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Adamo Bencivenga
La discreta
piacevolezza di una serata inutile
Photo Tatyana Nevmerzhytska
Lunedì, ore 18,30. Mi
aveva scritto: “Stasera vengo da te. Mi offri la
cena?” Per me fu un fulmine a ciel sereno, mai me lo
sarei aspettato che la collega della stanza accanto,
quella bionda arrivata da qualche mese da Roma,
dalle tette straripanti e le gambe lunghe,
praticamente una fata in carne ed ossa corteggiata
da tutti, me la offrisse su un vassoio d’argento.
Quel messaggio in effetti non lasciava
dubbi, almeno nella mia mente! Sì certo, tra noi
c’era già stato un mezzo approccio. Qualche sera
prima avevamo passeggiato insieme dopo l’orario di
ufficio lungo il viale che portava al mare. Avevamo
commentato qualche vetrina, comprato uno scolapasta
fucsia da Tiger e una piantina grassa dal fioraio
egiziano in piazza, e poi gustato insieme due spritz
con vista mare seduti al Caffè Roma sotto un
meraviglioso tramonto rosso arancio.
Avevamo
parlato del più e del meno, del suo nuovo lavoro,
della sua nuova casa e della mia situazione da
single forzato. Scoprimmo che entrambi uscivamo da
una relazione più che problematica. Eh sì non potevo
sperare di meglio…
Nei giorni seguenti mi ero
più volte chiesto se quella innocente passeggiata
fosse stata un lasciapassare e se in qualche modo
avessi dovuto, per così dire, approfondire la
conoscenza della bella romana approdata nel profondo
nord, del resto lei si era trasferita da qualche
mese e da quanto mi aveva detto finora non aveva
fatto nuove conoscenze, meravigliandosi del
carattere chiuso e poco espansivo delle persone del
nord.
A quel punto mi ero informato e mi ero
reso conto che in ufficio qualche voce era girata
sul suo conto e dai ben informati avevo saputo che
era stato proprio Corrado Ghini, il nostro capo,
anche lui romano, sposato con due figli, a
sollecitare quel trasferimento. Poi altre voci mi
avevano giurato di aver visto i due a cena al
ristorante “Da Sergio” sul lungomare per ben due
sere consecutive. Altri ancora, sempre secondo i ben
informati, avevano sentito la coppia bisticciare
animatamente nella stanza del capo proprio la sera
prima della nostra passeggiata. Erano volate parole
del tipo: “Tua moglie”, “Sei gelosa”, “Te la faccio
pagare!”
Dopo quel giorno tra noi c’era stata
una serie di caffè al distributore automatico
dell’ufficio nelle ore di pausa, ma niente di che,
fino appunto a quel messaggio che rilessi almeno tre
volte. Ovviamente risposi subito di sì, pentendomi
amaramente immediatamente dopo e dandomi dell’ebete
visto che avrei potuto invitarla in qualche
ristorante carino della città. Riprendendomi a
fatica per la sorpresa iniziai a pensare cosa
diavolo potessi preparare per cena optando alla fine
per pollo e patatine nella rosticceria sotto casa.
Lei si presentò puntuale alle otto e mezza e
quando aprii la porta mi prese un colpo,
praticamente un angelo azzurro vestito di tutto
punto, vedendola così elegante pensai immediatamente
che sotto quel vestito non avesse indossato una
banale lingerie. Insomma la serata si prospettava
davvero intrigante. Subito dopo notai la sua piega
di capelli da parrucchiere e lo smalto fresco delle
sue unghie appena rifatte. Al contrario di me a dir
poco impacciato lei mi sorrise e con aria disinvolta
si tolse il soprabito, poggiò la borsa sulla sedia,
scostò i suoi lunghi capelli dal viso e senza
pensarci troppo iniziò a girare per casa commentando
i miei trenta metri di casa. Poi senza che le avessi
chiesto nulla mi disse che prima di uscire
dall’ufficio aveva incontrato Corrado Ghini e che
salutandolo gli aveva riferito che quella sera
avrebbe cenato con me. Beh sì la cosa suonò molto
strana, mi venne subito in mente il loro bisticcio e
compresi chiaramente il vero motivo di quella cena,
ma non mi diedi per sconfitto in partenza, anzi
assaporai il discreto piacere di essere preda di un
sottile gioco di corna e gelosie.
La tavola
era apparecchiata, una candela comprata dal cinese
sotto l’ufficio faceva fatica a dare la giusta luce,
comunque ci sedemmo gustando un discreto vino rosso
dai calici. Con aria maliziosa mi disse: “Sorpreso?
