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AMARSI CHE CASINO
 
 

STORIE VERE
SLAVE
"Fuori cammino sui tacchi alti, mi muovo come un clown e faccio attenzione ai tombini, all’asfalto disconnesso, fasciata da un soprabito nero che non riesco a chiudere."



 
Guardo tutti dall’alto in basso e quando qualcuno posa gli occhi su di me ho la sensazione di essere come un manichino in un atelier con il cartellino del prezzo che pende da un lato.

Ho voglia di mostrarmi, piacere per il tuo piacere e il mio essere tua obbedisce al tuo desiderio. Tra i caffè affollati mi muovo come una pedina su una scacchiera, cerco con gli occhi il mio alfiere, ma so che non sei tu, tu sei il re che dispone, che detta la regola per poterla trasgredire. È un gioco lo so, e a te piace giocare, allora cerco un posto per sedermi, strategico e riservato che mi dia l’aria da gran signora, ambigua, disponibile e inavvicinabile.

Non cerco uomini, ma i loro desideri, quel ghigno inconfondibile che punta il suo bottino, perché io sia ciò che vuoi, saccheggio e conquista, terra promessa di un ordine divino, per mostrarmi e dimostrarti che tu hai fatto la scelta giusta e al mondo non ci sono altre donne più preda di quella che hai.

Seduta mi mostro, così come mi hai detto, accavallo le gambe e dondolo il tacco, il soprabito si spacca e ostento le mie cosce, fino all’orlo di questo pizzo nero, di questo reggicalze che tanto ti fa impazzire, perché sa di costrizione e d’obbedienza, unico feticcio che non ammette altre ragioni. Se solo mi vedessi, penso, ma so che per te è lo stesso, immaginarmi qui provocante, col cappello e la veletta, con i guanti e questi occhiali, neri come le mie calze ora in pasto a questi sguardi.

Tutti intorno tavoli affollati, coppie regolari che si promettono e si baciano, singoli ricchi, vedovi e divorziati, artisti e bohemienne che non perdono un frammento del mio nylon. Dio come sono bella! E ti do ragione! Perché solo tu mi fai sentire così unica e appetitosa da credere davvero che solo le mie tette potrebbero sfamare tutto il mondo. Mai avrei creduto di essere così valorizzata, mai lo avrei pensato se per caso non ti avessi incontrato.

Chissà quanti di loro vorrebbero farmi sentire una donna appagata, oppure una mantenuta da letto, amante o chissà moglie, femmina e signora, appiattita in un ruolo che però non mi basta. Quella è storia passata! Ho già dato, penso, e tu mi hai cambiata. Penso a te e la penso come te, perché mai potrei sentirmi legata ad un uomo senza questa totale devozione, senza questo mio servire incondizionato, mai potrei amarlo se per caso mi sentissi sullo stesso piano, perché ogni gioco ha i suoi livelli e non è detto che il più basso sia quello sottostante.

Mi ripeto che non ho bisogno di uomini, ma di una Fede Assoluta che non mi lasci dubbi, di un Dio che mi indichi la strada, perché so che è ancora tanta, quella che va profonda nel mio essere, che io chiamo anima, che tu chiami figa, ma non credo ci sia molta differenza, perché è tra queste cosce che sento quanto sia grande il valore che tu come un diamante hai reso inestimabile e adesso senza ombra di dubbio rappresenta il centro della mia totale obbedienza, quando a distanza per te godo, quando vicini per te vado nelle crepe secche della mia astinenza, negli inferi immorali del mio bisogno.

Seduta mi guardo intorno e guardo il mio tesoro che magicamente appare e scompare, come conchiglia s’apre e si nutre e mi emoziona pensare al suo valore smisurato, al vincolo che c’è in questo gesto, al piacere di servirti, all’obbligo di compiacerti sentendoti complice di ogni fremito, d’ogni rivolo che libero sbocca, come se tu fossi qui accanto a me, o come ora distante, ma sempre padrone del mio piacere che usi, neghi e disponi, nella certezza che senza di te, sarei solo una bella di notte che offre i suoi servizi.

Esisto perché ti appartengo, esisto perché mi pensi, come ora, regina di questi sguardi, così devi essere, mi hai detto, e così sarò finché mi vorrai con queste labbra rosse che non riesco mai a chiudere, che servono per dirti Amore e Signore, per darti piacere e per chi vorrai. Lo so, non sono solo un fatto estetico, non sono solo un feticcio per gente viziosa, questa punta di rosso è qualcosa che va oltre, dà valore alla mia bocca, al piacere che offre a quello che potrei dare, entra dentro e m’appartiene e nella simbiosi t’appartengo.

