Quante volte ho desiderato prendere un treno quando di fuori la
pioggia gronda ed inzuppa i muri di noia, quando alle dieci del mattino
accendi le luci di casa e ti domandi che forse sarebbe stato meglio
saltare un giro completo rimanendo a dormire.
Quante volte ho
desiderato prepararmi come se dovessi fare da testimone alle nozze della
mia amica migliore, solo perché avevo ricevuto un invito in un albergo del
centro, di questa piccola città sparsa tra la nebbia, dove conosco tutti e
non conosco nessuno. Per accorgermi poi che volevano solo vendermi
spazzole e pentole con in omaggio una gita in pullman a far visita ad un
santo minore nato per sbaglio in un paese vicino.
Tante volte sono
arrivata fino alla stazione con in mano soltanto un ombrello, a ripararmi
dalla folle intenzione di prendere il primo treno qualunque, ma sperando
in cuor mio che qualcuno m’avesse distratta, che m’avesse fatto almeno
sperare che in questa città ogni tanto riflette un raggio di sole,
s’adagia uno spicchio di luce che di rado riscalda i tetti delle case se
proprio non riesce a scendere fino a terra.
Ma poi nessuno mi
ferma, nessuno che mi faccia cambiare direzione per uno sguardo più
intenso, finché m’accosto ai binari tenendomi alla larga quel tanto per
non avere pensieri molesti. Vedo i treni arrivare taglienti e veloci come
se mi squarciassero in due dal resto del mondo creando un risucchio di
vuoto e silenzio che poi è difficile riempire. Alle volte ritorno sui miei
passi perché la voglia di partire s’affloscia prima d’arrivare, prima che
un urlo di treno mi faccia davvero tremare che è giunto il momento.
Allora cammino convinta che tanto non saluterò nessuno perché nessuno
che conosco percorrerà mai questo viale di alberi e foglie che porta alla
stazione. Hanno fatto dei figli per non pensare più a se stessi, per
riempire gli stessi miei vuoti all’uscita di scuola o in qualunque parco
di giochi, per giustificare il tempo che corre veloce ed è giunta già
l’ora di cena. Ma io non ho bimbi e non porto neanche una fede, porto solo
un cappello nero per sentirmi più bella, perché i miei capelli lunghi
escano lisci e più biondi dalle falde che mi fanno ombra e mi coprono gli
occhi.
Non voglio confondermi con chi ora sta andando al mercato,
con chi a braccetto fa spese per riempire compleanni e Natale. Porto solo
il ricordo di averci provato a vivere in gabbia turandomi il naso, che ora
pago e m’illudo che sia stato diverso da come m’appare, da come mi guarda
quando lo incontro con in braccio un bambino e un tailleur di fianco,
comprato nella stessa boutique dove mi servo da anni. Lo incontro distante
da questo viale, da queste foglie dove porto a spasso la mia solitudine
che ogni tanto ha bisogno d’uscire, che come un cane m’abbaia e gratta
alla porta.
Alle volte mi sorprendo a pensare che in questa città
ci sono nata, conosco a memoria ogni scritta sui muri, ogni ti amo
scolorito che grida ancora vendetta. Potrei attraversare ad occhi chiusi
questo viale perché conosco esattamente i tempi di rosso e di verde di
ogni semaforo. Ma quello che non riesco ad accettare sono questi volti
sconosciuti, queste ombre anonime che incrocio, che mai mi potranno farmi
sentire d’essere preda appetitosa di giorno quando ancora non è calata la
notte. Rallento i passi per farmi venire in mente una scusa credibile, per
domandarmi cosa diavolo mi sia dimenticata questa volta per rinunciare a
partire.
M’accorgo d’essere senza valigia, nemmeno un cambio di
mutande per arrivare a domani, per poi rassegnarmi su questa panchina ed
aspettare che le insegne della stazione mi colorino il viso di viola.
Perché coscientemente mi basta l’illusione, il sapere che prima o poi
andrò a trovare la mia amica Silvia in montagna, che indosserò un vestito
di fiori o salirò davvero su un treno a caso per cercare due occhi troppo
identici ai miei.
Non cerco amore che duri una vita, perché da anni
ho smesso di crederci, ho smesso di farmi imbrogliare che insieme ci si
possa sentire meno soli. Non cerco amicizie, perché non saprei cosa
confidare d’un passato che a me dà nausea soltanto a pensarci. Cerco
soltanto uomini slegati che chiedono quello che pensano senza che il
problema di chiedere sia più grande di quello che vorrebbero. Cerco occhi
folli che mi guardino fissa senza paura d’essere indiscreti, che mi
trasmettano quella pazzia che non mi ha mai dato il coraggio di lasciarmi
andare o di prendere un treno per una sola fermata perché le altre
sarebbero inutili.
Non li desidero belli! Vorrei soltanto due fari
che m’abbagliassero come le prostitute su questo viale di notte e mi
scrutassero come mani senza riguardi e senza paura di farmi del male. Che
non rimangano in superficie ad accontentarsi della forma dei miei seni, ma
che mi scavino infondo per sapere perché ora siano così dritti e insolenti
sotto questa maglietta che mi modella e indecentemente deformo.
