il mio temperamento troppo focoso. In realtà avevo voglia di recidere il
cordone ombelicale con la mia famiglia.
Nel 1913 la
troviamo a Londra ad occuparsi di bambini orfani…
Li conobbi
William de Wendt de Kerlor, che sposai, frettolosamente l’anno successivo.
Come andò il matrimonio?
Non bene, diciamo una
decisione sciagurata! Nel 1919 ci trasferimmo a New York e dopo la nascita
di Gogo, nostra figlia, rimasi sola. Purtroppo lei si ammalò di
poliomielite e morì poco dopo.
Fu questo, però, il periodo
in cui cominciò a frequentare gli artisti dell'avanguardia dadaista
Conobbi Man Ray, Baron de Meyer, Alfred Stieglitz e Marcel Duchamp e
soprattutto i coniugi Picabia che pochi anni dopo mi presero con loro,
portandomi a Parigi.
Cosa trovò a Parigi?
All’inizio fu davvero difficile. Sola e senza lavoro entrai per caso nel
campo della moda. La mia prima creazione fu una maglia nera con un fiocco
tromp-l'oeil.
Ci parli della sua prima collezione…
La presentai nel 1927 in rue de l’Université, in quello che ancora non era
un atelier ma semplicemente il mio appartamento. La mia vera prima
esperienza la ebbi con l’abbigliamento sportivo, di per sé una rivoluzione
visto che la cultura del corpo e quindi l’attività sportiva non era
propria dell’emisfero femminile. La collezione, ispirata da un abito fatto
a maglia da una rifugiata armena, presentava soprattutto maglieria dai
colori brillanti, ispirata al Futurismo.
Perché ebbe
successo?
Disegnavo personalmente i miei modelli e la mia
immaginazione prese il sopravvento: abiti eccentrici di ispirazione
cubista oppure con grandi aragoste e soli giganteschi. Più che una sarta
ero considerata uno spirito creativo che amava riversare l’arte
contemporanea nelle mie collezioni utilizzando tinte non comuni. il rosa
shocking diventò il mio feticcio.
Oltre all’arte, una
precisa idea di femminilità.
La mia concezione di donna, pur
non rinunciando all’eleganza, non era più inferiore all’uomo e non viveva
all’ombra del maschio, acquistava un ruolo sempre più nevralgico ed una
consapevolezza dei propri mezzi anche attraverso l’immagine estetica.
Quindi un deciso cambio di rotta…
La mia donna
doveva suggerire forza e indipendenza, una silhouette slanciata e decisa
anche attraverso il potenziamento delle spalle, squadrate e fortificate da
soffici imbottiture. Le donne dovevano essere se stesse, imporre la
propria figura, ripetevo alle clienti che frequentavano il mio atelier di
non seguire il senso comune e assolutamente di non nascondersi
nell’anonimato.
Nel 1934 stabili la sua Maison in place
Vendome…
Fui considerata l'antagonista principale di Coco
Chanel ma in realtà avevamo stili completamente differenti. Opponevo alla
rigorosità della Chanel impermeabili da sera, abiti in vetro, mantelle
color rosa shocking, insomma uno stile ricco e fantasioso.
Aiutata anche dalla creatività di Salvator Dalì…
Lui
mi ispirò un tailleur dove le tasche erano minuscole cassettine e il
famoso cappello a scarpa, immettibile direi, ma io già facevo largo uso
della cerniera lampo, assai più pratica delle sfilze di bottoncini,
disegnavo abiti con gli aforismi di Jean Cocteau e poi farfalle, strumenti
musicali, temi ispirati all’astrologia, giocolieri, elefanti, trapezisti,
coni gelato e poi ancora… Fiocchi, turbanti, copricapo di piume e
pelliccia da abbinare agli inconfondibili guanti con unghie laccate
Quindi un libero sfogo alla creatività…
Più che
altro un libero sfogo del proprio mondo interiore, della propria psiche
dalla quale non era più possibile prescindere. Iniziai a creare delle
collezioni a tema sulla base di ricordi infantili apparentemente senza una
logica ma che in fondo esaltavano l’immenso universo femminile fatto anche
di feticci e simboli erotici.
Come ad esempio nella
collezione autunnale del 1937…
Ah sì ricordo, il famoso
tailleur di crepê nero con le tasche rifinite da bocche femminili rosse…
Non era altro che la concezione del corpo femminile da parte della cultura
occidentale ossia un insieme artificiale di simboli di significato erotico
che possono essere smontati e isolati per trasformarli in feticci.
Coco Chanel la definì “un’artista italiana che «fa vestiti» ma
nulla più”.
Eravamo concorrenti nel campo della moda e rivali
per fama e per gioco nei salotti letterari e nelle passerelle mondane, ma
entrambe avevamo in mente una donna libera e indipendente. Per rispondere
alla sua domanda posso solo dire che per il mio atelier passarono le donne
più eleganti di quel periodo tra le quali Greta Garbo, la Duchessa di
Windsor, Marlene Dietrich, l'attrice francese Arletty ecc…
Comunque lei e Coco foste le prime a capire l’importanza del
prêt-â-porter.
I tempi stavano cambiando e il vestito pronto
era sicuramente la formula vincente ossia abiti e oggetti pronti alla
vendita e all’uso grazie all’impiego di taglie “standard” e di una
lavorazione in serie. Una vera rivoluzione che gettò nel panico gli
accoliti delle sartorie d’élite e della haute-couture.
E
lei fu la prima a sperimentare nella moda nuovi materiali come la plastica
trasparente, il metallo, la porcellana di Sèvres.
Le mie
sfilate a tema erano un evento.
Lei si ritirò dalle
passerelle in concomitanza con la Grande Guerra…
La moda
dovette fare i conti con la fame e la miseria da una parte e i nuovi
ricchi legati all’esercito invasore dall’altra. Partii da Parigi
destinazione Stati Uniti per raccogliere fondi e medicinali per i bambini
francesi della zona non occupata. Tornai in Francia nel 1944 e tentai di
far rinascere la Haute Couture francese. Ma la situazione era
difficilissima: mancava tutto il necessario.
Ormai il mondo
era cambiato…
La società che emergeva dalle tragedie della
guerra era totalmente diversa. Le mie creazioni non erano più in linea con
i gusti del tempo. Alla raffinatezza e l’eleganza si opponeva l’abbondanza
e l’opulenza e la necessità di ostentare e di apparire. La risposta
all’emergente ricca borghesia internazionale la diede Christian Dior nel
1947 con il New Look.
Nel 1954 pubblicò la propria biografia
Shocking Life… Il mio mondo era finito per sempre così come i profumi
da uomo, gli abitini rosa shocking, le cerniere lampo sugli abiti da sera,
i cappelli impossibili…..
In quell’anno dà il suo addio definitivo
alla moda, proprio quando la sua rivale Coco ritorna in scena e risorge
dalle ceneri. Elsa si ritrovò a chiudere per sempre la sua “maison”,
dichiarando un’irrimediabile e per niente onorevole bancarotta. Una
bancarotta causata dai troppi debiti accumulati nel dopoguerra.
Sempre
nel 1954 raggiunge gli Stati Uniti dove muore nel 1973.
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