Sei
tu acqua sorgiva che tutto m’asseta, tu vino
d’ottobre che rosso mi inebria, quando spalmi quel
limo di zucchero e mosto, di raspi che pigi, che
sgrondi e poi torchi, le mie cosce obbedienti che
aspettano l’oltre. Sei tu che mi stringi e sento il
profumo, i baci che al collo si perdono al seno, e
sento i respiri caldi come il mio miele, e sento le
mani illegali e bollenti, tra le gambe in cui sgorga
nettare denso, come quando m’abbracci, come ora che
mi spogli, e lasci che il fiato mi tremi nel petto.
Sei tu quel pane di grano, nutrito dal sole,
frutto maturo che placa ogni brama, l’esatto
contrario che sale e riempie, la parte che vuota
t’urla e reclama. Sei fertile seme che cullo nel
ventre, fiato che forma parole più sconce, che
distinguo dai brividi che a pelle mi sento, mentre
spandi, mi inondi e mi sazi la fica. Sei tu il mio
uomo ed io la tua piuma, che vola in un soffio, che
sale se chiami, e scende danzando fino a che la
catturi, e stretta nel pugno m’accovaccio e
m’illudo,
che non esistono altri nidi per
svernarci d’inverno, quando fuori fa freddo e tu ti
scaldi al tepore.
Ti sento figlio che allatto
e trastullo, ti godo amante fratello e padrone,
persa nei sensi di vite vissute, di uomini tanti che
m’hanno presa per bene, che m’hanno insegnato a
camminare di notte, ascoltando lo struscio dei miei
tacchi più alti, sentendo l’odore delle mie voglie
sospese, per il prossimo a turno che aspettava
paziente. Sono fatta di spine angosce e tormenti,
vuote parole che pioggia riempie, sono petali secchi
friabili ai venti, che un soffio li sparge e non
rimane che niente.
Chissà che diresti se mi
vedessi davvero, con un cappello da sera e guanti di
rete, che aspetto e raccolgo solo acqua piovana,
avanzi di mondo di semi infecondi. Perché sono fatta
di niente, di buchi di ventre, slargati da rami
senza gemme di pesco, nel silenzio per strada tra le
tenebre fitte. Sono fatta d’istinti di gatta in
calore, che miagolava ai tetti nel freddo di notte,
di canti d’uccelli aggrumati sui fili, che bramavano
bocche come scoli all’aperto.
Vieni vicino
il resto non conta, non serve all’amore il colore
degli occhi, quando spalanco le gambe per essere
foce, come mare che accoglie i detriti dei fiumi.
Perché tu sia il poeta d’ogni alba che accende,
perché tu sia la rima d’ogni impulso che coglie, a
cercare tra le righe un filo di sogno, perché io sia
la musa che ispira le voglie, e dipinge di rosso
l’emozione al tramonto.
Vieni ora ti prego e
lasciati andare, perché ti offrirò neve, muta
immacolata, la gioia del mio seno che vibra al tuo
sguardo, e baci ad occhi chiusi di pioggia come
perle, raccolte in quelle terre dove da anni non
piove. Creerò un regno nuovo in cui l’amore sarà
legge, dove sarò la tua regina e governerò sul tuo
destino, e ti lancerò dei sortilegi, incantesimi e
fatture, affinché tu possa amarmi e non possa farne
a meno, affinché io sia più bella e le altre senza
seno.
Saranno decotti e infusi, di code e di
rospi, latte d’asina bollente con un pizzico di
sale, e saranno parole magiche, bambole e spilloni,
un cucchiaio di vino bianco e una spruzzata di
limone. Mi farò piccola e leggera perché poi tu mi
riprenda, sarò la tua ombra e quella del tuo cane,
sarò il miagolio di una gatta in amore, i tuoi sogni
svaniti all’alba, i bisogni del mattino, la tua
rivincita di notte ed i sogni a occhi aperti.
Perché sei tu che mi fiacchi le gambe, sei tu
che mi tormenti il seno e mi nutri la fica, e mi
lasci sospesa a pensare che se non ci fossi, non
sarei bucata qui in mezzo, tra queste gambe che
slargo e cospargo, perché tu non possa trovare mai
attrito, perché l’amore che ora mi sfianca abbia la
forma di cui ho bisogno. Sei tu che mi spezzi il
respiro e mi stringi la gola, fino a zittirmi parole
che riduci a vapore, e mi rintani la voglia e mi fai
sentire regina, quando la mia bocca si schiude e tu
la riempi,
come un cannolo che mordo e trasborda
di crema.
È nuda e non la copro di nulla!
Perché non sia mai che io possa sbarrarti la strada,
dentro qualsiasi notte tu la sorprenda, dentro
qualsiasi posto ti salga la voglia, e muto la
prendi, la sazi, l'affami, la slabbri ed affondi
perché si convinca, che il possesso che cerca non si
chiede a parole. Ringrazio il Cielo per avermela
fatta più bella, di quell’altra rosa che cogli e ne
fai paragone, di quell’altra conchiglia dove poggi
l’orecchio, ed invano ne ascolti i flutti di mare.
Ti prego vieni e lasciati andare, ti prego vieni
non resistermi ancora, affinché io sia la culla che
capiente t’avvolga, tu sia il sole che rifletta il
tuo mare, nel chiarore dell’alba che flebile appare,
ed io ritrovi a reclamare per sempre, il tuo fuoco
che intenso mi brucia e mi scioglie, che invade e si
fonde con l’anima mia.
FINE