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Adamo Bencivenga
Nel ventre dell'anima
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Alejandro Marcos
Ti chiedi come sei finita in questo squallido posto. Che ci fai sdraiata
sopra questa moquette che ti secca la pelle. Nuda t’aggrappi ai piedi di
quello che trovi e fai forza con le mani ed i gomiti per strisciare verso
la finestra. Lo senti che al di là del vetro c’è una strada che corre, una
fermata di tram che ti lascia da sola a respirare bocconi di polvere
d’albergo. Sarai svenuta, t’avranno portata di peso in questo posto
dove si spiegano albe in faccia a questo fiume di pesto, sopra
quest'infinita follia di scurire il riflesso prima che venga domani, prima
che il chiarore t'invada lasciandoti solchi. Sono tenebre sbiadite ancora
prive di luce che avanzano sulla cresta dell’acqua e salgono a spruzzi
appiccicandosi ai vetri di questa finestra. Le trattieni gelosa come se
fossero ore e sola potessi fermare la luce e riempirti di tempo, come se
fossero ancora sessi di maschio e tutt'intorno ristagni e t'anneghi la
notte che soffia, che gonfi d'interminabile attesa.
Si spiegano albe
sopra i tavolini umidi di un bar all’aperto, sopra le sedie e bottiglie
che vuote qualcuno stanotte ha cercato di prenderne a caso e sentirsi più
uomo. T’avranno voluta sopra quelle sponde, che bagnassi i capelli di
acqua di fiume mentre allargavi l’anima in mezzo alle cosce. T’avranno
voluta perché cercavi amore, perché eri bella, d’una bellezza che nessun
sesso avrebbe mai potuto saziare.
Questa porta t’impedisce di
uscire, questa finestra troppo in alto t’impedisce di vedere, ma lo sai
che lì c’è il fiume, lo senti questo rumore continuo, di fiotti e risucchi
strascicati, che ti mettono ansia perché non arriva mai la fine, come
quando non riesci ad inghiottire e ritenti e gioisci come se avessi vinto
qualcosa. Lo senti, non è poi distante, ogni tanto qualche sparuto
gabbiano si ferma e riparte all’istante, non ti degna di uno sguardo, non
hai niente da offrirgli. L’umidità che sale t’infiamma le ossa e
t’arriccia i capelli, e non osi guardarti allo specchio, semmai c’è ne
fosse uno, semmai potessi vederti attraverso quest’oscurità che non ti dà
dimensione e ti fa paura, come se si congiungesse al rumore che ora senti
più forte. Non riesci ad immaginare che ora possa essere e ridi perfino
di te stessa pensando a cosa ti potrebbe servire saperlo, a quanto sia
inutile calarti in un punto preciso del tempo e domandarti dove ti
potrebbe portare il pensiero di sapere che è un’alba di un giorno feriale.
Cerchi con gli occhi un uomo, ci deve essere un uomo in questo
squallido posto! Non può mancare dietro queste tende appesantite da fumo e
sporcizia. Magari in controluce appiattito sul muro che si guarda
orgoglioso il tatuaggio a farfalla sopra il suo sesso, e fa il muscolo per
vederla volare, per vederla posare, sgranata e ingrandita su queste labbra
a forma di fiore.
Ci dovrà pur essere una faccia di camionista! Che
sorride guardandoti misera che strisci mentre cerchi ragioni per essere
nuda, per restare in sospeso su quel fascio di luce che è la sola meta
dove ora puoi arrivare. Senti un rumore di doccia, chissà se è acqua che
lava l’odore d’amore?
Ti chiedi quanta strada hai percorso senza
renderti conto, quali bassifondi del tuo cuore hai dovuto scandagliare per
ridurti in questo stato. Quali certezze sono dovute crollare come imperi
Romani distrutti dalla forza della vita e dalla convinzione che così deve
essere e mai potrebbe essere altro.
Le persone per bene non conoscono
questo posto, non saprebbero come arrivarci, finché una mattina presto col
pianto nel cuore ed il freddo nelle ossa ti ci trovi sdraiata senza che un
indizio ti faccia capire questa folle notte oramai alla fine.