Non te lo aspettavi vero?” Beh sì in effetti lo ero
e quello, constatai successivamente, fu l’unico
momento di interazione tra noi, visto che da
quell’istante in poi lei cominciò a raccontarmi la
sua vita mentre io mi concentrai esclusivamente sul
merletto rosa antico che aggraziava il suo reggiseno
romantico.
In meno di quindici minuti mi
raccontò di una sua vacanza ad Ibiza, recitò a
memoria il testo di una vecchia canzone dei Beatles,
elencò minuziosamente gli ingredienti di una
meravigliosa paella catalana, si alzò da tavola per
farmi annusare il suo nuovo profumo al gelsomino,
rispose a due messaggi di una sua amica romana, si
rovesciò qualche goccia di vino sul vestito, mi
parlò contemporaneamente del suo cane Rex morto in
un incidente stradale, della sua gatta siamese
sterilizzata e di un film americano in bianco e nero
che aveva visto la sera prima in tv.
Sinceramente feci fatica a seguirla, ma cercai di
alleggerire la mia tensione interna pensando che
quella fosse una gradevole sopportazione se da lì a
poco saremmo finiti tra i cuscini morbidi della mia
camera da letto. Poi passai ad una riflessione più
profonda chiedendomi, senza prestare molta
attenzione ai suoi discorsi, dopo quante serate
passate insieme, una bella ragazza simpatica,
sciolta, romana, tutta tette e culo, si fosse decisa
a darla. Certo, le voci che correvano in ufficio e
la sua esuberanza, agevolavano in qualche modo la
mia fiducia per il buon fine della serata pensando
che fosse più un problema d’etichetta che di
disponibilità.
Certo il fatto che si fosse
autoinvitata mi faceva essere ancora più ottimista e
che quella serata avesse avuto ineluttabilmente una
svolta piacevole convincendomi che non fosse una
questione di giorni, ma solo di ore. Ovviamente
questo non mi dava la certezza matematica che, una
volta sprofondati sul divano, avrei potuto
sbottonarle facilmente la camicetta di seta o
meglio, come speravo, constatare di quale colore
fossero le sue mutandine.
La immaginai
davanti all’armadio prima di uscire di casa mentre si stava vestendo,
nell’atto di scegliere il tipo e il colore del suo
intimo, mi chiesi a quel punto di che colore fosse
una giusta vendetta, ma non andai oltre perché se
avessi capito la logica della sua scelta avrei anche
saputo come sarebbe andata a finire quella serata.
E mentre lei mi parlava di una sua zia che si
era sposata incinta in abito bianco io pensai a
quale posizione assumere una volta seduti sul
divano, di sicuro avrei messo un po’ di musica
oppure avrei acceso la tv sul canale MTV per
facilitare il compito che il destino mi aveva
assegnato. E a quel punto avrei dovuto scegliere
quale tipo di approccio sarebbe stato più efficace e
soprattutto meno compromettente. Del resto era
sempre una mia collega e per nessuna ragione avrei
voluto che in ufficio fossero nate delle strane voci
in aggiunta a quelle che l’avevano già etichettata:
“donna del capo”. E quando lei attaccò
un’improbabile elucubrazione sulla pericolosità dei
social per gli adolescenti, mi chiesi più volte fino
a che punto fosse arrivata la sua vendetta e se
fosse la donna giusta per una botta e via
convincendomi che l’unica mia tattica a disposizione
fosse quella dell’attesa e che forse per quella sera
non ci sarebbe stato altro che vino rosso, pollo e
patatine, sua zia incinta in abito bianco e la
ricetta della paella catalana.
Ovviamente lei
non captò i miei pensieri, continuando a parlare di
lei, dei suoi amici, del suo ex compagno e
addirittura di sua nonna materna caduta da cavallo
durante una vacanza al Terminillo. Certo la storia
di sua madre che aveva colto in fallo suo padre a
letto con la donna di servizio ucraina al ritorno
della santa messa domenicale mi fece ridere, ma
sinceramente non mi interessava affatto.
Finalmente finimmo di cenare, ma sul divano le cose
non cambiarono, anzi sì, perché con un gesto
spontaneo lei accavallò le gambe e la sua gonna
scivolando leggermente lungo il nylon delle sue
gambe, mostrò, chissà quanto involontariamente, le
sue calze velate fino a dove il bordo più scuro
diventò magicamente pizzo e ricamo e desiderio.
L’effetto fu immediato e ben visibile ad uno sguardo
attento, ma per fortuna lei distratta dalla storia
di una sua amica in dolce attesa senza aver mai
fatto l’amore, non ci fece caso.
