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Adamo Bencivenga
La ragazza di Saigon
Photo Ku Phong
C’erano notizie di scontri cruenti e il giorno dopo sei partito per il
nord dove la guerra vera non faceva distinzioni. I comunisti avevano
ripreso l’offensiva ed i francesi indietreggiavano facendo terra bruciata.
Ogni tanto m’interrogavo su cosa fosse la guerra, ma non parteggiavo per
nessuno dei due contendenti, volevo solo che finisse al più presto.
Non sapevo che dovessi partire. Ho pianto di nascosto, non per la tua
assenza, ma più che altro perché non me lo avevi detto. Che stupida! Cosa
potevo pretendere? In effetti ero solo la vostra governante e il fatto che
mi avevi baciata la sera prima in veranda, di nascosto da tua moglie, non
mi dava certo alcun diritto. Certo avrei preferito andare oltre, il mio
piccolo seno chiedeva insistentemente le tue mani, le mie gambe l’amore
quello vero, ma tu mi hai concesso solo di massaggiarti i piedi con
l’acqua di petali di rose, poi mi hai augurato la buonanotte e sei andato
a dormire.
Ero triste. La mattina con tua moglie siamo
andate a passeggiare lungo il fiume. Un soldato
francese ci ha scortate al di là dell’unico ponte.
Era bella tua moglie, portava un vestito a fiori
trasparente dove seminascosto prendeva luce un seno
ben fatto. Aveva legato i capelli che uscivano a
coda sotto il cappello, era felice di essere lì con
me, e io mi domandavo cosa tu non trovassi dentro
quel corpo, sotto quella pelle che odorava di sole.
Ha raccolto una spiga e mi ha legato i capelli
seguendo con le dita lo stesso percorso del profilo
del naso, come avevi fatto tu la sera precedente, ma
lei era andata oltre entrando con l’unghia tra i
miei denti fino a sfiorarmi leggermente il palato.
Senza rendermene conto ho leccato quel dito
rimanendo delusa quando di colpo lo ha tolto. Ho
visto un’ombra tra i suoi occhi.
“Sai Numi,
noi siamo girovaghi del mondo.” Mi ha detto, ma non
sapevo bene cosa mi volesse comunicare. Ha aggiunto
che da anni ti seguiva e come reporter di guerra non
avevate mai vissuto un solo mese in tranquillità.
Sentivo che ti amava, ma non mi sentivo di troppo.
Poi mi ha abbracciata fino a strozzarmi il respiro.
Ero imbarazzata, ho tentato di sottrarmi, ma invano.
Il soldato francese che non ci aveva perso di
vista ci ha aiutate a salire sul battello. Tua
moglie si è seduta sul bordo della barca, il vento
le gonfiava la gonna e le increspava il vestito.
Lungo i bordi del fiume c’erano palafitte e vita,
uomini cotti dal sole che s’affannavano per tanto e
per niente, donne senza figli, puttane senza
mutande, che aprivano le gambe al primo che parlasse
in francese. Lungo lo scorrere d’acqua c’erano ombre
piatte senza una forma, vagavano per ricongiungersi
ad un corpo qualunque che le avesse dato ancora il
diritto di vivere e alla luce il potere di non farle
morire. Donne e topi distrutte dalla fatica, mi
chiesi semmai avessero provato l’amore almeno una
volta e il pensiero tornò su tua moglie, la vedevo
felice e per nulla preoccupata. Perché mi aveva
sfiorato con un dito il palato? E senza ricevere
risposta rimanevo curiosa ed immobile ad aspettare
un vortice di vento che le scoperchiasse la gonna,
che facesse apparire la sua pelle almeno nuda,
almeno bella perché di nient’altro potesse andare
più fiera.
Cosa mi stava succedendo? Avrei
pensato le stesse cose se avessi avuto un uomo, un
uomo soltanto? Se tu m’avessi scopata la sera prima?
Attratta com’ero da quella gonna leggera, che
vezzosa faceva l’amore col vento sentivo il bisogno
di sgretolarmi, essere il nulla per non sentirmi
inutile, per entrare facilmente nei vuoti senza per
forza doverli riempire.
Lei era lì davanti a me,
con il suo cappello eccentrico che mi sorrideva e
poco dopo si perdeva muta nel labirinto dei suoi
pensieri irrequieti guardandomi come una ragazzina
che chiede ossessiva una piccola moneta. Poi
riprendeva a sorridermi ed io ero contenta,
ricambiavo d’istinto quel ghigno di intesa come se
la mia felicità dipendesse dal suo stato d’animo.