Ma non
devi faticare, non devi sbattere le tette sul bancone della reception,
perché il destino l’ha già prenotata per te, l’ha già liberata dal pattume
umano che prima l’occupava. Ti chiedi dove sia finito, quale inceneritore
gli abbia dato ospitalità, perché non c’è altro fondo che si possa
immaginare, non c’è posto nel mondo dove scendere un altro gradino.
Ma il destino è stato benevolo t’ha fatto trovare una stanza, la meno
schifosa, un letto ed un lavandino dove anni di gocce l’hanno venato di
giallo. Ti abitui a contare i secondi facendo intercalare un mezzo respiro
per ogni numero contato fino alla prossima goccia che spacca il silenzio.
In questa stanza c’è solo un letto, nient’altro, nemmeno un comodino, una
poltrona, un quadro sul muro. Solo un letto con la spalliera di finto
legno rigato, lenzuola ammucchiate e una donna che si trascina. Non ci
sono sedie, non ci sono attaccapanni per appendere il tuo vestito che ora
non vedi. Chissà da quante ore non fascia il tuo corpo, chissà quante
mani viziose te l’hanno sfilato senza rendertene conto. La tua calza
sinistra s’è smagliata e non hai un cambio, piano prendi l’aspetto e
l’odore del degrado che ti circonda, come questa puzza di polvere che
oramai s’è impregnata fin sotto le gambe. T’illudi che ti protegga come se
portassi mutande, come se l’odore bastasse a sentirti difesa.
Senti
delle voci che sanno di delinquenza, dei rumori che sanno di
masturbazione, perché non c’è amore qui dentro, non ci può essere uno
straccio di sentimento laddove sei finita devastata nel cuore. Parlano una
lingua straniera, danno calci sui muri ogni volta che tenti di riposare, e
poi ancora voci, orientali, maschili che fanno paura persino di giorno.
Tutto ad un tratto ritorna il silenzio, una pioggia che ancora cade mentre
l’alba l’avvolge di paure che danzano sopra la testa. Poi ancora delle
voci, sembrano più vicine. Dietro la porta c’è gente che canta per
riempire questo silenzio che se solo bussasse non sarebbe più sola. Sarà
un giapponese finito per sbaglio dentro questa pensione o un inserviente
ai piani che ti porta champagne e una dozzina di rose, gialle che sanno
d’invidia e gelosia perché solo una donna potrebbe farsi del male
ammirando la tua bellezza, perché solo un uomo geloso potrebbe farti un
così gradito regalo.
Se non potessi più uscire? Se l’alba tra
poco non oltrepassasse il confine lungo i sentieri di luce dei tuoi occhi
che colano nero? Se di colpo non ti ricordassi chi sei, quale casa abitavi
e di quale marca di profumo odorava la tua pelle?
Senti solo un grosso
dolore dentro il petto che t’accompagna e ti dà fastidio come il fumo di
sigaretta quando hai smesso o il rumore di centrifuga della lavatrice nel
bagno. Hai fame, ma qui non ci sarà un ristorante, non ci sarà un posto
dove scambiarsi le miserie o parlare del rifiuto che senti. Perché
qualcuno t’avrà pure fatta sentire come ti senti! T’avrà pure messa su un
taxi e fatta precipitare per chilometri in discesa attraversando periferie
di sguardi malfamati fino a vedere la luna, beffarda ed accogliente, come
una puttana malata ed infetta, come una notte che ti sgrava senza doglie e
ti fa dubitare d’essere nata.
Perché qui ci si arriva solo di
notte. Hai fame e t’accorgi che la tua dignità passa attraverso un paio
di calze nuove e un pezzo di pane, la tua dignità è un drugstore stipato
di puttane che solo in quel posto ha un senso incontrare, ha un senso
desiderare. Trattieni il respiro e provi a zittire questo corpo che come
un vegetale non sente altro che fame, freddo e dolore. Non ha più memoria
perché non sapresti che fartene in questa stanza dove potresti scoprire
che erano in due, che erano cento e t’hanno montata proprio dove la
ragione s’avviluppa ai ricordi e perde energia diventando ossessione.
