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REPORTAGE



Bogotà Colombia
Le vie infinite del sesso
Tra sporcizia, topi, prostitute e l'amore dentro una falegnameria al prezzo di tre birre!
 


 
 


 
Santiago è un taxista sulla quarantina, cresciuto in strada nel quartiere di Ciudad Bolivar, conosce tutti e conosce la città come le sue tasche. Lungo le strade di questo quartiere, cuore del narcotraffico e della malavita, a farla da padrone è la sporcizia, i topi, i piccoli spacciatori e le immancabili puttane ragazzine lungo la strada principale. Questo Bronx colombiano è il vero problema della città e le autorità locali hanno fallito ogni volta che hanno tentato di estirparlo. Qui si parla solo lo spagnolo, nessuno conosce l’inglese ed i tassisti sono delle vere guide a disposizione per 24 ore al prezzo di 80.000 pesos poco meno di venti dollari.

Santiago mi fa da guida, lui conosce ogni angolo di Bogotà, compresi ristoranti, discoteche, bordelli e qualsiasi locale notturno dove svagarsi. Le colombiane, mi dice, sono belle, dolci, ma anche false, lunatiche e viziate. Sono intelligenti, indipendenti, ma anche gelose e molto possessive. Vivono con estrema passionalità le loro relazioni arrivando addirittura allo stalking a livelli esasperati. Sono capaci di ingaggiare un investigatore professionale per conoscere notizie sul proprio amato e perseguitarlo con messaggi, chiamate, scenate senza alcuno scrupolo. Si innamorano perdutamente anche dopo un solo bacio, ma guai a lasciarle! Diventano cattive e vendicative! Amate o odiate non conoscono mezze misure ed è per questo che qui a Bogotà l’80% di loro è madre single che si fa carico di tutta la famiglia, spesso con più figli. Molte lavorano per un salario minimo da fame. Altre invece scelgono la strada della prostituzione.

La prostituzione in Colombia è legale, regolamentata e limitata ai bordelli nelle "zone di tolleranza". Le lavoratrici del sesso sono tenute a sottoporsi a regolari controlli sanitari. Tuttavia, le leggi vengono applicate raramente e la prostituzione è diffusa a causa della povertà dilagante. A livello nazionale, le reti della criminalità sono responsabili della tratta di esseri umani per la schiavitù sessuale e il conflitto armato ha reso vulnerabile un gran numero di famiglie rurali favorendo così lo spostamento in centri urbani e di conseguenza la prostituzione minorile e lo sfruttamento sessuale in genere. La Colombia è anche una destinazione per turisti stranieri che praticano il sesso con minori.

In questa megalopoli da 9 milioni di abitanti non ci sono né treni, né metropolitane, ma solo autobus affollatissimi. Santiago mi dice che i soldi pubblici servono per difendersi dai trafficanti, dai guerriglieri e dalla criminalità organizzata per cui servono in prima battuta a pagare gli stipendi dei soldati e dei poliziotti appostati a ogni angolo di strada. Per il welfare ossia trasporti, ospedali e scuole non rimane nulla e la gente si arrangia come può.

Siamo in Plaza Bolívar e Santiago mi indica il centro storico della città, La Candelaria, ma anche qui lo scenario non cambia, ai bordi delle strade sostano e vagano centinaia di zombie, ex cocainomani ridotti a sniffare colla perché non possono più permettersi la pur economica coca locale. Si distinguono dai barboni perché parlano da soli davanti ai portoni di alberghi e ostelli, ministeri e giardini pubblici. Qui la droga è semi legale, si trova ovunque ad un prezzo al grammo di appena tre dollari ed è possibile consumarla nei coffee shop dove si può fumare liberamente marjuana e comprare tè con foglie di coca. È così tollerata mi dice Santiago che anche i cani antidroga sono addestrati e tolleranti con le piccole quantità.

Ovviamente la città pullula di bordelli più o meno camuffati da alberghi dove con una piccola aggiunta, circa 2 dollari, è possibile appartarsi con trans e ragazzine. Il prezzo della prestazione varia fino a 25mila pesos ossia 6 dollari. Tra questi vicoli la prostituzione è di casa, è il pane quotidiano di migliaia di ragazze perché qui la prostituzione è sinonimo di fame e le puttane sono ovunque, non c’è via o piazza che non odori di sesso, sparse tra le bancarelle delle fritangueras, vicino alle pompe di benzina, nei centri massaggi, in piedi appoggiate alle vetrine di lavanderie, bar, frutterie e in ogni posto dove è possibile contrattare una prestazione. Santiago mi accompagna in questo tour sui generis, ma poi rimane in disparte.