La sera abbiamo cenato al Moulin Blanc. Da
queste parti è strano vedere due donne sole che
mangiano allo stesso tavolo. Allora ho capito che tu
non cercavi un’amante e che stavo lì soltanto per
far compagnia a tua moglie. Quella sera ero
arrabbiata con te, col mondo, perché non si può
chiedere ad una ragazza di Saigon di servire una
europea o peggio di dipendere da una donna.
Lei era affascinante, una signora di classe,
disinvolta e preziosa. Scherzava con i camerieri,
ammiccava, beveva vino rosso nel calice come fosse
un infuso di bellezza. Ed io ero intimorita,
abbassavo gli occhi per paura, stava succedendo
qualcosa che non capivo. Per me era tutto nuovo,
anche la sensazione di sentirmi attratta da una
persona che aveva lo stesso mio sesso. Sentii
mordermi dentro quando tua moglie mi confidò con
aria complice d’aver paura la notte a dormire da
sola. E mi sussurrò senza chiedermelo che quella
notte avremmo dormito insieme nel letto a
baldacchino, senza mosche e zanzare, senza un uomo a
farci sentire più donne.
Io ti amavo e mai ti
avrei deluso. Sapevo che per conquistarti avrei
dovuto obbedirle, entrare nelle vostre regole,
penetrare nella vostra ragione di stare insieme.
Altrimenti perché mi avresti ospitata nella tua
casa?
“Numi, voglio che tu stia qui con noi.” Mi
avevi detto la sera precedente mentre ti massaggiavo
i piedi. Naturalmente ero contenta, felice di
servirti, ma non ho risposto perché tu conoscevi già
la risposta.
Ma ora stava accadendo
l’impossibile! Ti amavo, e sentivo l’impellente
piacere di far parte del vostro mondo, dei vostri
segreti che su quella tavola cominciavano ad avere
una forma. Avevo capito sai! L’avevo capito da quel
sorriso di tua moglie lungo il fiume, da
quell’abbraccio davanti al soldato francese, ma per
me era la prima volta e sentivo evidente il
disordine dentro il mio cuore.
Il ritorno a casa nemmeno me lo ricordo,
ma ricordo le sue mani che sentivo esperte tra i
miei seni, la sua volontà ferma e troppo decisa per
un cruccio venuto all’istante. Si è accesa una
sigaretta appoggiata alla spalliera del letto.
Vestita e con le scarpe mi reclamava. Delicata mi
spingeva, mi spingeva in basso per farmi capire il
punto preciso dove sgorgava il piacere.
M’ha
chiesto di spogliarla senza mai avere il minimo
dubbio che potessi rifiutarmi. La mia bocca era
impastata per l’emozione, curiosa di scivolare lungo
quel corpo caldo e umido sotto le lenzuola.
Era
la prima volta che sentivo in bocca un sesso di
donna, un sapore deciso di pelle e di voglia come un
odore di casa chiusa da tempo. Succhiavo e leccavo
senza rendermene conto che le stavo dando piacere,
allibita che senza un pene di mezzo si potesse
comunque saziare la voglia.
Lei gemeva e
spalancava le gambe per farsi più aperta e generosa,
per sentire oltre le pieghe la mia lingua
incessante. Mi supplicava di non smettere, di
indurire la lingua e darle la forza per insinuarsi
contro corrente, e continuare in un vortice dentro
come la danza di un piccione che tuba finché il
giorno domani fosse rimasto a dormire dall’altra
parte del mondo.
Mi chiamava tesoro come un
uomo normale, mi graffiava i capelli come una donna
che non l’aveva mai fatto. Leccavo senza rendermi
conto che non c’era differenza tra femmina e
maschio, leccavo e capivo quanto quell’aria di donna
borghese fosse solo apparenza, quanto le vostre
indifferenze, l’ostinazione di non concedersi
all’altro.
Capivo sai quei suoi momenti
d’assenza, quegli occhi irrequieti che ora erano
solo un incanto a guardarli e farci l’amore.
Ed a
poco a poco in me qualcosa cambiava, sentivo il
piacere nel cuore di far godere una donna, speravo
che mai smettesse d’urlare, di gonfiare il petto che
chiedeva altra saliva. E succhiavo leccavo saltando
dal seno al suo sesso come un’ape si sazia di fiori,
perché dietro ad ogni respiro c’eri tu e c’era lei,
in un infinito gorgo di passione e d’amore, di cui
io ero la causa, il rimedio alle vostre debolezze
segrete.
