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I racconti di LiberaEva
C’è una folla tra le mie gambe
Photo Pavel Ryzhenkov
Mi prende, mi spinge, mi
lascio toccare. Ha gli occhi di panna, il cuore di
latte. Ha la faccia di bimbo che mi chiama signora.
“Ma quale Signora, se mi lascio toccare?” All’ultimo
piano in cima alle scale. Mi prende, mi slabbra gli
orli che trova, s’infila e s’affanna senza permesso.
Arrossisco alla voglia che freme, al pensiero che è
il figlio della mia amica del cuore. Oddio come sono
ridotta! A lasciarmi succhiare il seno che sa ancora
di latte, che pende, che chiede, che vuole,
nonostante qualcuno possa salire e ci possa
sorprendere in questo loculo stretto.
Lui
incosciente non si cura nemmeno, m’alza la gonna e
strofina il tesoro. Lo eccita sapermi moglie di un
marito che teme, sapermi madre di figli, quello più
grande con gli stessi suoi anni, quello più piccolo
che prende ancora il mio latte. Mi da del lei e mi
bagna i capelli, mi lecca come fossi un gelato, il
dolce più dolce di fragola e panna, e tanto
pistacchio che abbia mai assaggiato. Mi preme e mi
struscia, sento la sua stoffa rigonfia di sesso,
gonfia di voglia, inesperta di liceo appena finito.
Spero davvero che rimanga composto, che non lo
ostenti al riflesso dei miei occhi appannati. Ma se
davvero lui vuole? Che faccio? Se davvero volesse
scoparmi? Come faccio a dirgli che ho bisogno di
musica, di una notte di stelle, di minuti tranquilli
che passano lenti sotto carezze che sanno d’amore.
Che se davvero dovessi farci un pensiero, non è
questo il momento, il posto, l’idea, l’ora e la
voglia e di sicuro non questa faccia che ora rossa,
gonfia e ridicola cerca il mio seno.
Come
cambia il pensiero in un minuto di meno! Solo
secondi dal portone alle scale, carica di spesa mi
ha fatto passare. Gentile e tenero mi ha slargato un
sorriso: “Prego signora, vuole una mano?” Ed io lì
che non pensavo a nient’altro, anche se in fondo
sono mesi che lascio, al sogno di notte le mie
voglie migliori. Se sapesse che anche mio marito mi
tratta da madre, non certo d’amante o qualcosa di
meglio, perché lui ogni sera si volta e poi russa
mentre questa bocca diretta mi succhia e mi ciuccia,
quel latte materno che scola l’essenza d’un’anima
munta.
Contro questo muro che sa di perverso,
giace la spesa che sa di famiglia. Oddio che
vergogna se una vicina qualunque venisse a stendere
panni, se il portiere dovesse salire in terrazza.
Che direbbe sua madre se mi vedesse in balia di
queste mani impazzite dal piacere più estremo che
sotto mi cerca. Rimango ferma e lascio che si sazi,
che trovi sul mio seno lo spunto per scemare la
voglia, che trovi nelle mie gambe il silenzio quando
smuore l’affanno. E tocca e ritocca senza più modo e
pazienza, mi dice che impazzisce alle mie mutande
ordinarie, alla stoffa che copre, al merletto che
ammicca. Per un attimo rido, se avessi saputo avrei
riempito la sua voglia di nylon e seta, aggraziato
il piacere che freme ed accenna, e leggera resiste
al desiderio che irrompe.
È bastato un niente
mentre salivo le scale, un movimento sbagliato per
ritrovarmi la lingua che riempiva l’incavo del mio
seno bollente, la mia pelle di colpo è diventata più
stretta, il mio ventre una valle dove scola la
pioggia che ora gorgoglia e si lascia succhiare.
Dovevo arrivare a quarant’anni per sentirmi più
femmina? Sopra un pianerottolo vicino alle vasche,
davanti ad un ragazzo a dir poco inesperto, irruente
e smanioso lungo i graffi che lascia. Ora lancio un
grido e gli dico di piantarla. Sai che figura! Ma in
realtà non voglio che smetta, che ritorni gentile,
che mi saluti ossequioso e ritrovarmi signora. Che
strano sentirsi voluta, desiderata nell’intimo con
le mutande da poco, bianche di stoffa di mercato
rionale. Con mio marito è tutto diverso, le poche
volte che chiede, mi vuole addobbata di trucco e
merletti, vestita di tanto che è poi sempre meno,
che dico da femme che dice da mignotta.
