|
HOME
CERCA NEL SITO
CONTATTI
COOKIE POLICY
RACCONTI
I racconti di LiberaEva
Quattro piani
Quarto piano.
Ho messo gli stivali quelli rossi, fino a metà
coscia, tacco 12 e passa la paura, stasera davvero
voglio essere una regina anche se poi di
aristocratico c’è ben poco e dove vado calpesto solo
cacche di cani lungo quel viale che puzza di sesso e
piscio. Già perché mi scandalizzo? In fin dei conti
non mi sembra un connubio così irreale! Chiudo la
porta a chiave, quattro mandate sopra, due sotto,
poi penso, ma chi mai verrebbe a rubare a casa di
una puttana? Sorrido premo il bottone e mi guardo
nel riflesso scuro del vetro dell’ascensore. Sono
bella sì, ma tanto a che serve? Penso davvero che
una puttana sia l’ultima donna su questa donna che
debba essere bella. Penso ai miei clienti. A loro
serve la tetta grossa, la coscia tornita, lo stivale
lucido, il rossetto rosso fuoco, ma per il resto la
bellezza è un optional che non aumenta la voglia e
figuriamoci il prezzo. Perché poi conta altro, mica
il profilo alla francese o i modi raffinati, conta
se ci sai fare, se metti bene la bocca, se usi le
labbra, se la tua mano è sincrona al loro piacere.
Se spalanchi le gambe, e come le spalanchi, se ti
muovi e come ti muovi, tutto il resto è nulla.
Certo, direte voi, ognuno ha i clienti che merita e
il destino mi ha fatto trovare una mandria di voglie
senza pretese che colano come grondaie sotto una
pioggia battente.
L’ascensore non arriva,
premo ancora il bottone… E ti pareva? Alla fine
decido di scendere a piedi. il rumore inconfondibile
di mignotta mi segue giù per le scale, è simile a
uno strascico di profumo, al marchio di vacca che
distingue la carne al mattatoio. Chissà se la mia
carne è prelibata? Se andrei a finire in un percorso
di qualità per ristoranti di lusso oppure dritta
dritta nella filiera della carne congelata.
Ah
chiedo scusa, non mi sono presentata, mi chiamo
Carmen, ho 47 anni. Beh sì, sapete già il mestiere
che faccio. Tanto per chiarire io non sono una
escort, ossia quelle che ospitano in casa e vanno in
tv per farsi intervistare, si fanno chiamare sex
worker, hostess, accompagnatrici, ma poi in fin dei
conti finiscono a letto e quello che fanno non è
certo diverso. Certo loro hanno clienti importanti,
mentre noi siamo quelle degli avanzi di notte,
quelle che incontri tra i gatti e le cartacce, siamo
costume e colore, e ci confondiamo con le ombre di
notte, le fontanelle che buttano acqua perenne. Eh
sì, siamo giostraie senza giostra, mendicanti senza
cartoni, zingare e maghi che leggono carte, siamo
fette di anguria consumate nei chioschi, ex
ballerine di quinta fila, modelle ingrassate,
attrice patetiche che recitano sempre la stessa
parte.
Sono quattro piani e sono ancora alla
prima rampa. Sì ok faccio fatica a scendere e faccio
rumore, è inevitabile con questi tacchi, ma gli
stivali piacciono, attirano, bucano quei piccoli
cervelli e fanno sangue denso e grandi gli uccelli,
anche se poi non capisco perché, ma in fin dei conti
cosa mi importa se uno dei vicini capisce dove sto
andando? L’importante è non rimanere all’asciutto e
questi stivali mi fanno mangiare. Non è colpa mia se
a quei poveri derelitti piace accarezzare la pelle
lucida, arrivare fino al tacco e poi risalire con
quelle mani sporche, avide e senza grazia. Perché
sono mani senza nome, voci senza parole, suoni senza
note, sessi che non sanno dove stia l’amore, volti
anonimi, grugniti di avanzi di mondo.
