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RACCONTI D'AUTORE
 


 

Adamo Bencivenga
La farfalla



 


 
Sono tutto e niente, la strega e la regina, corona di lucciole e rosa di spine, sposa promessa sopra l’altare, novizia in attesa per il primo piacere. Sono la terra, la preda, l’impero, lo specchio in frantumi, il sale che cade, e la gatta in calore che cammina di notte e spesso confonde l’amore al dovere.

Sono la madre di un figlio mai nato, la sposa per lettera di un vecchio migrante, sono figlia d’arte, l’amante di un ricco signore, la voglia, il seme e il suo desiderio, che di giorno mi cerca, di notte mi trova, sicuro che altri non abbiano colto, il fiore che mostro, la rosa che schiudo, dentro un letto di raso tra promesse e lo giuro, con i capelli raccolti e un vestito scollato, rifugio di uccelli e tane di cuori.

Sono sincera, finta e bugiarda, la risposta ambigua e la domanda, l’attrice, la recita, il palco e la stella, l’amante spacciata come sorella. E mi dicono bella a volte signora, nel letto però solo un nome di voglia, che non è amore e nemmeno tesoro, ma un suono e un disprezzo che fa rima con gioia.

Sono la rivalsa, l’astinenza e l’orgasmo, la posta, l’enclave e la locanda, del viandante che chiede quanto costa una cena, quanto un seno grande e quanto un bel sedere. Perché sono la coda lunga della notte, la faccia più scura di uno spicchio di luna, una cena in terrazza, un piano che suona, il vedo e non vedo, il tradimento e il mistero o solo l’alba rimasta quando non si è trovato nessuno.

Sono il tesoro, l’incenso e la mirra, le tasche gonfie di mercanti di oro, che hanno un odore forte di maschio, che pagano per quanto mi fanno godere, per quanto il mio umore al sapore d’agrumi, scola e ristagna e si lascia gustare. Sono l’eterno di un solo minuto, l’estasi di un altro secondo, figlia del disordine che porto nel cuore, madre di baci che bramano il seno.

Sono fianchi e sono tette, culo che non serve per sedere, più prezioso di un ricco tesoro, quanto quelli grassi dei bordelli, quelli opulenti in salotto, che si offrivano per poco, a tempo ed a tariffa e saziavano la fame e vincevano la guerra, nel saliscendi delle scale, nel dai e dai delle alcove.

Sono stata di tutti e di nessuno, vergine in chiesa e puttana in sacrestia, eterea come la madonna, corrotta come una spia, truccata per mestiere, bella per dovere, come il miraggio che lusinga il viandante, come la mia gonna che incanta e traspare, svasata e sottile da vederci le ombre, corta ed oscena da non mostrare più niente, come un giglio in controluce, ostento l’essenza e mi gusto il potere, l’effetto della merce che vendo senza raggiri.

Perché ho imparato che non ha senso dare un senso, che anche i buoni soffrono e non occorre esser vecchi per morire, che la fica va vissuta così come si mostra, così come la regalo o all’asta la offro, perché non serve poi negarla, ma ad accettare che il destino l’ha fatta per godere, per succhiare la sua linfa o farsela riempire.

Perché ho imparato che anche gli amori veri poi tradiscono e che anche quelli più grandi poi finiscono, alla meno peggio si dimenticano e come polvere poi svaniscono e un altro prende il posto, e ad un altro giuro amore, l’eterno e l’assoluto, tra queste cosce madreperla, vere di carne, false d’amore, in questo bosco di betulle umido di piacere.

Ho un nome inciso a fuoco come fossi di un padrone, un tatuaggio di farfalla dove il petto s’apre al sogno, dove una mano indugerebbe, intinta nell’acquasantiera, lasciando agli occhi una fessura, come la porta di un tempio sacro. E io danzo come una regina, e ronzo come una vespa in cerca del suo fiore, al suono di un violino di lame di un duello, di lui che guarda e io che ballo, con un diadema sulla fronte, con un giglio tra i capelli, come le zingare di mare, come le nomadi di sabbia, con cerchi grandi e d’oro, e labbra rosse come il cuore, e labbra grandi da baciare, svasate quanto le sottane, calde quanto le mie cosce, grasse come olive, come il latte munto, sballottate da ogni vento, che spira caldo sulle spalle, e si insinua sale e fa salire, il segreto e il desiderio nell’ultimo tratto del sentiero.

Perché io sono il paradiso, il circo e la giostra, la Porta di Ishtar, le rose fresche di Babilonia, per ogni bugia che ho detto, per ogni calza che ho sfilato, ho acceso in chiesa una candela, ho pianto lacrime di santi, spergiurando sul buon Dio, per essere creduta, amata e venerata, come una vergine che va in sposa, una nubenda al primo orgasmo. E tutti intorno a farmi il filo, a dirmi quanto fossi bella, perché ritrosa perché promessa, perché di tutti e di nessuno, come la cortigiana che si trucca e abbellisce la sua merce, e tutti in fila sul portone e lei sceglie chi far entrare.

Nel sogno stringo i pugni e tengo fermo il mio respiro, e resto ad ascoltare la seta della calza, il velluto delle cosce, che traspaiono alla luce, come forme già indorate. Sono fatta di labbra che si aprono al piacere, di gambe invitanti come nidi caldi, e questa gonna corta, leggera come il fumo, intrigante come un velo per farsi confessare. Sono io la donna e sono quel profumo, odor di muschio bianco che confondo con la brezza, quando s’alza all’ora tarda, e poi ritorna verso il mare, e nutre la mia essenza, ed è seta il mio mestiere.

Seduta sulla mia ombra mi lascio trascinare, dalla forma del mio seno adatto ad ogni maschio, dalla coda dei pensieri, dalle note della gonna, che danza sullo sfondo, che colora a tinte dense, di pizzo la mia pelle, d’organza a strati i lembi, nello strascico dei sensi che saziano gli sguardi. Esperta di malizia, mostro le mie gambe, per lasciarmi conquistare, dall’offerta generosa, dell’amante dentro il letto, che focoso mi pretende, che rovente mi rivuole.

Vivo in tutti i sogni che parlano d’amore, nei vicoli più sporchi, nel lusso degli alberghi, dove il seme scorre a fiumi e il miele vale oro. Mi chiamano con tutti i nomi, ma nessuno sa il mio nome, perché io sono la farfalla, che muore in un solo giorno, che rivive in ogni notte, perché io sono libera, padrona di me stessa, e nessuno mai potrà legare, quest’anima che esiste, finché potrà volare.










Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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