Una ragazzina con una gonna cortissima argentata e un top di rete senza reggiseno, fuma e mi sorride, facendo in modo che apprezzi la sua merce, un’altra mi fa segno con la mano che sono cinque dollari indicandomi tutte le sue parti accessibili. Rifiuto e vado avanti, mi guardo intorno e noto che hanno tutte la faccia da adolescenti. Santiago mi aveva avvertito: “Qui non esistono puttane sopra ai trent’anni!”

Alla fine per evitare altri spiacevoli incontri mi fermo davanti ad una falegnameria. Il falegname cortese mi invita con ampi gesti ad entrare nel locale dove sta lavorando. Indicandomi una scala di legno a chiocciola mi dice: "En el segundo piso puedes tomar una cervezita". Lo guardo incredulo, mai avrei pensato che dentro una falegnameria si potesse consumare una birra in pace. Ma non è così!

Come nella Roma del Settecento i laboratori e i negozi servono anche ad altro e infatti, salite le scale, mi trovo di fronte uno stanzone con dei divani più o meno traballanti. Sedute ci sono tre ragazze. Sono molto belle, more e sensuali. Tutte e tre sfoggiano dei grandi orecchini, grandi seni e labbra di un rosso intenso. La prima appena mi vede mi offre una birra e mi dice di accomodarmi sul divano, la più anziana scopre le gambe mentre la terza inizia ad allungare le mani. Non so cosa fare. Dico che voglio gustarmi solo la mia birra in pace, ma loro insistono: “Relájate extraño, te hacemos sentir bien.” Poi, data la mia riluttanza, parlottano tra loro e subito dopo due di loro, le più giovani, si allontanano scendendo le scale sui tacchi rumorosi.

La donna che è rimasta seduta mi invita a sedermi accanto a lei e la vedo che ha voglia di parlare. Mi dice di chiamarsi Susana, che ha tre figli e due suoceri da sfamare. Suo marito è il titolare di quella falegnameria, ma guadagna molto poco per cui lei lo aiuta e arrotonda gli incassi lavorando solo di mattina quando i suoi figli sono a scuola. La guardo, è bella, ha due occhi grandi di noce, la pelle morbida. Mi sembra incredibile che si offra in questo modo. Mi dice di toccarla per rendermene conto. Lo faccio accarezzandole il viso e lei ride indicandomi il seno e poi le cosce. Mi dice che posso averla al costo di tre sole birre. Le dico che per principio non faccio l’amore a pagamento. Lei mi guarda: “¡No te preocupes, no me pagas, solo las cervezas!” (Tranquillo, non paghi me, ma solo le birre!). Lei mi invita a guardarla ed io cerco di dissuaderla, le chiedo se non prova imbarazzo con suo marito al piano di sotto. Mi risponde: “Para él es importante alimentar a nuestros hijos” (Per lui è importante sfamare i nostri figli).

È dolce e sincera, mi rendo conto quanto in quella condizione di miseria e disperazione tutto diventa lecito, anche vendere la propria moglie, anche offrire l’amore completo per tre birre. Le accarezzo ancora il viso, ma lei, se non avessi ancora capito, mi afferra la mano e la poggia sul seno: "Te gusta, ¿verdad?". Non posso dire di no, so che la offenderei, per cui lascio la mano senza fare resistenza e lei la prende e tramite la mia stringe il suo seno. Poi prende un dito e inizia a succhiare. Faccio resistenza e lei si accorge del mio imbarazzo: “No te preocupes, hago de todo, soy bueno con la boca y solo tienes que cerrar los ojos.” (Tranquillo, faccio tutto io, sono brava con la bocca e tu devi solo chiudere gli occhi).

