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I RACCONTI DI
LIBERAEVA
Cul de
sac
Sarà quest’inverno che mi piace e mi sfiora, che s’inoltra gelato
nelle tette di sera, tra i vicoli stretti d’una Roma che amo,
tra l’incavo più aperto della mia camicia di seta
Sarà quest’inverno che mi piace e mi
sfiora, che s’inoltra gelato nelle tette di sera, tra i
vicoli stretti d’una Roma che amo, tra l’incavo più
aperto della mia camicia di seta. Saranno i miei seni
che colmano il vuoto, d’una notte che luna non riesce a
riempire, tra il rumore dei tacchi che fanno la scia e
mi fanno più preda d’una gatta in calore.
Offro
tette alla vista di gente che passa, come fossero merce
su un banco di frutta, ed al vento che soffia e
m’inturgidisce le voglie, mentre sola cammino sui
sampietrini sconnessi, tra i vicoli bui d’una Roma
disfatta, tra le persiane che sanno d’azzardo e
ingiustizia, dove neanche una cagna si inoltrerebbe di
notte, perché dietro ogni muro c’è un uomo che guarda,
una cicatrice alla luce che fa più paura, di un
delinquente comune che ride e che piscia, e mi lancia
parole d’amore e di cesso.
Ho paura che qualcuno
m’aggredisca di colpo, che misuri la vita quanto due
spiccioli in tasca, ma cammino e mi turo le orecchie e
la vista, sapendo che nessun maschio potrebbe bastarmi,
e quello che cerco è dentro me stessa, il posto più
basso dove non è consentito cadere, con le mie membra
scrostate dai muri che struscio, e la mia anima informe
che tace e s’appaga, degli angoli oscuri che sanno di
muffa.
Saranno i miei anni che passano in fretta,
perché nel mio letto non è passato nessuno, e l’amore
che sento lo trovo ogni notte, nei bassifondi più miseri
che sanno di sporco, in fondo alla strada che ripida
scende, dentro un culo di sacco dove mi nutro e
m’ingozzo.
Mi sono vestita di foglie e di fiori,
perché un minimo soffio mi scopra e mi spogli, e mi dia
la certezza che non è solo piacere, ma che esistano
forme d’amore diverso, come amare se stessa e i propri
bisogni, come offrire il mio vuoto e farlo riempire, al
pari di un buco, uno spacco, un pertugio, usato per
quanto possa ancora servire.
Cammino decisa
cadenzando i miei tacchi, senza sapere cosa ci sia dopo
il rimbombo, quale eco stanotte mi farà ancora più bella
e se nell’infinita ricerca c’è davvero il bisogno, di
conoscere il fondo, di dimenticare chi sono, infangando
di notte il cognome che porto, come macchie indelebili
di seme biancastro, sul mio twin-set attillato nero di
Fendi.
Mi chiedo come mai nei miei sogni non c’è
mai poesia, e come mai il cielo non abbia più stelle,
che illuminino la mia parte migliore, quella che nemmeno
il pudore protegge, perché nuda e piatta sfacciata la
mostro, perché sola m’ostino a strascicare i miei
tacchi, riempiendo la notte di travertino e di freddo,
di fica ridotta ad un buco nel muro. Come vorrei
impregnare l’intorno come gatta in calore che lascia la
scia, perché solo l’odore fa ricordare, non certo i miei
seni che pendono al vento, e non destano rime e non
fanno poesia, ma stanno giù molli come pere marcite,
come palloni aggrinziti sgonfiati dal tempo.
Ecco ci sono, mi guardo intorno, e non vedo nessuno, chi
mai a quest’ora si inoltrerebbe da queste parti? Allora
mi inginocchio ed allargo lentamente le gambe, sopra un
tombino che rigurgita fango, alzo la gonna e scopro il
tesoro, ed aspetto paziente un rivolo d’acqua, che mi
sfiori leggero e bagni il mio sesso, i peli che radi li
taglio con cura, ogni sabato all’alba dopo la doccia.