Qualcuno
mi dice di accendere la luce, a volte li accontento,
ma mi fanno rabbia perché io sono sempre la stessa,
mi sanno a memoria e conoscono ogni centimetro del
mio stivale, delle mie tette, ogni pelo tra le mie
cosce. E loro pure sono sempre gli stessi, fanno il
giro quattro volte come i cani a passeggio col
padrone che devono pisciare. Poi improvvisamente
annusano l’odore giusto e si fermano, ecco anche
loro come i cani si fermano, annusano, guardano e
ogni volta chiedono quanto e anche il listino prezzi
è sempre lo stesso. Mi vendo in parte perché
concedermi tutta mi illuderebbe davvero di fare
l’amore! Vado a vendermi sì e allora? Anzi no vado a
farmi comprare, come qualsiasi merce che ammicca
dagli scaffali del supermercato. Ma poi che
differenza c’è? Beh sì. Dipende dai giorni ed oggi
mi sento una merce e la merce si compra. Ho messo il
rossetto più rosso, perché dia l’illusione che
quello che faccio è da super esperta e che anche di
bocca non mi faccio pregare.
Terzo
piano.
Scendo facendo attenzione a dove
metto i piedi. Chissà se la bella professoressa con
gli occhiali da vista alla moda del terzo piano sta
sentendo il rimbombo sul marmo dei miei tacchi.
Chissà cosa starà pensando? Forse è a tavola e ora
starà guardando il marito con un’espressione di
pena. Lei che scopa nel suo letto, tra le sue
lenzuola candite al profumo di gelsomino mentre a me
alla meno peggio mi tocca uno schienale abbassato di
un’utilitaria! Cavolo ho i lividi sulle ginocchia.
Ci dovrebbe essere una legge che impedisca ai
padroni delle utilitarie di andare a puttane! Almeno
salvaguarderebbe le mie gambe. Certo non sono belle,
anzi direi storte, ma con questi stivali che sanno
di sesso a pagamento tutto diventa indecente e
trasgressivo e per gli amanti del genere direi anche
bello e sensuale. Certo piace a loro, io ne farei a
meno di questi stivali, di questa gonna inguinale.
Alle volte mi chiedo perché la metto, non copre
niente e si vede da mille miglia che non porto le
mutande. Anche poi ne porto un paio in borsa perché
la maggior parte dei miei clienti ama proprio il
momento quando mi calo le mutande. Dio mio ma cosa
ci provano? Cosa vedono se non lo squallore di una
donna che sta scartando la merce, magari già usata.
Eh già mica sono di primo pelo io! Forse lo sarò
anche stata, ma non me lo ricordo. Ora sono come
quelle macchine di seconda mano nei piazzali con il
cartello scritto “occasione” sul tettino. Valgono
poco e chissà quante mani avranno visto, come me del
resto che chiedo poco più di un jeans comprato al
mercato dell’usato.
Secondo piano.
Già mi vedo sotto quei salici stretti e
lascio che il vento mi scopra la gonna, e scopra la
merce come fosse unica e rara, qualcuno s’illude
credendo che sia il primo della serata, e invece non
sa quanti ne possa contenere una notte, forse
quaranta come le carte di scopa, tutti diversi in un
giro di luna, anche doppi senza mischiarne gli
odori, eh sì quaranta, dal tramonto all’alba,
quaranta davvero dai piedi ai capelli.
Tutti
diversi, nel mio infinito bisogno d’essere parte del
mondo, come un cielo che è ventre, di voli d’uccelli
di specie diverse, come un mare che nutre, grandezze
di pesci affamati, come la mia gatta in calore che
porta nel grembo, incroci di semi di razze
straniere. Quaranta sì, in uno scorrere lento di
semi infecondi, che neanche per caso son diventati
dei padri, lasciandomi un vuoto che a stento
riempio. Sono fatta di pelle e non di cuore, sono
fica, tette, il resto non conta. Sono fatta d’aria e
d’acqua, e qui dentro non si formano parole, non
esiste amore per pretendere rispetto, sono seno da
ciucciare, culo da fischiare, da farci dei sogni
come un regalo a Natale.
Anzi non sono nulla,
solo pelle, solo pieghe che il primo riempie, che
l’ultimo inganna, convinto che l’anima sia poco
distante, che qualche parte di me sia ancora
inviolata.
Scendo e faccio rumore, perché
l’architetto del secondo piano che quando lo
incontro mi sorride e mi chiama signora, sappia ora
che quello che desidera è solo mestiere. Beh sì, se
solo ci provasse, a lui la darei gratis per fare
dispetto a sua moglie, per vederla ai miei occhi con
un piano di corna sopra l’extension che costano un
occhio.