Con un gesto lento si slaccia un bottone della camicetta leggera che indossa, lasciando che il tessuto scivoli appena. È un gesto naturale per lei, quasi meccanico, ma allo stesso tempo c’è una vulnerabilità nei suoi occhi che mi colpisce. “Mira,” dice con voce bassa, quasi un sussurro, “non devi avere paura. Sono qui per farti stare bene.” Il suo tono è invitante, caldo, ma non privo di una certa stanchezza, come se avesse ripetuto quelle parole centinaia di volte.

La sua bellezza è innegabile, il seno pieno, la pelle liscia che contrasta con il rosso intenso delle sue labbra, e quei grandi orecchini che oscillano mentre si muove. Sta cercando di farmi abbandonare ogni resistenza. “Relájate, extraño,” continua, inclinandosi leggermente verso di me, il suo profumo dolce e speziato mi avvolge. “Te hago sentir bien. Solo chiudi gli occhi e lasciati andare.” La sua mano si avvicina alla mia, sfiorandola con una delicatezza che sembra in contrasto con la situazione. Poi, con un movimento fluido, prende la mia mano e la guida verso il suo piacere, invitandomi a toccarla. “Te gusta, ¿verdad?” chiede, con un sorriso che è allo stesso tempo seducente e triste.

Sento il calore della sua pelle sotto le mie dita, e per un momento sono sopraffatto dalla tentazione. La sua voce, il suo sguardo, il modo in cui si offre senza remore: tutto sembra studiato per abbattere le mie difese. Ma è solo un attimo di sbandamento, la guardo e mi ritraggo leggermente, cercando di mantenere almeno la distanza mentale senza ferirla. La situazione è surreale, e il contrasto tra la dolcezza nei suoi occhi e la cruda realtà di ciò che mi sta offrendo mi colpisce profondamente. “Susana,” le dico in spagnolo con un tono calmo, “sei una donna bellissima, e capisco quanto sia difficile la tua situazione. Ma non è quello che cerco. Voglio solo parlare, conoscere la tua storia. Mi interessa di più chi sei tu, non quello che puoi fare per me.”

Lei mi guarda per un momento, sorpresa, come se non fosse abituata a un rifiuto del genere, o forse a qualcuno che mostri un interesse genuino per la sua vita.
Copre il seno con un gesto rapido, quasi imbarazzato, e si siede più dritta, come se stesse cercando di capire se ho detto la verità o se sto solo giocando con lei. “Non vuoi?” chiede, con un tono che tradisce un misto di incredulità e sollievo. Poi, con un sorriso malinconico, si sistema la gonna stringendo la birra tra le mani. “Non capita spesso che qualcuno voglia solo parlare,” dice in uno spagnolo elementare, ma con una voce che tradisce un misto di sollievo e diffidenza. “Di solito gli uomini vengono qui per… beh, lo sai.”

“Non è che non voglio te,” spiego, cercando le parole giuste. “È che non voglio approfittare di te. So che lo fai per necessità, e non mi sembra giusto. Voglio conoscerti, parlare con te, capire chi sei. Non voglio che tu ti senta obbligata a fare qualcosa che magari non vuoi davvero.”
Susana mi fissa per un lungo momento, e poi, lentamente sorride ma non è più il sorriso seducente di prima. “Sei strano, sai? Ma mi piaci. Nessuno mai mi parli così, neanche mio marito.” Stringe la birra tra le mani ed io ne approfitto: “Raccontami di te, Susana. Come sei arrivata a questo punto? Com’è la tua vita fuori da qui?” E così, in quel momento, la tensione si scioglie, e iniziamo a parlare davvero, lasciando che le parole riempiano lo spazio che prima era occupato da un’offerta che non potevo accettare.

Il suo sguardo si perde per un attimo nel vuoto, come se stesse rivivendo anni di difficoltà. “Non è sempre stato così,” inizia. “Sono cresciuta in un piccolo villaggio vicino a Medellín. Mio padre era un contadino, mia madre cuciva vestiti per i vicini. Eravamo poveri, ma felici. Poi, a quindici anni, mio padre è morto in un incidente di lavoro, e mia madre non ce l’ha fatta a tirare avanti da sola. Sono venuta a Bogotà con la speranza di trovare lavoro, magari come cameriera in un ristorante o come domestica. Ma non è andata come pensavo.”