Lei continuava a fumare come se
quella sigaretta la facesse sentire più maschio, ed
io a leccare per il gusto di sentirmi serva d’amore,
ma padrona di quel corpo, di quella casa e di te al
fronte che mi stavi pensando. Sfiancata ha goduto
fino all’ultima goccia, ebbra di voglia m’ha cercata
per l’ennesimo orgasmo che a differenza d’un uomo
era dolcemente sfalsato.
La mattina dopo mi sono svegliata col timore
di non essere stata all’altezza, che la mia lingua
fosse stata solo una raspa e i pensieri notturni
avessero preso la luce come foto svanite nel nulla.
Ma mi sbagliavo, decisamente mi sbagliavo.
Siamo andate insieme a Cholon, tra i vicoli stretti
del mercato. Lei portava un foulard per vestito,
giallo ed arancio, il suo seno era in mostra per chi
avesse voluto apprezzarlo. Ero gelosa, davvero sai,
ma anche fiera perché ne sentivo ancora il sapore,
tra le mie dita, tra le mie labbra che avrebbero
ancora voluto.
L’avevo stretto tra i miei denti,
l’avevo fatto attendere e poi saziato. Era stato
mio, remissivo e ribelle, fino ai primi rumori
dell’alba, voci e biciclette che ci avevano
accompagnato nel sonno. E ora tra quei banchi ne
andavo fiera come se fosse io ad ostentarlo nella
sua forma perfetta, nella sua forma esagerata e
colma di sensualità.
Rideva e si fermava a
parlare con la disinvoltura che a me era sempre
mancata. Ha acquistato per meno di un sorriso una
stampa su carta di riso proveniente da Dong Ho e per
mezzo bacio un vasetto Bat Trang in ceramica grezza.
Stretta nel suo foulard mi accarezzava i capelli
e la fronte, solo allora ho sentito di nuovo la
voce, calda e suadente sotto i suoi occhiali neri da
donna fatale. “Ti amo.” Flebile, appena accennato
per confidarmi che non s’era pentita d’avermi
concesso d’amarla. Davanti ai banchi di pesce si è
fermata. Ha stretto gli occhi simulando un bacio.
“Sai, non devi pensare che in ogni città in cui
vada, quando mio marito è fuori, faccio l’amore con
una donna.”
Ma io non pensavo nulla. Stavo
vivendo una storia impossibile ed era un peccato
cercare una ragione. Tu eri lontano e lei mi stava
conquistando. Poi ha sfilato un fiore da un vaso di
metallo e l’ha appuntato sui miei capelli.
“Ti
voglio bene.” Non mi ha dato il tempo di pensare
quanto e come avrei potuto ricambiare quell’amore.
Abbiamo camminato per ore, incerte sui nostri tacchi
bianchi, tra legni e broccati, tra ginseng e thè.
Eravamo belle, lei ricca ed io felice. Al nostro
passaggio quegli uomini umili ci sorridevano con i
pochi denti rimasti, ci chiedevano d’accettare le
loro miserie, le loro ricchezze.
Era la mia
gente, ma ora mi sentivo diversa, avvertivo una
carica dentro come se quell’essere accanto m’avesse
rigenerato ogni goccia di sangue, ogni parte del
corpo marcita dalla guerra che semina pianto.
La sera mi ha ospitata di nuovo sul vostro letto
grande e questa volta è stata lei a darmi piacere, a
prodigarsi per ore per farmi sentire desiderata. Ha
assaporato il mio nettare dicendomi che sapeva di
miele e fragola fino a quando, convinta che
desiderassi un uomo, mi ha penetrata con un suo
giocattolo portato dall’Irlanda confessandomi che
quel piccolo fallo era il suo unico compagno fedele
che le procurava l’orgasmo. Ho goduto sai, ho goduto
tanto pensando a te ed a lei, a voi due insieme che
per chissà quale caso strano mi avevate scelta tra
le tante ragazze di Saigon.
Quando il giorno dopo sei tornato non
ho avuto paura a mostrarti tutto il mio affetto.
Niente era cambiato. Tu mi baciavi avido come se mi
cercassi l’anima in bocca ed io non avevo timore che
tua moglie ci potesse vedere.
“Mi sei mancata
Numi!” Mi respiravi lì in piedi sulla porta prima
ancora di salutare lei.
“Anche tu.” Ti ho
sussurrato. Appesa come una figlia che abbraccia suo
padre, stretta e contenta con le braccia serrate
attorno al tuo collo.