Scendo perché ho bisogno di sentirmi
regina, scendo per illudermi quanti stanotte faranno
la fila, ho bisogno di saliva, di fiati e vapore, di
baci e brividi lungo la schiena, come se davvero
stessi facendo l’amore, come se davvero lo
confondessi col sesso, ma in realtà mi sento solo
bocca, cosce e sedere, un buco qualunque in attesa
d’amore che mi riempie in questo silenzio che urla,
in questo vuoto di femmina che nessun sesso potrebbe
mai riempire.
Primo piano.
Primo piano e scendo. Passo davanti alla casa del
portiere. Beh sì a lui l’ho data, del resto mi aveva
riparato il tubo dell’acqua e senza chiedere altro
si è accontentato di quella vestaglia trasparente
che non copriva niente. Oddio che pena! Dopo meno di
trenta secondi avevo già pagato il servizio! Penso a
sua moglie e la comprendo se di giorno per andare a
fare la spesa usa la stessa altezza dei miei tacchi!
Ormai ci sono, ultima rampa di scale e sarò io la
stella che brilla più luce, anche se fuori minaccia
di piovere, avrò preso l’ombrello? Eh già fuori
neanche una stella che illumini la mia parte
migliore, quella che nemmeno il pudore protegge,
perché nuda e carnosa, sfacciata la mostro, come un
secchio bucato sotto la pioggia, che illude chi
passa di poterla riempire. Come vorrei che
l’annusassero, fino ad impregnarsi del profumo che
sento, perché solo l’odore fa ricordare, non certo i
miei seni che pendono al vento, e non destano rime e
non fanno poesia, e stanno giù molli come pere
marcite, come palloni aggrinziti sgonfiati dal
tempo. Neanche una stella che mi risucchi e
m’inebri, fino a farmi sognare come ai bei tempi,
dentro un bordello coperta di spacchi sui divani
rossi e profondi, e due occhi viziosi che mi cercano
dentro, il mistero del nero che allargo composta,
per quel desiderio di salire le scale, per una
singola o doppia o addirittura una notte, esclusiva
ed intera per farci l’amore. Già mi vedo che rido
come un’oca giuliva, che fumo e mostro il rossetto,
e mi scopro nel vedo e non vedo, davanti ad un uomo
col sesso pulito, che mi chiede il permesso prima
d’entrare, di scoparmi davvero di santa ragione, e
poi gentile mi offre una rosa e poi si scusa su un
letto di seta, se una spina per caso m’ha graffiato
la mano.
M’illudo e scendo gli ultimi gradini
perché tanto so che non troverò nessun bordello e
neanche una rosa e alla fine basterà un cliente che
mi inghiottisca nel buio d’un vicolo cieco, e che mi
tratti senza nessuna premura, perché riguardo e
deferenza non hanno ragione, quando ti scelgono
perché non hanno trovato di meglio, quando in piedi
ti sbattono nuda, senza neanche un velo, una grazia,
un merletto per sentirti più donna.
E invece mi
vuole nuda e mi chiama mignotta, se tante volte me
lo fossi scordato e gode nella parte che ha
comprato, gode per la merce che ora consuma,
infilando il suo sesso come in un buco del muro,
perché quello che conta è solo il suo piacere che
cola e le mie urla che fingo per farlo tornare.
Fuori piove.
Apro l’ombrello ed esco.
. .. |
Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
© All rights
reserved
© Tutti i diritti riservati
Il presente racconto è tutelato dai diritti d'autore.
L'utilizzo è limitato ad un ambito esclusivamente personale.
Ne è vietata la riproduzione, in qualsiasi forma, senza il consenso
dell'autore
Tutte
le immagini pubblicate sono di proprietà dei rispettivi
autori. Qualora l'autore ritenesse
improprio l'uso, lo comunichi e l'immagine in questione
verrà ritirata immediatamente. (All
images and materials are copyright protected and are the
property of their respective authors.and are the
property of their respective authors.If the
author deems improper use, they will be deleted from our
site upon notification.) Scrivi a
liberaeva@libero.it
COOKIE
POLICY
TORNA SU (TOP)
LiberaEva Magazine
Tutti i diritti Riservati
Contatti
|
|