Qualcuno bussa alla porta, ma non apri, neanche una foto per
specchiarti, un assorbente per farti sentire più viva o uno spazzolino da
denti per ricordarti il tuo colore preferito. Chissà potrebbe essere il
portiere o qualcuno che ci ha ripensato e vorrebbe toccare di nuovo le tue
tette, e lisciarle perché mai ne ha viste di più belle, mai nei suoi anni
ha affogato naso e respiri dentro un cofanetto da regalo.
Bussano
ancora ma c’è troppa violenza perché tu sia desiderata, sarà sicuramente
qualche disperato di passaggio che vuole rifarsi gli occhi sulla tua pena,
sulla ricrescita dei capelli che ieri sera non avevi, sulle tue unghie
spezzate e scrostate di smalto proprio come questo muro che ad ogni colpo
perde pezzi di intonaco.
Bussano di nuovo, ma non sanno che sei
occupata, non sanno che senti un rumore di doccia. Chissà se è acqua che
lava l’odore d’amore? Chissà se invece pulisce per bene un sesso di
maschio prima dell’uso, prima che entri dentro la tua fessura a malapena
nascosta da rada peluria?
Ma perché sei nuda se ancora non t’ha
scopata? Nemmeno un paio di mutande! Fossi almeno incatenata come un
capretto prima di Pasqua! Sapresti dove vuole arrivare, sapresti cosa sta
pregustando sotto la doccia. Ma se esce ora dal bagno vede solo un essere
in penombra che striscia! Come puoi sfamarlo con quest’abbozzo di donna,
queste cosce insecchite dal freddo come rami d’inverno, così arcuate che
lasciano in mezzo un vuoto penoso, come se Dio l’avesse create per farle
riempire, per farti sentire ogni volta incompleta.
Puoi solo
sperare che abbia già appetito e che il tuo corpo sia soltanto un ricordo
di quando t’ha vista per strada. Perché se ora l’aspetti, da qualche parte
avrà posato i suoi occhi, magari mentre assorbivi estasiata un caldo
vapore di voce con indosso il tuo vestito con i fiori più freschi.
Nulla è certezza tranne che aspetti qualcuno che sta sotto la doccia, ma
non conosci il suo nome, il suo viso ti pare. Nulla è certezza tranne
questo folle desiderio nascosto che spartisci con chi t’avrà conosciuto
solo da qualche minuto, con chi tornerà anonimo appena scendi le scale.
Eri sensuale, di sicuro più bella di quanto ti vedi, sotto il vestito
portavi solo il tuo seno, sotto la mantella un discreto piacere che bagna
e s’asciuga secondo il verso del vento, sotto la pioggia questo maledetto
bisogno di sentirti saziata nei risvolti dell’anima fatti di carne.
Ricordi quando bambina t’eri messa a giocare: “Ad ogni macchina che passa,
un bacio sul collo, ad ogni bacio una parola d’amore.” E poi tutto è
diventato più serio, il tuo corpo più caldo: “Ad ogni faro che abbaglia
una carezza sul seno, ad ogni carezza un sospiro che scende, che apre le
gambe.”
Ora aspetti un qualcuno che sia diverso da tutti gli uomini
che t’hanno invitata a salire le scale. Tutti uguali con le facce diverse,
odori diversi, tatuaggi diversi, ma tutti coll’inconfondibile desiderio di
scopare se stessi. Sentirsi sovrani sopra una donna che montano e le fanno
l’amore con l’autocompiacimento d’essere forti, di sbattere pelle di
femmina contro qualsiasi stipite a portata di mano.
Ti fai forza
pensando a quando l’impeto scema e rimane poesia. Rimangono sospese parole
d’amore che ti dicono bella, le mani di colpo gentili che ti coprono il
seno, le labbra che ti danno vapore e t’inumidiscono il collo. Come ora,
in questo momento, dove ti pare di sentire il rimbombo di parole che pensi
d’amore, l’odore giallo di rose che ora non vedi, il tatto di una mano che
t’ha accarezzato per ore. Vivresti solo per questo momento, solo per
sentire le tue palpebre fragili pronte a traboccare emozione! Ma allora
t’ha scopata! Perché dunque ti sei svegliata col dubbio d’essere intatta?
