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RACCONTI D'AUTORE
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Una fermata di treno
Quante volte ho desiderato prendere un
treno, quante volte sono arrivata fino alla stazione con in mano
soltanto un ombrello e neanche una valigia o un cambio di mutande
per arrivare fino a domani…
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Photo Bernard
Delhalle
Quante volte ho desiderato
prendere un treno quando di fuori la pioggia gronda ed
inzuppa i muri di noia, quando alle dieci del mattino
accendi le luci di casa e ti domandi che forse sarebbe
stato meglio saltare un giro completo rimanendo a
dormire. Quante volte ho desiderato prepararmi
come se dovessi fare da testimone alle nozze della mia
amica migliore, solo perché avevo ricevuto un invito in
un albergo del centro, di questa piccola città sparsa
tra la nebbia, dove conosco tutti e non conosco nessuno.
Per accorgermi poi che volevano solo vendermi spazzole e
pentole con in omaggio una gita in pullman a far visita
ad un santo minore nato per sbaglio in un paese vicino.
Tante volte sono arrivata fino alla stazione con in
mano soltanto un ombrello, a ripararmi dalla folle
intenzione di prendere il primo treno qualunque, ma
sperando in cuor mio che qualcuno durante il tragitto
m’avesse distratta, che m’avesse fatto almeno sperare
che in questa città ogni tanto riflette un raggio di
sole, s’adagia uno spicchio di luce che di rado riscalda
i tetti delle case se proprio non riesce a scendere fino
a terra.
Ma poi nessuno mi ferma, nessuno che mi
faccia cambiare direzione per uno sguardo più intenso,
finché m’accosto ai binari tenendomi alla larga quel
tanto per non avere pensieri molesti. Vedo i treni
arrivare taglienti e veloci come se mi squarciassero in
due dal resto del mondo creando un risucchio di vuoto e
silenzio che poi è difficile riempire. Alle volte
ritorno sui miei passi perché la voglia di partire
s’affloscia prima d’arrivare, prima che un urlo di treno
mi faccia davvero tremare che è giunto il momento.
Allora cammino convinta che tanto non saluterò
nessuno perché nessuno che conosco percorrerà mai questo
viale di alberi e foglie che porta alla stazione. Hanno
fatto dei figli per non pensare più a se stessi, per
riempire gli stessi miei vuoti all’uscita di scuola o in
qualunque parco di giochi, per giustificare il tempo che
corre veloce ed è giunta già l’ora di cena. Ma io non ho
bimbi e non porto neanche una fede, porto solo un
cappello nero per sentirmi più bella, perché i miei
capelli lunghi escano lisci e più biondi dalle falde che
mi fanno ombra e mi coprono gli occhi.
Non
voglio confondermi con chi ora sta andando al mercato,
con chi a braccetto fa spese per riempire compleanni e
Natale. Porto solo il ricordo di averci provato a vivere
in gabbia turandomi il naso, che ora pago e m’illudo che
sia stato diverso da come m’appare, da come mi guarda
quando lo incontro con in braccio un bambino e un
tailleur di fianco, comprato nella stessa boutique dove
mi servo da anni. Lo incontro distante da questo viale,
da queste foglie dove porto a spasso la mia solitudine
che ogni tanto ha bisogno d’uscire, che come un cane
m’abbaia e gratta alla porta.
Alle volte mi
sorprendo a pensare che in questa città ci sono nata,
conosco a memoria ogni scritta sui muri, ogni ti amo
scolorito che grida ancora vendetta. Potrei attraversare
ad occhi chiusi questo viale perché conosco esattamente
i tempi di rosso e di verde di ogni semaforo. Ma quello
che non riesco ad accettare sono questi volti
sconosciuti, queste ombre anonime che incrocio, che mai
potranno farmi sentire d’essere preda appetitosa di
giorno quando ancora non è calata la notte. Rallento i
passi per farmi venire in mente una scusa credibile, per
domandarmi cosa diavolo mi sia dimenticata questa volta
per rinunciare a partire.
M’accorgo d’essere
senza valigia, nemmeno un cambio di mutande per arrivare
a domani, per poi rassegnarmi su questa panchina ed
aspettare che le insegne della stazione mi colorino il
viso di viola e di giallo. Perché coscientemente mi
basta l’illusione, il sapere che prima o poi andrò a
trovare la mia amica Silvia in montagna, che indosserò
un vestito a fiori o salirò davvero su un treno a caso
per cercare due occhi troppo identici ai miei.
Non cerco amore che duri una vita, perché da anni ho
smesso di crederci, ho smesso di farmi imbrogliare che
insieme ci si possa sentire meno soli. Non cerco
amicizie, perché non saprei cosa confidare d’un passato
che a me dà nausea soltanto a pensarci. Cerco soltanto
uomini slegati che chiedono quello che pensano senza che
il problema di chiedere sia più grande di quello che
vorrebbero. Cerco occhi folli che mi guardino fissa
senza paura d’essere indiscreti, che mi trasmettano
quella pazzia che non mi ha mai dato il coraggio di
lasciarmi andare o di prendere un treno per una sola
fermata perché le altre sarebbero inutili.