Ecco proprio in quel
momento capivo che vi stavo amando
contemporaneamente, vi amavo perché eravate due
anime in cerca dell’altra.
Già mi era successo
d’amare due uomini, senza che l’uno sapesse
dell’altro, d’amarli intensamente senza saper
scegliere, di spartirmi a metà e per questo sentirmi
incompiuta, ma con voi era diverso, non mi sentivo
incompleta. Non ne conoscevo la causa, ma vi amavo
entrambi. Non mi sentivo divisa, ero integra ed
intera, come se stessi occupando un posto vacante,
come se ad ogni vostro abbraccio passasse dell’aria
e rimanesse del vuoto ed i vostri corpi non fossero
perfettamente aderenti.
Ecco, io stavo lì in
mezzo! Occupavo un posto che nessuno di voi due
avrebbe mai occupato. Ecco, io stavo lì in mezzo!
Tra le gambe di tua moglie arcuate. Tra un incrocio
di venti che proseguono assieme. Ecco, io stavo lì
in mezzo! Tra i tuoi occhi troppo distanti, tra due
gocce di pioggia che cadevano leggere, ma non potevo
bagnarmi: “Io stavo lì in mezzo!”
La sera
abbiamo cenato in veranda, mia cugina Hong aveva
preparato il cà loc kho to. Ti guardavo mentre
mangiavi ed ero felice che ti piacessero i nostri
sapori, quel piatto di pesce con l’insalata di loto.
Tua moglie aveva preferito una zuppa in agro dolce
con ananas e tamarindo.
Mi facevi tenerezza,
avevi l’aria stanca, ma ti sforzavi ad essere
brillante. Mentre parlavi pensavo che non avevamo
mai fatto l’amore. Ed invece lo avevo fatto con tua
moglie per due sere di seguito. Lei si era
infiltrata come acqua vacante nelle crepe del mio
cuore. Mi chiedevo cosa sarebbe successo quella
notte, se avessi dormito fra voi due o nella mia
stanza come la prima volta. Chi sarebbe stato a
decidere? Chi dei due avrebbe guidato la danza,
m’avrebbe stretta ai fianchi e fatta volare fino a
cadere in mezzo nel letto mentre tutti e due
ignoravate le intenzioni dell’altro.
Avrei
voluto confessarti che avevo preso il tuo posto,
avevo leccato, succhiato quel tesoro che sapeva di
chiuso. Sì, ti avevo sostituito! Lei aveva gridato
fino alle prime ore dell’alba, un uragano di gioia,
di voglia e di miele. Desiderava essere maschio, ma
ha goduto, sofferto come una donna, sazia ed
affamata senza una tregua, senza una pausa.
Ora vi stavo guardando. Non sapevo cosa ci fosse
nell’indifferenza di lei che sorrideva poco convinta
ad ogni tua battuta, non sapevo quanto nella tua
gentilezza c’era il gusto della mia presenza. La
vedevo distante come se ritraendosi ti avesse
lasciato il posto che ti spettava. Timida
m’interrogavo senza capire, per me era tutto nuovo,
mangiavo con gli occhi sopra il piatto, come una
figlia incerta se parlare o stare zitta. Ma ero
anche il vostro segreto, lo scrigno dei vostri sogni
mai confessati, delle voglie lasciate ogni sera ai
bordi del letto. O m’illudevo soltanto?
Notavo quanto tra voi non scorresse una perfetta
armonia, c’era antagonismo, rivalse inconfessate.
Questo sì, questo l’avvertivo, ma non ne conoscevo
l’origine. Ero sicura che nessuno dei due avrebbe
mai ceduto. Oddio come eravate diversi!
Tu con
l’aria ferita e lei altezzosa come il primo giorno.
Nonostante fossero passati solo giorni ero sicura di
conoscervi a fondo. Vi guardavo e dentro me cullavo
la vostra vera essenza, ne andavo fiera e vi
stringevo nel cuore, orgogliosa di conoscervi più di
quanto potevate immaginare dell’altro, più di quanto
negli anni v’eravate concessi.
Abbiamo respirato
la notte di Saigon guardando le stelle, quel vento
freddo che s’alza senza mai sapere da dove, i
bagliori d’un fronte troppo vicino, ma io mi sentivo
protetta.
Quella notte ho dormito nella mia stanza
come una domestica o una cagna nella sua cuccia.
Nessuno di voi due si è alzato per venirmi a
trovare. Prima di prendere sonno pensavo che avrei
chiuso gli occhi ed accettato le mani come si
accetta un destino.