Che
strano sentirsi voluta, da un ventenne dagli occhi
di panna, da un cuore che batte per una biondina
graziosa, che porta la prima o forse di meno, che lo
va a trovare ogni giorno quando sua madre lavora.
Vorrei domandargli cosa ci trova dentro una
donna matura, oltre le rughe, gli anni e il seno che
cala, eh già cosa cerca che lei non può dargli, tra
queste cosce smagliate che tiro in palestra, tra
queste pieghe di sesso che non hanno vent’anni. Cosa
tocca e strofina dentro queste mutande? Ecco non lo
fermo e lui me le scosta perbene, anzi le cala quel
tanto per vederci il mistero, un sesso di mamma che
ha sfornato dei figli.
Sotto di noi sento un
pianoforte che suona, mani di bimba che stanno
studiando, do re mi fa sol, ma non è una musica
adatta per farci dei sogni. È ora di pranzo e
salgono intensi odori di sughi, soffritti e cipolla
che mi fanno sentire una donna più persa. Cosa
direbbe mio figlio più grande, che mi lascio toccare
da un suo coetaneo? Lui che studia e è serio e mi
riprende ogni volta che sbaglio dei verbi. Cosa
direbbe mia figlia, ai primi vagiti d’un cuore che
batte, che mi confida ogni cosa ed accetta consigli?
Ecco chi è la loro madre! Una donna che ora si
lascia toccare e non ha reagito alla prima
avvisaglia. Certo sì che avrei potuto, dirgli
cafone, cretino e come ti permetti! Ma non l’ho
fatto anzi ho lasciato che lui premesse il bottone
dell’ultimo piano ed ora lo sento che non si
accontenta, che vorrebbe davvero finire in bellezza.
Se questo ragazzo fosse solo più grande, se non
avesse l’età di mio figlio, forse forse mi lascerei
andare e saprei districarmi e mi inginocchierei per
dargli piacere, gli darei la mia bocca che a detta
di mio marito è la parte che meglio so usare.
Lui intanto preme, poi strofina e continua a
toccare, che ora nudo ed inesperto tenta e ritenta.
Lo vedo dagli occhi che non mi guarda nemmeno, che
l’incanto è solo l’idea di farsi l’amica di sua
madre, di farsi una donna e farsela tutta, magari
desiderata da sempre, dentro un bagno o un letto per
ricominciare a sognare.
E tocca, tocca ed
assapora, dall’inguine al seno, come pezzi di carne
sopra un marmo venato, tocca e freme pronto a
cogliere l’attimo, il punto più debole dove s’annida
la voglia. Eccolo! Ora è ad un sospiro dalla mia
meta, ad un soffio dalla certezza che cedo, sta
lacerando gli ultimi indugi, ed io m’arrendo ed
accetto, indietreggio e l’accolgo. Ci sono! Lo sento
che prova, che tenta, che suda. Quasi lo chiamo,
gemo e sospiro e lui tocca, ritocca. Se fosse più
esperto sarebbe già oltre, aldilà d’ogni remora dei
miei dubbi di prima, se fosse più uomo sarebbe già
un dolce ricordo, oppure il momento dell’estasi
pura. ma proprio nel mentre la soglia si schiude, un
sobbalzo ci ritrova distanti, proprio ad un passo,
proprio da niente, finché il rumore di un ascensore
che sale mi ricompone la gonna e m’aggiusta i
capelli.
“Signora, la prego.” Ma è più forte
il dovere di prendere la spesa e scendere le scale,
di vederlo piantato che aspetta e ripete. “Signora
la prego!” Ma non lo prego di nulla, perché dentro
le mie gambe c’è una folla che lo tiene in disparte.
C’è mio marito, i miei figli ed il pranzo da fare,
la tavola che non s’apparecchia da sola, il bimbo
che dorme e tra poco si sveglia. C’è il portiere che
potrebbe salire, le mani di una bimba che suonano
incerte, un tè alle cinque con la mia amica Carmela,
confidenze in terrazza con sua madre di sera. C’è
una folla tra le mie gambe, un’orda stipata che lo
tiene in disparte, che respinge chi tenta d’entrare,
chi s’inoltra senza permesso. C’è una folla tra le
mie gambe, per un attimo ho pensato di poterla
ignorare, ma ora stipata s’addensa e s’aggruma, che
solo di notte s’addormenta scomposta e lascia il
passaggio alle mie dita leggere, alle mie unghie
tagliate che a stento sopiscono il desiderio che
incede, tutto compreso, il ragazzo, le scale, il
portiere, la spesa e con mio marito di fianco che
dorme e che russa.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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