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RACCONTI
I racconti di LiberaEva
Versi immorali
.Chissà dove trova la gioia per trasmetterne ancora,
dove il sorriso per compiacermi ogni volta, dopo
un’altra giornata che passa, che lenta mi lascia un
vuoto di pelle, che veloce mi resta un senso
incompiuto, come se le ore fossero onde strascicate
di mare che s’infrangono nude sugli scogli d’attesa.
Guardo di fuori che il cielo s’imbruna, mi sento
inutile, vuota e vana, come se non avessi fatto che
niente, come se la mia indole impaziente cercasse,
dentro queste ore che si scuriscono a sera, un
appiglio qualunque che mi dia la forza, la vitalità
mai doma di non sentirmi da sola.
Sarà questa
sera che scende più fitta, sarà questo velo che si
adagia sugli occhi e mi scontorna gli oggetti e non
ne vedo il colore, toglie vita e passione ad ogni
fragile ardore, che abbruna il pensiero che lui dopo
cena, possa toccarmi dentro quel letto, fatto di
spine d’aculei irti.
Lo so che non è giusto! lo
so che non merita questo! Lui mi ama come fossi una
Dea, una Venere intatta la prima notte di miele, mi
desidera invano ogni volta nel letto, senza che io
ne apprezzi la voglia e mi vesta di seta, d’organza
di Cina, senza che faccia il minimo sforzo per
dargli un minuto, un’ora, la luna.
Ora è in
cucina, lo sento, che prepara la cena, ora in sala
che apparecchia la tavola. Coltello a destra con la
lama rivolta all’interno, forchetta a sinistra e il
bicchiere dell’acqua. Oddio che pena! Mentre io sono
qua nello studio che scrivo, sul diario i miei
giorni che corrono altrove, che s’intersecano con
gente che lui non conosce, camere e strade che mi
fanno da coda, quando cala il tramonto e rientro la
sera.
Non ho neanche più il rimorso d’essere
infedele, perché lui accetterebbe ogni cosa che
faccio, capirebbe il vuoto che mi riempie
d’angoscia, la frenesia d’essere quando cerco me
stessa, altro lui dice non sapendo che invece,
coloro la faccia di rosso e di viola, e volo sui
tacchi come fossi un gabbiano, che libero danza ed
adocchia la preda.
Sento rumori di pentole e
piatti, di frigo che s’apre, d’acqua che scorre, tra
poco mi chiama: “E’ in tavola, vieni?” Ecco come
sono ridotta, in segreto che scrivo per sentirmi più
persa, descrivendo i dettagli di quello che faccio,
le pieghe dell’anima, gli orgasmi che densi,
traboccano a grumi come storni sui rami. Non
tralascio mai nulla, né virgole e punti, né fiati
sul collo che mi danno l’essenza d’essere femmina in
un letto qualunque, che scaldo e che bagno per il
gusto di farlo.
Lui non mi chiede spiegazioni,
non mi chiede mai niente, perché non ci sono cause
dentro i miei effetti, non ci sono ragioni per
chiedere scusa. Non cerco amori che si sfilaccino
nel tempo, che dolciastri mi lasciano appiccicosa la
pelle, cerco altro, zaffate d’odori, che mi
colpiscono intensi ed evadono presto, per
ricominciare a sentirli ogni volta che esco, che
scendo le scale al rumore dei tacchi, al fruscio
della calza che sa di mignotta, per vedermi più
bella, per sentire la seta e vibrare al pensiero di
labbra e di mani, al contatto che sento quando sola
mi mostro.
Vivo in una città tutta in
discesa, che dritta s’affoga nelle pieghe del mare,
perché il ritorno non conta, non vale e non serve,
ma solo l’andata quando m’immergo nei vicoli storti,
nelle nicchie di muro che sanno di muffa, ed un
maschio in penombra ti fischia e ti vuole,
mostrandoti fiero le sue voglie più dritte. C’è un
bar che guarda sul mare, frequentato da facce cotte
dal sole, che cercano amore o qualcosa che sappia di
tette abbondanti affittate a buon prezzo, di carne
di donna venduta al mercato. Sarà che ci sguazzo e
mi ci sento a mio agio, mi travesto da poco per
essere degna e sfilo le calze per confondermi agli
occhi di chiunque pensasse che non lo faccio per
soldi, ma solo per hobby, un passatempo e uno svago,
di una signora borghese che stanca e delusa,
annienta la noia strusciando i suoi tacchi.
Quell’uomo poi viene sicura che viene, perché m’ha
seguita e gli sta bene il contorno! Si siede e sa
cosa m’aspetto, tratto il mio prezzo, ma non me
avrei bisogno, il luogo più adatto di croste di muri
per essere degna del ruolo che appare, del seno che
mostro oltre ogni buon senso. Mi offre del vino, mi
parla volgare, perché non c’è misura nel rossetto
che sbordo, non c’è gusto per il trucco che abbondo,
per essere identica a quella che in sogno, mi guarda
allo specchio e mi dice di osare. Assomiglio
perfetta alla mia anima in fiamme, all’uomo che a
breve saprà di fiato e sudore, di seme che terra
accoglie e ricopre, saprà di maschio addosso a una
donna, un buco di muro, di umido e muffa, perché
tanto è lo stesso e poco poi cambia se ho messo il
profumo di viola e mughetto, se porto le calze con
la riga che corre.