Contavo i secondi fino a 20 a
30 a 50 illudendomi che prima della fine avrei
sentito un alito denso senza conoscere il nome. Non
mi importava chi dei due fosse venuto a scaldare il
mio letto, perché il mio posto era riempire quel
vuoto, scaldare la freddezza delle tue maniere
gentili, succhiare il nettare di lei fino alla
sorgente, perché mi illudevo che solo in questo modo
vi avrei fatto del bene.
Mi sono alzata
prestissimo, un’alba più rossa veniva dal mare ed
aveva invaso la casa. Ho scostato appena la tenda
per spiarvi nel letto. Eravate distanti e le
lenzuola erano così in ordine d’esser sicura che non
v’eravate neppure sfiorati. Vi davate le spalle come
due soldati che dormono al fronte. Non c’era amore
in quella posizione, non c’era sesso consumato nel
buio.
Mi sono affacciata in veranda e mi sono
lasciata rapire dal mare guardando l’alba spiegarsi
sopra quel mare ancora di pesto. Erano tenebre
sbiadite ancora prive di luce viva. Avanzavano
tremando sulla cresta dell´onda, come controcanti
d'estate portati dal vento, che caldi s'appiccicano
come sabbia alla pelle.
Le avrei volute
trattenere gelosa come se fossero state secondi o
semplici sessi, e sola avessi potuto indirizzare la
luce per farmi riempire l’intarsio impreciso tra
anima e niente.
Si spiegava quell’alba sopra
i tetti impagliati d'umido e notte, sopra i sogni
appannati che vuoti avevo usato poco prima per non
sentirmi da sola. Nel sogno mi hai voluta sopra quel
bagnasciuga, che bagnassi i capelli di acqua di
mare. Mi hai presa perché ero bella, convinto che un
sesso di carne mi avrebbe potuto davvero saziare.
Mi chiedevo, se l´avessimo fatto davvero e se mi
avresti apprezzata più di tua moglie. Mi chiedevo se
oltre quell’alba sarei stata capace di provare
piacere, e quelle tette che timida mostravo
potessero avere l'istinto di madre. Le guardavo, ma
non erano grandi come quelle di tua moglie, sensuali
da mostrare come trote di fiume, spigole di mare,
nude sopra un banco di pesce addobbate con foglie di
vite per farle apparire più fresche. Le stringevo
perché fossero più sode e più grandi illudendomi che
avrebbero sfamato per sempre qualsiasi bocca anche
quando, a forma di pere, sarebbero cadute senza
riguardo.
Perché nulla serviva, nemmeno tu
che dormivi accanto a tua moglie, che mi avevi
baciata frantumandomi l'anima come se fosse una
fica, come se deluso ti fossi reso conto che non era
altro che un buco, un misero squarcio che nessuna
bellezza avrebbe potuto affinare. Mi chiedevo
davvero se fossi stata all'altezza, se quell'alba
che spiegava lontana, potesse ridarmi la luce o
quella paura che m'aggrovigliava la faccia sarebbe
rimasta come dentro ad un sentiero tra la tela di
ragno.
Chissà se quello che stavo provando
era davvero l'amore, o qualcosa d'informe che
chiamavano tale, ma avevo paura che, se davvero lo
fosse stato, sarebbe svanito alla luce del giorno e
ai vostri occhi, sarebbero apparsi solo seni e
carne, e tra le mie gambe non sarebbero rimasti che
calli incapaci d'accogliere amore di due forme
diverse.
Mi hai raggiunta in terrazza, ho
sentito le tue mani stringermi, mi sono lasciata
andare, ma non era un abbraccio d’amore. Sentivo le
tue mani sul mio seno, ma erano dita d’addio. La
sera stessa sareste partiti, mi hai chiesto solo se
mio fratello vi avrebbe potuto accompagnare
all’aeroporto. Ho annuito e tu sei andato a
preparare le valigie. Mi sono sentita persa,
inutile, non vi avrei più rivisto!
Davanti a
quella luce che incombeva decisa, avrei voluto che
qualcuno mi bendasse perché fosse stato buio di
nuovo, come nel sogno a carponi riempita, nel punto
preciso dove tu non avevi mai conosciuto la strada.
Perché oramai di nulla sarei stata più sicura!
Dentro quell’alba che mi regolava l’umore, dentro il
mio cuore scarnito che aveva confuso l'amore col
sesso ed ora vuoto difendevo con le pezze di tela
che portavo ad ogni ciclo di luna.
|
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
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