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Adamo Bencivenga
Quaranta
Mia madre è convinta che io sia stata concepita una
sera d’agosto, quando fuori le stelle cadevano fitte.
Mia madre è convinta, ma ogni volta mi racconta una
storia diversa che mischia e confonde con le altre delle
mie otto sorelle. Per questo non le ho mai chiesto
perché i miei occhi siano chiari e perché le mie tette
siano più grandi di tutte le ragazze della mia razza.
Mio fratello è l’unico maschio della famiglia ed
anche il primogenito, fa il taxista abusivo e talvolta
commercia strana polvere bianca, ma è buono e ci ha
fatto da padre e da protettore, perché quello vero è
morto di un male che ancora ignoro e che ogni volta al
primo dolore credo di avere.
L’unica cosa certa è
che sono nata a Can Tho dove tutta la vita di giorno si
scioglie lungo le rive del fiume, dove si vende e si
compra, si mangia e si dorme, e si offrono ai passanti
scalogno e filetti di pesce saltati in padella. A Saigon
la vita di sera si sposta lungo una via chiamata la
“Strada del Sole”, ma non ho mai capito se il sole siano
le tante ragazze che la illuminano a sera, ecco io sono
nata poco distante proprio dove cade il tramonto, perché
la mia pelle è gialla e rossastra, perché il mio cuore è
cenere e fiamme per i tanti uomini che m’hanno almeno
sfiorata.
Mia madre è convinta che faccio la
ballerina, ma non mi fa domande quando esco la sera,
perché sa che da queste parti non c’è posto per l’arte
ed una ragazza almeno passabile ha altre doti per farsi
apprezzare. Qui il mestiere si tramanda, s’impara da
adolescente e non serve diventare donna e non servono
due seni grandi per attirare i soldati. Perché a Saigon
c’è la guerra e la guerra non ha tempo da perdere e non
si può aspettare diciotto anni quando una bocca
adolescente può già sfamare altre bocche.
Perché
qui c’è la guerra e la guerra non è solo bombe, non sono
solo i lampi di morte che rischiarano a giorno le case
sul fiume. La guerra è darsi per mezzo dollaro quando
sei fortunata, ma è anche l’odore di stupro nell’anima
dentro, è una donna che cammina da sola, un fratello
ubriaco che si è scordato di farmi da scorta. La guerra
è una ballerina alle due di mattina che esce ammantata
di rosso di seta, che fa tre passi insicuri lungo un
marciapiede tra lo sterco di cani, lattine di birra e
bagliori lontani di bombe che rischiarano a grappoli il
cielo più nero.
Ecco sì la guerra è anche questo,
una donna che cammina di fretta lungo la strada del sole
e un plotone di francesi ubriachi che le sbarrano la
strada. Loro sono fermi e immobili ed aspettano la più
bella ed anche se potrebbero averne una ciascuno ne
scelgono una. E quella sera è taccato a me. Per finta mi
hanno chiesto i documenti come se mai ne avessi
posseduto uno, loro lo sanno e allora la guerra è anche
mani avide che toccano, qualcuno che mi strappa il
vestino, la guerra è una donna sollevata di peso, una
stanza buia che odora di caserma, una donna che sa
quello che deve fare e il fiato non serve per gridare,
ma a ben altro.
La guerra ha il gusto metallico
del sangue e voci straniere che mi dicono bella, che mi
dicono puttana e quella notte ne ho presi tanti, lo
ricordo ogni volta per farmi scandalo al cuore. Sì, ne
ho presi quaranta in una sola notte, tutti diversi senza
mischiarne gli odori, ne ho presi quaranta dalle due
all’alba, quaranta davvero dai piedi ai capelli. Nel
posto più intenso dove sentivo possesso, dove più
stretta non potevo far finta che un cuore che batte ne
giustifichi il verso. Ne ho presi quaranta, sì certo li
ho contati perché a qualcosa dovevo pur pensare,
quaranta in tutto, quanto una raffica fino all’ultimo
fuoco, d’un cecchino perfetto che non ha sbagliato mai
mira, tutti al bersaglio e mi leccavano il collo, tutti
sorpresi che i miei fragili fianchi, tenessero testa ad
ogni tipo di voglia, avessero un posto per alloggiarci
il piacere.