Dove sarà finito il tuo vestito, perché la tua calza è smagliata? I tuoi
seni che fanno volare farfalle non sono per niente arrossati! Ma allora
perché sei nuda se non t’ha ancora scopata? Il rumore dell’acqua non
smette e tu non ricordi la faccia, non ne senti l’odore.
Non senti il
bruciore dentro quel vuoto che ti rende incompleta, dentro il tuo cuore
che spalanca le cosce per sentire poesia. Perché non esce dal bagno?
Perché continua a farsi la doccia e non esce, e ti prende nuda, prima che
l’alba ti ritrovi per strada a pensare perché diavolo sei finita in questo
buco di mondo.
Sarai più capace d'essere femmina normale? Di
sederti e coprire quei pochi centimetri di coscia quando sale la gonna?
D’offrire questo tesoro senza per questo sentirti chiamare puttana? Perché
non ti ci senti, perché non può essere puttana chi in ingresso dentro una
cassapanca, che dicono antica, fa muffa e ingiallisce un corredo da
vomito. Sorridi ripensando a tua madre che faceva prove di pianto, come se
fosse stato domani, come se avessi avuto un pretendente o una pancia da
nascondere a parenti e vicini.
Non puoi essere puttana se hai
incamerato come spugna tutta la disperazione che t’allevia la rabbia
lasciandoti dietro soltanto il dolore e la disillusione d’essere capace
d’innamorarti solo di te stessa.
Ti sei data consigli come se fossi
esperta di cuore, come se l’amore che avevi in mente fosse stato distante
da quelle mutande che stranamente porti soltanto una volta ad ogni luna
che nasce, che cresce e ti ricorda d’essere femmina come tutte le altre.
Ti chiedi se oltre quest’alba sarai capace di provare piacere come
adesso confondi il dolore dentro queste tette. Le guardi e sanno di
incuria, sanno di sesso a portata di mano che inutilmente copri cercando
un fragile e sconosciuto pudore. Sono trote di fiume, spigole di mare che
nude sopra un banco di pesce annaffi e addobbi con foglie di vite per
farle apparire più fresche. Le stringi perché siano più sode, le raccogli
dentro le mani per illuderti che sfameranno ancora una volta qualsiasi
bocca anche quando, a forma di pere, caleranno senza riguardo.
Perché
nulla ora serve degli anni che porti, degli uomini che stanotte ti
baciavano frantumandoti l'anima come se fosse una fica, come se delusi si
rendessero conto che non è altro che un buco, un misero squarcio che
nessuna bellezza potrà mai affinare.
Eppure queste scarpe che nuda
indossi trafiggono gli occhi di chiunque ne voglia sentire l’odore,
sgocciolano lingue e appannano gli occhi di tutti gli altri che
s’accontentano di vederli passare. Ti fanno sentire bella più di quando
scalza camminavi per casa e tuo padre ti urlava preoccupato perché ti
saresti raffreddata, ignorando i problemi che incontravi la notte quando
sopra di lui non riuscivi a respirare col naso.
Bussano
ancora. Perché dovresti aprire? Nessuno ti conosce in questo squallido
posto, nessuno ti chiama per nome o ti offre cortese un passaggio di
ritorno. Chissà per dove, chissà in quale altro posto al mondo potresti
addormentarti, magari accanto ad un uomo che sicuramente t’avrà coperta di
baci prima d’infilarsi nella doccia.
Ti chiedi davvero se sarai
all'altezza, se quest'alba che spiega possa ridarti la luce, che questa
paura che senti t'aggrovigli la faccia come dentro ad un sentiero tra la
tela di ragno. Chissà se stanotte hai provato davvero l’amore o
qualcosa d’informe che chiamano tale, ma hai paura che, se davvero lo
fosse, svanisca e t’illuda, che quando tutto sarà finito non ci saranno
più rose e gli occhi di un uomo qualunque non vedranno che ossa, che
pelle.