Lo guardo ha i denti
ingialliti, da fumo e da incuria, dagli anni che
vanno, ma lui se ne accorge che sono diversa, che la
calza sfilata non ci accomuna per niente, che lo
smalto scrostato non è da taverna. Lo vedo che non
sta nella pelle, che vorrebbe vedere cosa c’è sotto,
una gonna di seta sgualcita dal sesso, che odore può
avere una fica borghese, se la copro di peli o nuda
l’ostento, alle mani che a breve saliranno le gambe.
Sale e ride perché ha scoperto il mio trucco, sale e
ride e tocca e ritocca, ride e scende e stringe i
miei fianchi, mi chiama Signora e sussurra mignotta,
per il gusto soltanto di gonfiare il suo sesso, di
sentirsi padrone di fronte alla voglia, che giudica
misera perché sa d’abbandono, di donna che cede, che
apre e si schiude, alla prima parola che insulta il
mio sesso, che m’offende di dentro, ma mi piace
sentire.
Alle volte mi chiedo che senso che
abbia, a casa ho il calore, tutto quello che voglio,
il rispetto e la stima, la casa sul mare, un armadio
ricolmo di vestiti firmati, diamanti e gioielli e le
scarpe di Prada. Oddio, mi sono distratta! Mio
marito mi chiama! Ed io sto scrivendo queste
indecenze, di quando quel tizio m’ha scoperchiato la
gonna, in mezzo ad una sala piena di occhi e mi
stringeva le cosce e toccava le tette, per il gusto
di farlo e sentirsi padrone, davanti ad una donna in
preda all’istinto, soggiogata da mani senza alcuna
accortezza, asservita al piacere privo di grazia.
Metto virgole e punti e correggo gli errori,
scrivo le rime perché il testo poi scorra, come se
qualcuno dovesse poi leggere, dovesse giudicarmi da
quello che faccio, da quello che provo e come lo
scrivo. Ogni tanto tralascio pagine bianche, ma poi
ci ritorno inventandomi versi, pagine e pagine
intrise di inchiostro, d’umore che stilla dalla
penna tremante. Sono versi immorali che mi riempiono
dentro, che non hanno uno stile, una forma decente,
ma servono a me per sentire che dentro, scorre e
ribolle il sangue che sento.
Mio marito mi
chiama, ma io non mi fermo. Non posso bloccare la
penna che corre. Le sento le mani che mi stringono
forte, che sanno d’abuso e d’insulto che voglio, che
mi trascinano fuori tenendomi ferma, senza
intenzione di pagare una stanza, senza accortezze
per guadagnarsi fiducia. Ancora le sento le mani ad
artigli, mentre in un angolo buio cala il mio seno,
bianco e riflesso lo lascio toccare, avido d’essere
ingordo alle labbra, alla bocca che lascia brividi e
spilli, un piacere che scende che sale e s’assesta,
sull’unico seno pronto per l’uso, disponibile e mite
a quest’ora per strada. Mi prende, mi bacia, ma non
sa cosa fare, sorpreso da tanto remissivo splendore,
s’accuccia e s’inchina ai miei tacchi che punto, per
essere stabile nel momento che entra. Eccolo, ora,
lo sento e mi preme, mi pigia laddove cerca il suo
sfogo, il travaso più adatto per sentirsi più
maschio, la foce perfetta per lo sbocco nel mare. Sa
di incuria e di sporco, di sudore che lecco, di
femmina munta che si lascia bagnare, sa d’amore
infinito che non riesco a spiegare, d’anima persa
che brucia al calore, di lingue e di fiamme di fuoco
e d’inferno, di sogno che viene ogni volta di notte,
che fisso ogni giorno dentro questo diario.
Oddio mio marito, ancora mi chiama! Ecco sento i
suoi passi! Discretamente bussa. Mi dà tutto il
tempo di chiudere in fretta, queste indecenze che
odorano spesse, come l’aria dei vicoli che vanno giù
al porto. “Amore, è pronta la cena.” Mi sorride e mi
bacia delicato alla fronte. Mi alzo e lo seguo fino
in sala da pranzo. La tavola è apparecchiata, la
stanza in penombra, un fascio di luce avanza nel
buio. Vorrei baciarlo, dirgli grazie davvero, ma
l’unica cosa che cerco e che penso, è apparecchiarmi
per bene, per domani, per sempre, per il prossimo
sogno di versi immorali, che gridano vivi dentro
quei fogli, in bella scrittura dentro il diario.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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