Non
li desidero belli! Vorrei soltanto due fari che
m’abbagliassero come le prostitute su questo viale di
notte e mi scrutassero come mani senza riguardi e senza
paura di farmi del male. Che non rimangano in superficie
ad accontentarsi della forma dei miei seni, ma che mi
scavino in fondo per sapere perché ora siano così dritti
e insolenti sotto questa maglietta che mi modella e
indecentemente deformo.
O forse in fondo lo sanno
che sto aspettando il mio treno, che non ci sarebbe
tempo per imbastire un incontro, che ad una donna così
bella non si può chiedere nulla direttamente, ma occorre
farle la corte ed impegnarsi per mesi e regalarle mazzi
di rose ed attendere ansiosi un risultato qualunque.
Perché una donna così sarà già impegnata a rintuzzare
gli assalti, a difendersi ogni giorno da attacchi
pressanti e che tra l’altro non può essere sola e quindi
bisognerebbe combattere col suo cuore e quello degli
altri.
Se invece sapessero che è tutta una farsa,
che non è il freddo, che non è l’aria umida che
indurisce i miei seni, che questa bellezza sta sfiorendo
ogni giorno che passa e le mie gambe hanno fatto dei
muscoli sodi per camminare frenetiche fino a questa
panchina. Se solo sapessero che queste caviglie gonfie
nascondono un vuoto nel cuore, che basterebbe soltanto
un sorriso per squagliarmi d’amore, che non rifiuterei
uno sguardo fisso sul punto dove provo piacere, per poi
invitarmi senza tanti giri di parole dentro la stanza di
una misera pensione, con un letto rifatto alla buona,
illuminato dal viola d’una squallida insegna.
Se
solo non chiedessero il mio nome, se solo sapessero che
non ho bisogno di promesse, ma solo di due occhi gonfi
di desiderio che mi guardino senza abbassare le palpebre
per tutto il tempo che consuma la voglia. Se solo non
vedessero in fondo ai miei baci un fine diverso, ma
capissero davvero cosa vado cercando, che non c’è altro
che quello che vedono, dove in fondo alla voglia c’è
solo altra voglia senza per questo impegnarsi per mesi e
per anni o tirare fuori dei soldi nel momento sbagliato.
Ma sono sicura che niente di questo troverò su
questi volti grigi quanto questi portoni, perché non ci
sarebbe evasione, perché sarei costretta a fare l’amore
con la loro noia e la loro sconfitta. Ed io non ho più
voglia, più forze per sobbarcarmi i pesi degli altri, le
ipocrisie di vivere fotocopie di giorni. Sapessero
invece che non cerco promesse, che non cerco parole, che
non mi serve né un tetto né due spalle che mi proteggano
quando rincaso la sera.
Cerco solo quel treno,
qualsiasi treno perché la prima domanda è dove si scende
e seppure riuscissero a guardarmi le gambe non ne
conoscerebbero la voglia e la storia. Sono sicura che
mai e poi mai ne vorrebbero sapere il futuro perché
tanto da qualche parte si scende, prima che cali la
notte, prima che qualcuno fissi un prezzo ai miei seni e
mi domandi sorpreso come faccio a svendere carne bianca
allo stesso prezzo di quella di colore! In questa città
dove anche la nebbia sa di razzismo invece li offro per
una singola fermata, perché oltre diverrebbero solo due
palle di carne ingombrante, due buste di latte per
bocche di bimbi affamati!
Solo una fermata di
treno! Dove non abbiano il tempo d’impoverire l’amore
con il desiderio di vivermi accanto scambiandoci gli
umori del sesso che prima o poi diverrebbero
insopportabili odori. Non chiedo che una fermata di
treno per poi scendere prima che i miei occhi verde
bosco possano prendere il colore di fango e detriti,
prima che il sapore delle mie parole diventi
chiacchiericcio noioso. Voglio vedermi specchiare nelle
pupille allargate, riempirle sature del solo mio corpo
senza che rimanga neanche un piccolo foro per distrarsi,
per girarsi verso il primo sedere che passa per strada.
Soltanto una fermata! Una passione improvvisa
che t’avvolge di tanti piccoli rimpianti nonostante non
sia ancora un ricordo, che sa di pentimento per non
avermi afferrato il vestito a fiori mentre scendevo dal
treno o per aver osato oltre il lecito senso d’ogni
pudore che ti sazia d’amore, ma ti lascia uno strascico
di mille domande in quella mente confusa che ancora non
s’è resa conto di cosa sia successo.
Scenderei
contenta ricordando per caso il suo volto, per caso
quelle mani frenetiche che dopo giorni ancora
infilerebbe nel naso per sentire l’odore di sesso e
detersivo delle mie mutande di pizzo, del mio reggiseno
incollato nei ricordi delle sue labbra che invano
tentavano di farsi strada da sole. Mi chiamerebbe tutte
le notti finché la memoria le dia forza di avere
ricordi, di rischiarare quell’unica immagine che gli ha
riempito una vita.
Con la certezza che per
giorni e giorni salirebbe alla stessa ora su quel treno,
occupando lo stesso identico posto e sperando in cuor
suo di rivedere una donna con in testa un cappello, di
rivederla identica e bella, esattamente uguale al
ricordo con gli stessi capelli che lisci uscivano lunghi
e più biondi esattamente la stessa donna ora seduta alla
stazione che aspetta di prendere il treno solo per una
fermata.
FINE
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Il racconto è frutto di fantasia. Ogni riferimento a
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