Comunque
pensai che la bella romana non avesse trovato modo
migliore per spronarmi, eh già quell’accavallamento
sensuale di cosce dovevo a tutti gli effetti
considerarlo un invito, ma lei continuò a parlare
passando da una storia d’amore con un tizio con cui
era stata insieme a sedici anni, amico dei suoi
genitori, a un suo viaggio a Londra insieme alla sua
amica di prima che nel frattempo aveva abortito. Io
continuavo a mugugnare e ad annuire con la testa,
cercando di assumere ogni volta un’espressione
diversa e intelligente, ma nonostante i miei sforzi,
i miei occhi erano magneticamente incollati su quel
nylon.
Fu in quel momento che mi ritornò in
mente lei davanti al suo armadio poco prima di
uscire e ovviamente il pensiero andò di nuovo alle
sue mutandine. Questa volta riuscii a darle un senso
ed un tono immaginandole nere, di pizzo, a trama
delicata, quasi un soffio, un respiro, un velo in
penombra adagiato sui tetti come un tramonto a
Cortina. Perizoma o culotte non avrebbe fatto alcuna
differenza cercando però di immaginare l’effetto
sulle mie dita e soprattutto la magia di quel
panorama quando avrei intravisto il suo sesso tra la
trasparenza del nylon e il merletto arricciato dei
bordi più scuri. Mi chiesi a quel punto se avessi
visto una peluria curata a triangolo, o un vezzoso
ciuffetto, oppure un rosa chiaro di pelle che da quelle
parti è molto tenue e delicato. Ero al culmine della mia
fantasia, ma durò poco perché subito dopo lei mi
chiese dove fosse il bagno.
Quando tornò
prese spunto per parlarmi della sua casa a Roma
immersa nel verde e del suo bagno in stile liberty,
accennò anche al colore ambrato dei servizi, ma io
ero ancora completamente assorto nei miei dubbi.
Forse avrei dovuto agire, era il momento adatto, ma
aspettavo che lei esaurisse tutti i suoi argomenti
sperando che subito dopo sbocciasse un complice
sorso di vino, una musica sfumata e un incrocio più
esplicito di sguardi, e poi silenzi sensuali e
sottintesi complici. Con una scusa guadagnai qualche
centimetro di divano e iniziai a sudare. Lei mi
chiese se avessi caldo, poi si alzò di nuovo, aprì
la finestra, tornò a sedersi accendendosi una
sigaretta. Mi chiese ancora vino e pensai che fosse
giunto il momento tanto desiderato.
Fu a
quel punto che l’argomento scivolò su di me, o
meglio non mi chiese di raccontarle qualcosa della
mia vita, ma solo cosa pensassi di lei, del suo look
e se trovassi curioso il suo accento romano. Sì ok
era poco e niente, il fulcro su cui girava la serata
era sempre e solo lei, ma almeno mi aveva dato
l’occasione per rispondere in modo inequivocabile e
infatti tentai un acrobatico salto carpiato e le
dissi quanto la sua bellezza mi avesse colpito sin dal primo giorno.
“Sei bella, hai un bel corpo, delle belle gambe…”
Lei mi guardò interdetta, per la prima volta rimase
circa dieci secondi in silenzio.
Fu a quel
punto che, per sondare il terreno, le chiesi cosa
pensasse di me, ma lei prese al volo l’occasione per
raccontarmi di quando a diciotto anni si trovò
durante una gita scolastica a dormire nella stessa
stanza del suo professore di filosofia, ma non mi
parlò di quello che successe quella notte, ma
dell’insufficienza che aveva preso
nell’interrogazione su Kant il giorno prima.
Il mio unico scopo a quel punto fu cercare un altro
appiglio per farla tornare sull’argomento a me
preferito, ma con Kant fu davvero difficile trovare
qualche connessione compatibile. Comunque non ero
ancora del tutto scoraggiato e pensai che, finita la
bottiglia di vino rosso, avrei tentato la sorte
senza conoscere preventivamente l’esito, ma il
problema fu che finita la bottiglia mi chiese di
stapparne ancora un’altra. Allora mentre versavo il
vino nel calice avvicinai le mie labbra alla sua
guancia sinistra, chiusi gli occhi e tentai di
baciarla, lei girò automaticamente il viso senza
dare peso al mio gesto, anzi prese spunto per
raccontarmi del suo primo bacio ad un suo coetaneo
tedesco durante una vacanza a Sperlonga.
Si
stava facendo tardi, il giorno dopo saremmo dovuti
andare al lavoro. Ormai era una questione di minuti.