O
forse in fondo lo sanno che sto aspettando il mio treno, che non ci
sarebbe tempo per imbastire un incontro, che ad una donna così bella non
si può chiedere nulla direttamente, ma occorre farle la corte ed
impegnarsi per mesi e regalarle mazzi di rose ed attendere ansiosi un
risultato qualunque. Perché una donna così sarà già impegnata a rintuzzare
gli assalti, a difendersi ogni giorno da attacchi pressanti e che tra
l’altro non può essere sola e quindi bisognerebbe combattere col suo cuore
e quello degli altri.
Se invece sapessero che è tutta una farsa,
che non è il freddo, che non è l’aria umida che indurisce i miei seni, che
questa bellezza sta sfiorendo ogni giorno che passa e le mie gambe hanno
fatto dei muscoli sodi per camminare frenetiche fino a questa panchina. Se
solo sapessero che queste caviglie gonfie nascondono un vuoto nel cuore,
che basterebbe soltanto un sorriso per squagliarmi d’amore, che non
rifiuterei uno sguardo fisso sul punto dove provo piacere, per poi
invitarmi senza tanti giri di parole dentro la stanza di una misera
pensione, con un letto rifatto alla buona, illuminato dal viola d’una
squallida insegna.
Se solo non chiedessero il mio nome, se solo
sapessero che non ho bisogno di promesse, ma solo di due occhi gonfi di
desiderio che mi guardino senza abbassare le palpebre per tutto il tempo
che consuma la voglia. Se solo non vedessero in fondo ai miei baci un fine
diverso, ma capissero davvero cosa vado cercando, che non c’è altro che
quello che vedono, dove in fondo alla voglia c’è solo altra voglia senza
per questo impegnarsi per mesi e per anni o tirare fuori dei soldi nel
momento sbagliato.
Ma sono sicura che niente di questo troverò su
questi volti grigi quanto questi portoni, perché non ci sarebbe evasione,
perché sarei costretta a fare l’amore con la loro noia e la loro
sconfitta. Ed io non ho più voglia, più forze per sobbarcarmi i pesi degli
altri, le ipocrisie di vivere fotocopie di giorni. Sapessero invece che
non cerco promesse, che non cerco parole, che non mi serve né un tetto né
due spalle che mi proteggano quando rincaso la sera.
Cerco solo
quel treno, qualsiasi treno perché la prima domanda è dove si scende e
seppure riuscissero a guardarmi le gambe non ne conoscerebbero la voglia e
la storia. Sono sicura che mai e poi mai ne vorrebbero sapere il futuro
perché tanto da qualche parte si scende, prima che cali la notte, prima
che qualcuno fissi un prezzo ai miei seni e mi domandi sorpreso come
faccio a svendere carne bianca allo stesso prezzo di quella di colore! In
questa città dove anche la nebbia sa di razzismo invece li offro per una
singola fermata, perché oltre diverrebbero solo due palle di carne
ingombrante, due buste di latte per bocche di bimbi affamati!
Solo
una fermata di treno! Dove non abbiano il tempo d’impoverire l’amore con
il desiderio di vivermi accanto scambiandoci gli umori del sesso che prima
o poi diverrebbero insopportabili odori. Non chiedo che una fermata di
treno per poi scendere prima che i miei occhi verde bosco possano prendere
il colore di fango e detriti, prima che il sapore delle mie parole diventi
chiacchiericcio noioso. Voglio vedermi specchiare nelle pupille allargate,
riempirle sature del solo mio corpo senza che rimanga neanche un piccolo
foro per distrarsi, per girarsi verso il primo sedere che passa per
strada.
Soltanto una fermata! Una passione improvvisa che
t’avvolge di tanti piccoli rimpianti nonostante non sia ancora un ricordo,
che sa di pentimento per non avermi afferrato il vestito di fiori mentre
scendevo dal treno o per aver osato oltre il lecito senso d’ogni pudore
che ti sazia d’amore, ma ti lascia uno strascico di mille domande in
quella mente confusa che ancora non s’è resa conto di cosa sia successo.
Scenderei contenta ricordando per caso il suo volto, per caso quelle
mani frenetiche che dopo giorni ancora infilerebbe nel naso per sentire
l’odore di sesso e detersivo delle mie mutande di pizzo, del mio reggiseno
incollato nei ricordi delle sue labbra che invano tentavano di farsi
strada da sole. Mi chiamerebbe tutte le notti finché la memoria le dia
forza di avere ricordi, di rischiarare quell’unica immagine che gli ha
riempito una vita.
Con la certezza che per giorni e giorni
salirebbe alla stessa ora su quel treno, occupando lo stesso identico
posto e sperando in cuor suo di rivedere una donna con in testa un
cappello, di rivederla identica e bella, esattamente uguale al ricordo con
gli stessi capelli che lisci uscivano lunghi e più biondi esattamente la
stessa donna ora seduta alla stazione che aspetta di prendere il treno
solo per una fermata.
FINE