Ti chiedi davvero se sarai all’altezza, se dopo una notte
non siano rimasti che calli capaci solo d’accogliere sessi di vetro e non
sentirne il dolore. Davanti a questa luce che implacabile incombe vorresti
che qualcuno ti bendasse perché sia nero di nuovo, che sia di nuovo una
stella che brilla, che strilla in una notte a carponi riempita nel buio
dove qualcuno in attesa ci scriverebbe poesie. Perché di nulla saresti più
sicura! Dentro questa luna che sbiadita ti regola l’umore, dentro questa
notte che passa e questo cuore scarnito che ha confuso l’amore col sesso.
Come sei finita dentro questo posto? Perché continuano a bussare? Tra
poco s’aprirà quella porta e l’odore stagnante di polvere e terra
circolerà rinvigorito e più forte, sulla tua pelle, su queste mattonelle
che non vedi, ma al tatto non sono più sporche dei palmi delle tue mani.
Sei certa che s’apre e ti trancia la notte dal giorno, ieri da oggi e così
via fino a credere superati questi pensieri insolenti che ora sono tutto
il tuo avere. Ricomincerai daccapo cercando tra il groviglio il capo del
filo che ti vedeva altrove, lontano da questi ragni che ti camminano
addosso e ti fanno la tela. Ma il ricordo si fa sempre più flebile come la
tua voce che gridi e non senti, come questa pioggia che ora confondi con
lo scroscio dell’acqua che viene dal bagno.
Non hai più niente,
neanche una passata d’ombretto che ora sarebbe un tesoro, o che so io, una
lametta che faccia mostrare le tue gambe decenti a quest’uomo che a breve
spalancherà la porta del bagno.
Senti freddo, quel freddo di brividi
che ti coglie indifesa quando sei sola, e s’infila padrone nelle parti più
intime del corpo gelando cuore e polmoni. Sembra passata un’eternità da
questa notte e forse sarà trascorsa davvero, a giudicare dalle tante
domande a cui non dai risposta; non hai dato il minimo senso per pensarle
di nuovo. Quest’odore ti dà nausea, ma potrebbe essere qualsiasi odore,
magari di penicillina e d’infezione o uno dei tanti profumi sul davanzale
del bagno che custodivi gelosa e ne facevi collezione. Ma tutto è successo
senza rendertene conto e senza per questo pensare che non sia accaduto,
che vorresti avere solo le tue lenzuola sudate dall’ansia, che ora ti alzi
e vai in cucina a prepararti un caffè che ne hai tanto bisogno.
Ma
le senti davvero queste voci, quest’acqua che scoscia, come ti pare
d’udire un sibilo di vento simile a zanzare fastidiose di notte, come ti
pare la voce di un ragazzino che gioca sul pavimento all’ingresso. Ti
concentri e senti la voce distorta dell’altra te stessa, che di là in
cucina pulisce cicoria e s’affatica attorno a quei pomelli opachi della
sala da pranzo. La senti la voce, ora sempre più intensa, che grida perché
non può più accettare di sentirsi trascurata per ogni giorno che passa, di
sentirsi femmina solo perché porta una gonna ed ogni tanto si trucca occhi
e concetti perché non ha nient’altro da fare.
Senti quel pianto che,
come ora silente, ti bagna la faccia e segue remissivo le rughe del viso,
fino a posarsi negli angoli della bocca, fino a ridarti equilibrio e
coraggio di subire un altro giorno che nasce, a ridarti la forza per
distinguere questo rumori di doccia, di pioggia e di fiume come acqua che
lava e che scorre solo dentro te stessa.
Non hai paura di
stropicciarti la faccia, perché hai smesso di essere bella, hai smesso di
credere che ogni uomo che passa rallenti il suo passo per vederti ancora
un istante. Ti domandi quante amiche avevi prima di questa notte, quanti
compleanni hai saltato senza fare gli auguri, e quante colleghe ti stanno
cercando. Vorresti tanto sapere come passavi il tuo tempo, se per caso
avevi un lavoro o che cosa facevi alle sei di sera invece di guardare il
tramonto.