Fa una pausa, bevendo un sorso di birra. “Ho conosciuto mio marito, Carlos, poco dopo. Lui era gentile, lavorava sodo nella sua falegnameria. Ci siamo sposati giovani, e abbiamo avuto i nostri figli. Ma la vita qui è dura. I clienti di Carlos sono pochi, e spesso non pagano. I bambini hanno bisogno di cibo, vestiti, medicine… e io non potevo stare a guardare mentre loro avevano fame.”

Le sue parole sono pesanti, cariche di una rassegnazione che mi fa male al cuore. “E così hai iniziato a… lavorare qui?” chiedo, cercando di essere delicato.
“Sì,” risponde, senza guardarmi negli occhi. “All’inizio era solo qualche volta, quando le cose si mettevano davvero male. Carlos non voleva, ma alla fine ha capito che non avevamo altra scelta. Dice che è solo temporaneo, che un giorno le cose andranno meglio. Ma sono anni che lo dice, e io non ci credo più.”

C’è un silenzio tra noi, interrotto solo dal rumore del legno al piano di sotto. Mi rendo conto di quanto sia profonda la disperazione che l’ha portata a questo punto, e di quanto sia normale, in un posto come questo, che la sopravvivenza prenda il sopravvento su tutto il resto.
“Susana,” le dico, “hai mai pensato di fare qualcos’altro? Qualcosa che non ti faccia sentire così… usata?”
Lei ride, ma è una risata amara. “E cosa potrei fare? Non ho studiato, non ho competenze. Qui a Bogotà, se non hai un’istruzione o conoscenze, le opzioni sono poche. O fai la cameriera per una miseria, o finisci in strada. Almeno qui, con Carlos, ho un tetto sopra la testa e posso controllare chi entra e chi esce.”

Le sue parole mi colpiscono come un pugno. La realtà che descrive è cruda, senza filtri, e mi fa riflettere su quanto sia facile giudicare dall’esterno senza capire le circostanze che spingono una persona a certe scelte. “E i tuoi figli?” chiedo. “Sanno qualcosa di quello che fai?”
“No,” risponde con fermezza, e per la prima volta vedo una scintilla di determinazione nei suoi occhi. “Loro non devono sapere. Vanno a scuola, studiano, e io faccio tutto il possibile perché abbiano una vita migliore della mia. Voglio che abbiano un futuro, che non finiscano come me. È per questo che lo faccio. Ogni peso che guadagno va a loro.”

La sua voce si incrina leggermente, e capisco che, nonostante tutto, Susana è una madre che farebbe qualsiasi cosa per i suoi figli. Mi alzo dal divano, sentendo il bisogno di fare qualcosa, anche se non so bene cosa.
Lei mi guarda, e per un momento sembra che stia per piangere. Ma poi si ricompone, sorridendo debolmente. “Sei gentile, straniero. Ma non puoi fare nulla. Qui le cose funzionano in un certo modo, e non è facile uscirne. Però… grazie. È bello sapere che qualcuno si preoccupa.”

A quel punto finisco la mia birra e faccio per andare. Lei è delusa, ma sollevata mi dice: “Fammi un favore straniero, non dire a mio marito che non abbiamo fatto nulla. Lui penserebbe che non sono stata brava…” Poi aggiunge: “Gracias señor.” La saluto abbracciandola, promettendole che pagherò lo stesso le tre birre e suo marito non saprà mai cosa veramente sia successo sopra la sua testa.

Scendo le scale, Carlos mi saluta con un cenno, come se nulla fosse. Mi chiede se ho gradito le birre. Gli rispondo che sono state ottime, poi pago il dovuto e salutandolo non mi resta che uscire ed affrontare il caldo afoso di Bogotà. Santiago che mi aveva seguito ed aspettato fuori dalla falegnameria appena mi vede si lascia andare ad una fragorosa risata.

Ci incamminiamo verso Plaza Bolívar, ma non riesco a togliermi dalla mente il sorriso triste di Susana e la sua storia. Mi chiedo quante altre donne, in questa città e altrove, vivano una vita simile, intrappolate in un ciclo di povertà e disperazione, costrette a vendere non solo il loro corpo, ma anche la loro anima, per sopravvivere.







ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
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FONTI
https://incolombia.it/la-donna-colombiana/
https://en.wikipedia.org/wiki/
https://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/



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