Non so perché ti scrivo questo, cosa
pretendo e perché tu lo debba sapere. Forse soltanto
perché era successo la notte precedente a quando mi hai
conosciuta. E tu non te ne sei accorto, anzi nessuno se
ne è accorto che nei miei occhi c’era ancora il terrore.
Forse perché la guerra ci ha insegnato a mentire, ci ha
insegnato a distinguere il valore che una donna stuprata
non è una bomba nel cuore. Perché in guerra, a confronto
con la morte, tutto si ridimensiona, tutto perde valore
anche uno stupro, anche quaranta in una sola notte.
Tu mi hai vista ed io sorridevo nonostante ne avessi
presi quaranta, tutti diversi, perché natura scivolasse
dentro, nell’infinita certezza che ero parte del mondo,
come un cielo che è ventre di voli d’uccelli di specie
diverse, come un mare che nutre grandezze di pesci
affamati, come una gatta in calore che porta nel grembo
incroci di semi di razze straniere. Come me che ero
soltanto la figlia d’una guerra che cominciavo a subire,
a rendermi conto che non era solo miseria e bombe,
sangue e corpi sfigurati, ma anche aliti densi di vino e
di birra, ma anche offese tipo “Putain de merde. Chienne
vietnamienne”.
Ne ho presi quaranta senza fiatare
perché mi ero promessa di resistere, tanto, seppure
avessi chiesto aiuto, chi mai si sarebbe avvicinato?
Sentivo nel mio ventre il destino e quello ho avuto, uno
ad uno come cani e sciacalli che aspettano muti il
proprio turno per finirsi la preda. Erano tanti e a
tutti ho dato un nome, anche se poi, come mia madre,
confondo le mani e i capelli, misure di sessi bianchi
europei, e il colore degli occhi si mischiava in una
luce riflessa, la stessa che quella notte proveniva dal
mare, mista all’odore di pioggia e di fango. Ero stanca,
ma cercavo di resistere al dolore, perché non volevo
sprecare un solo momento, di quella rabbia che intensa
mi spaccava da dentro, di quell’odio che vivo rimane
indelebile ogni volta che faccio l’amore.
Il
giorno dopo sono andata comunque a ballare, mi sentivo
senza fili, sballottata, cercavo protezione, quando sei
comparso tu. Ti sei presentato come un giornalista
francese e dopo il ballo mi hai invitato a casa tua. Ho
accettato subito i tuoi baci anche se parlavano la
stessa loro lingua. Più volte durante l’amore mi sono
chiesta che gusto potessero avere le gambe di una donna
stuprata, ma in realtà desideravo solo che tu non ti
accorgessi che ne avevo presi quaranta ed è per questo
che non ti ho risposto quando mi hai chiesto perché
fossi distante e perché mai non riuscissi ad avere
l’orgasmo. Quella sera e per tutte le altre volte che
siamo stati insieme, ma nonostante questo mi hai amata
per tutto il tempo che sei rimasto da queste parti. Poi
sei ripartito, dovevi tornare a Parigi, del resto lì
avevi una moglie, due figli, ma a me hai lasciato
qualcosa di incompiuto perché non sono riuscita a
donarti tutta me stessa. Non so se tu leggerai mai
questa lettera, ma credo che non sia stato inutile
scriverla, perché avevo il bisogno di confessarti quello
che per mesi non sono riuscita a dirti. Tu, nonostante
ignorassi la mia pena, mi ha aiutato a ricostruirmi, a
mettere a posto i giorni, le cose e me stessa, e che
davanti alla tua infinita dolcezza, quaranta alla fine
non sono stati poi tanti.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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