Vorresti tanto avere uno specchio, ti basterebbe un vetro
tagliato per rifletterti contro e immaginarti davanti ai tuoi tanti
cassetti a scegliere secondo il programma reggicalze e colore. Ma non hai
nulla, neanche una brocca dell’acqua, neanche un paio di forbicine per
rifarti le unghie e toglierti queste fastidiose pellicine che non ti fanno
dormire. E’ strano come la mente sia in grado di ricordare
perfettamente ogni merletto, ogni cappello risposto in armadio ed aver
cancellato tutto stasera, tutto ciò che, quando sei uscita di casa valeva
la pena di vivere. Ti sforzi di pensare ad un uomo, ad un figlio, una
casa. Se solo potessi vedere sul muro i contorni della tua ombra,
t’aiuterebbe a saltare questa notte e ritrovarti seduta mentre stringi con
le unghie il manico scomodo di una tazza bollente di tè.
Basterebbe
un minimo d’ombra per ridarti una faccia, un’altezza, un carattere e da lì
non ci vorrebbe che niente ricordare il motivo che t’ha relegata qui
dentro, inghiottita da questa oscurità dove i ragni continuano a farti la
tela. Ti chiedi perché non urli, perché non t’alzi e scappi da quella
porta e perché rimani paziente ad attendere chiunque t’accarezzi i
capelli, che si metta qui accanto e ti parli con un’aria che sa di
famiglia, come se l’avessi odorato da sempre, come se la forma della tua
faccia fosse adatta e perfetta alle carezze, alle mani che non stringono
nulla, ma rimangono leggere e sospese come se avessero timore di farti
dolore.
Ma lui è di là che si sta ancora lavando, lo senti, tra
poco uscirà con in mano un sorriso, la voglia d’amarti intensa quanto
l’amore che senti.
Questa notte saranno ore senza sogno, una di quelle
notti dove la luna ci mette del suo. Tra poco arriverà e ti inonderà di
gioia e senza parlare ti riempirà la bocca perché altro non potresti dire,
perché altro, ripiena in quel modo, non ti sarebbe consentito di fare. Ti
dirà amore e quello ti basta, senza mai domandargli perché dopo il gioco
tutto svanisce, e l’amore diventa pantaloni, scarpe che s’allacciano in
fretta e poi ascensore che scende. Tutto per questo banale bisogno che
qualcuno ti chiami per nome, che t’avvolga di pelle e ti faccia volare
dove ogni cosa è contrasto, dove il sogno s’avvera e continua perché
niente d’uguale incontra nemmeno per caso.
Semplicemente che ti chiami
amore quando apri la bocca! Perché è lì dentro che ne hai bisogno,
costruiresti ponti che attaccano isole, mete e continenti attraversandoli
senza la paura del mare che si fa oceano e burrasca, nausea e vomito.
Perché il mare ce l’hai dentro nel cuore, ed è, né calmo né piatto, ma
solo tempesta che travolge fegato e cervello fino a sciogliersi nel
ventre.
E se fossi una bella di giorno? Una delle tante che si
fanno riempire di ciò che non hanno, offrendo sfacciata piacere in quella
parte di femmina adatta a far nascere vita. Una di quelle che passano
notti dentro un albergo, ore viziose di asciugamani intatti e moquette
celeste per chiunque abbia voglia di starla a sentire. Di riempirla di
soddisfazione e stimoli con la sola sterile speranza d’essere trascinata
viva perché da nessuna parte del mondo ne ha trovati finora altrettanti.
Consuma sigarette e trucchi per il solo gusto d’avere un’altra vita,
un’altra faccia, perché quella che la guarda allo specchio non le
assomiglia per niente.
Chissà se ora stai sprecando soltanto
minuti, se quest’attesa che gonfi non avrà nemmeno uno spillo di uomo.
Tremi al solo pensiero che quest’oscurità non abbia una coda, ma non ti
penti, sicura che se oggi fosse ancora domani ti troveresti arrancata
sullo stesso percorso, perché l’amore che passa non ha odore che già
conosci, non ha il sapore smielato delle fantasie di notte.
Perché
l’amore che passa aleggia senza contorni nell’intimo represso e ogni
giorno ti lascia il gusto amaro di una possibile rinuncia. Sono grida
indecenti d’una sera d’autunno lungo quel fiume pieno di gente che ti
guarda e ti scruta, sicura che aspetti l’amore.