Che direbbe se ora mi vedesse qualcuno, con un cappello
da sera ed i guanti di rete, che aspetto e raccolgo solo
acqua piovana, avanzi di mondo come bestemmie, come seme
infecondo lasciato scolare? Che direbbe se mi vedesse
strusciare, contro l’asfalto per sentire il bisogno,
d’essere l’ultimo anello del mondo, prima del quale c’è
una donna borghese, che si lava le mani dieci volte ogni
giorno. Che direbbe se mi vedesse strusciare,
accovacciata come cagna che femmina piscia, a carponi
che pendo i miei seni abbondanti, come vacca in attesa
d’essere munta?
Questo rivolo d’acqua diventa
uragano, m’inumidisce le pieghe che apro e spalanco,
simile ad una puttana che fa il suo dovere, e nemmeno
una goccia vada poi persa e l’amore che sfama non
rimanga deluso. Con una mano apprensiva m’alzo la gonna,
perché sia mai che s’insozzi di fango, con l’altra più
esperta accompagno la voglia, dove l’acqua da sola non
potrebbe arrivare. Sono baci e carezze, sono spremute di
seno, mentre un fiotto improvviso mi esce da dentro, e
l’acqua s’insinua e sto per godere, come al cospetto
d’un amante che lecca, la voglia impetuosa che fluisce
viscosa, e generoso m’aspetta per sentirmi gridare,
perché nulla è più intenso d’una donna che gode, mentre
sgorga d’umore e la bocca poi lava.
Sono delta di
fiume e foce di mare, tombino che succhia e raccoglie
nel ventre, la parte del mondo dove non esiste
l’inferno, in questo culo di sacco dove non esistono
scale, per andare più in basso per sentirmi migliore.
Sono vicolo cieco di un viottolo d’erba, canale di melma
ai bordi del cuore, dove la sera sento rane gracchiare,
uccelli che dritti m’additano bella. Oddio che darei per
vedermi da dentro, scoprire sorpresa dove il piacere
s’annida e l’intarsio preciso dove depongo le uova, di
questa brama ossessiva che la sera mi prende, e mi
lascia pensare che se fossi puttana, sarei una regina
che mi guarda dall’alto.
Eccomi ci sono! Sento
lontano un brivido intenso, come acqua sorgiva da una
pietra che sgorga, come un orgasmo secco che si compone
dal nulla e mi lascia in attesa di un boato più forte.
Allora mi abbasso, come un cane m’accuccio, mi struscio
e m’imbratto, mi bagno e m’infango, e rimango nel
dubbio, se il mondo mi sporca, o è la mia voglia che
cola, che inquina quest’acqua immonda e piovana.
Sarà che ora è tutto silenzio, mi riaggiusto il
cappello e mi metto il rossetto, mi riassetto la gonna
che leggera mi fascia, e cammino orgogliosa come se
nulla è successo, come una signora per bene che ha
sbagliato la strada, e si è ritrovata per caso in questo
culo di mondo, tra un uomo che fischia e l’altro che
piscia, in una nausea intensa che mi tura la gola, che
mi fa schifo soltanto a sentirne l’odore, tra questa
miseria volgare e violenta. Mi guardo intorno e
disgustata mi chiedo, come facciano a vivere in questi
tuguri, con un topo che salta e un gatto che scappa,
mentre per me è stato un gioco soltanto, per andare
laddove non c’è altro nero più scuro, e combattere
questa noia borghese, che a volte m’attanaglia, mi
dilania e mi sbrana, ed averne ragione pensando che in
fondo, ora a casa m’aspetta un canto di merli, una
distesa di verde ed un letto di seta, che candido
avvolge le mie notti pulite, i miei sogni leggeri che
non partoriscono fogne, che non finiscono all’alba
dentro un culo di sacco.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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