Dato il fallimento del bacio decisi per la strategia
dell’attesa attiva, ossia di aspettare che lei
facesse la prima mossa, il che, sentendosi al centro
dell’attenzione e soprattutto protagonista della
buona o cattiva sorte, avrebbe sicuramente appagato
il suo ego smisurato. Insomma una sorta di tattica
quando si fa credere al proprio interlocutore di
agire in prima persona ed in assoluta autonomia.
Per far sì che lei si concentrasse sulla serata
e interrompesse il suo racconto su un suo cugino che
aveva dilapidato l’intero patrimonio giocando al
“Gratta & Vinci” mi alzai ed andai in bagno fingendo
un bisogno impellente. Ovvio quella pausa serviva
anche a me per raccogliere le idee e decidere in
caso un piano B per affondare definitivamente il
colpo e tutto in pochi minuti vista l’ora.
Orgoglioso del mio ingegno reputai tuttavia la
strategia infallibile e davanti allo specchio con
tanto di simulazione facciale dell’orgasmo immaginai
il momento in cui la bella romana si sarebbe
lasciata andare tra i cuscini celesti del mio
lettone a due piazze. Convinto delle mie capacità
pensai di penetrarla in vari momenti intervallati da
sorsi di vino, baci e sigarette in modo di arrivare
in perfetta forma fino alle prime luci dell’alba.
Certo c’era sempre il problema di Corrado Ghini,
ossia il nostro capo, ma in qualche modo, se davvero
quella serata fosse stata concepita come una sorta
di vendetta verso il suo amante, la cosa non avrebbe
ostacolato affatto il mio piano, anzi sarei stato
ben contento di essere il protagonista principale
della sua rappresaglia. Anzi, se lei me lo avesse
chiesto, sarei andato io stetto a bussare alla porta del
capo e con fare deciso e voce impostata gli avrei detto
che tra me e la sua ex c'era del tenero.
Purtroppo però quando
tornai in sala il divano era penosamente vuoto, lei
era in piedi e stava parlando al telefono. Captai solo
un: “Sì, va bene, ok.” Poi vedendomi riattaccò. Già
col soprabito indosso mi disse: “Luca è tardi,
domani ci aspetta l’ufficio e ci dobbiamo alzare
presto!” Mi prese un colpo. Addio strategia! Tentai
un improbabile “Dai rimani ancora mezz’ora…” Lei
fece di no con la testa, allora le andai vicino e le
presi la mano. La strinsi per una decina di secondi
e lei, evidentemente per togliersi dall’imbarazzo,
mi abbracciò ed io a quel punto le cinsi i fianchi e
ne approfittai per immaginarmi il colore delle sue
mutande. Ma fu solo un attimo. Si divincolò
rapidamente e sulla porta mi disse: “Peccato,
interrompere una serata così piacevole...” Non dissi
nulla, perché qualunque cosa avessi risposto in quel
momento le avrebbe sicuramente dato lo spunto per
qualche altro suo racconto, magari del suo secondo o
terzo bacio in riva al mare o sotto un diluvio quasi
universale, e sinceramente non ne avevo più voglia.
Sì in effetti ero amareggiato, soprattutto
perché mi ero illuso che la mia pazienza alla fine
avrebbe dato i suoi frutti ripagandomi con una
stupenda e calda notte d’amore. Lei invece era
insolitamente allegra, mi ringraziò
ancora e a quel punto avrei voluto domandarle cosa mai ci
avesse trovato di tanto piacevole in una serata del
genere, ma non glielo dissi. Era evidente che ci
avesse ripensato e che per quella sera non si
sarebbe consumata alcuna vendetta, anzi fui certo,
vista la sua fretta, che la sua serata non si
sarebbe conclusa a breve o quanto meno avesse
ricevuto dall'altro capo del filo le promesse o le
rassicurazioni che andava cercando.
La salutai
augurandole la buonanotte. Sulla porta, la vidi
scendere le scale con difficoltà per via di quei
meravigliosi tacchi alti. Si voltò e mi sorrise ed
io mi chiesi se davvero fosse stata un’occasione
persa o uno scampato pericolo, comunque quando girò
l’angolo pensai a quanto quella serata fosse stata
utile per lei e completamente inutile per me, ma che
fondamentalmente non ero affatto dispiaciuto di non
aver fatto l’amore, tranne per il fatto di non aver
potuto conoscere l’unica cosa che avrebbe dato
davvero un vero senso alla serata ed ai futuri
incontri sul corridoio dell’ufficio ovvero quello di
conoscere il colore delle sue mutandine.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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