Perché l’amore che
passa, passa e non t’aspetta e lo guardi nel culo quando ormai è lontano e
ne assapori lo strascico che sa d’abbandono. Ha le mani sporche di grasso
che lasciano tracce indelebili sulla tua gonna di lino leggera, ha i
capelli di grano e gli occhi di mare che come fari t’illuminano i punti
più oscuri, ti denudano l’anima come fica che vorrebbero scopare.
L’amore che passa ha la voce di uomo che ti chiama volgare e ti piace
sentirtelo dire e t’offende e t’inquina fino a penetrarti nel cuore e in
qualsiasi parte che ostentavi pulita e te ne facevi vanto.
Perché
l’amore che passa ti manda affanculo e subito dopo ti bacia le scarpe e ti
lecca quel posto dove tu mai metteresti la lingua. E’ come uno sputo denso
di rabbia, è un uomo che picchia, una donna che graffia. L’amore che passa
porta con se una valigia di giochi, che t’inebria come occhi di bimbo
rapiti da un circo, ti rende leggera più di qualsiasi dieta e sospinta dal
vento ti scioglie i capelli lavati ogni giorno, senza che questo ti costi
fatica. Come obbedire quando non ne hai voglia, come saziarsi e sentirne
il possesso senza poterlo mangiare, l’amore che passa, passa e non
t’aspetta, non sta lì a pregarti di prenderlo al volo, a domandarti se
domani sarà un giorno migliore magari senza impegni.
Ti gonfia le
labbra e ti cambia la voce e ti fa dire parole che altre accompagnerebbero
con un segno di croce, ti trasforma in madre senza natura, irriconoscente
verso chiunque abbia contato qualcosa, che non conosce altre mani, che non
conosce altro sesso, che non conosce altra bocca da dove ti lasci
succhiare energia e buon senso e quel briciolo di dignità che ancora per
poco credi di avere. Sicuramente t’avranno preso con la forza, trascinata
qui sopra, ma non hai certezze, neanche uno sparuto ricordo; se stavi
tornando a casa, andando da un medico o, che so io, ai bordi di un fiume
dove cercavi la tua coscienza…
L’amore che passa è questa moquette
schiacciata a forma di donna, questo rumore di doccia che ancora non
smette. E’ l’attesa che gonfia la voglia d’amore, questo fiume impetuoso
che lava il dolore e ti fa ricordare per filo e per segno ogni tuo passo,
ogni piega dell’anima che hai incontrato stanotte fino a rivederti avvolta
nella luce d’un giorno normale, d’un sogno che a poco a poco s’è fatto
reale…….
Ora di nuovo silenzio, non senti più il rumore
dell’acqua, qualcuno entra senza bussare. È un uomo, decisamente un bel
signore elegante anche se è vestito di bianco e non è in accappatoio. Gli
chiedi perché mai indossa un camice anziché un vestito scuro e non so una
cravatta di seta che lasci intuire il suo rango. Lui sorride, ma non ti
risponde, porta con sé un ombrello a scacchi e un mazzo di rose gialle,
che poi non sono rose e nemmeno gialle. Ti chiedi se sia una visita di
cortesia o ci sia dell’altro, se di sfuggita ti abbia per caso intravisto
il sedere, ma sei certa che sia venuto per le tue cosce e per il tuo seno
abbondante.
Lui si siede sul bordo del letto, ha una faccia
apprensiva e ti chiede: “Signora come si sente?” Te lo chiede paziente
come se fossi malata! Poi parla, parla, dice che l’ombrello serve per
ripararti dai reati della tua mente e le rose per addolcire le ingiustizie
dei tuoi sogni. Sarà, ma parla lentamente, ha una voce calda e tu lo stai
ad ascoltare, anche se non vuoi che si faccia illusioni. Però poi lui
insiste, calmo ti aspetta, e allora gli dici che non sogni da tempo e che
non senti dolore dalle parti del cuore. Poi lo preghi di procurarti ago e
filo, perché pensi solo alla tua dignità, a questa calza smagliata che
prima o poi dovrai pure rammendare.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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RACCONTI DI ADAMO BENCIVENGA
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