Non sono pazza, mi sento solo me stessa, so che è difficile capire, ma provo solo ad assomigliare al tuo desiderio, anche se già so che mi troverai difetti, perché non sono uguale a lei, alla donna ideale che vorresti che io fossi. Lei non ha mancanze e non voglio che le abbia, perché il mio compito è essere uguale al desiderio che provi per lei, per questo affogo nei tuoi pensieri e adesso so che mi stai pensando ed io accavallo le gambe, mostro il mio tesoro come se fossi utile al tuo orgasmo.

Noi non siamo amanti, perché tra amanti scorre un filo sottile di menzogne, invece tu pretendi sincerità e lealtà e per questo sono devota al tuo essere, perché sei unico e onesto, sei il maschio che tutte le donne vorrebbero avere, perché anche solo una parte di te mi sazia e mi completa, perché anche la tua assenza mi riempie e mi sfama. Tu non temi la verità, di essere crudele, netto come un cardine secco, tu hai sempre saputo chi sei, cosa vuoi, sai cosa ti piace e cosa non ti piace. Tu sei il bianco e sei il nero, non ci sono grigi e dubbi nel tuo essere, conosci la tua mente e soprattutto il corpo femminile più di quanto possa comprenderlo io. Esperto e navigato ti muovi dentro di me come un abile speleologo, almeno penso che lo farai, così mi hai detto, perché non è la meta, ma il viaggio che sublima un desiderio.

Prima di te ho avuto altri uomini, tutti innamorati di se stessi, con la sola voglia di possedermi fisicamente bruciando così ogni mio desiderio mentale. E invece tu, lo so, lo fai per me, perché tenermi sospesa, a distanza, in attesa, è l’atto più estremo che si possa avere da una relazione. Ma tu non rimandi, tu non prolunghi, conosci solo i tempi giusti, l’esatto momento in cui fonderò i miei sensi e nell’estasi assoluta non distinguerò anima e corpo, vergogna e turbamento, contegno e pregiudizio.

Ho un sacco di cose da farmi perdonare, non è stato facile accettare la mia condizione, guardarmi allo specchio e ammettere che avevi ragione. Quando ti ho incontrato, tra le macerie del mio matrimonio, non avevo ancora capito cosa significasse appartenere e cosa fosse la devozione infinita. Abbiamo iniziato a parlare e tu mi hai esplorata per vedere quanta stoffa avessi, se fossi in grado di essere un’eletta. A te non interessava il mio corpo, ma solo la mia mente! Così mi dicevi quando ho iniziato quasi per gioco ad assecondarti e mi sono accorta di stare bene, che le mie ferite non bruciavano più e allo stesso tempo, donandoti ogni mia scelta, avvertivo un benessere profondo scoprendo parti di me stessa che non immaginavo esistessero.

Al tempo mi consideravo una donna normale senza capire realmente cosa fosse, cercavo amore senza trovarne un senso, cercavo piacere come se fosse un diritto e soprattutto mi ostinavo a coprire quelle voragini che invece erano parte di me stessa. Tu hai saputo valorizzare quelle crepe, mettermi a nudo senza desiderarmi, hai fatto in modo che uscissi da me stessa per guardare quanto quei difetti non fossero mancanze, e come un giapponese paziente le hai imbellite e indorate con l’arte del Kintsugi.

Non avevo mai considerato il piacere del mio uomo come il più importante strumento nelle mie mani per compiacere, renderlo orgoglioso di possedermi e sentirmi brava. Non avevo mai pensato che la mia mente fosse la parte più erogena del mio essere e che sottomettersi fosse la più grande forma di libertà. In quel momento volevo esclusivamente il tuo amore, avrei fatto qualsiasi cosa per averti tra le mie gambe, ma più manifestavo il mio desiderio e più tu rimandavi quell’amplesso dicendomi che una donna doveva offrire altro per sublimare l’uomo.
Quando ho iniziato a capire però, non ancora pronta, ho provato a ferirti, a ribellarmi, a spezzare la catena che mi legava a te. Ma tu mi hai travolta con l’istinto senza troppe spiegazioni, mi hai rivoltata come un lenzuolo senza curarti di far apparire la tua parte più bella, ed io, senza fare una reale scelta, mi sono ritrovata in un mondo nuovo senza sapere cosa volessi e chi fossi.

È stato in quel momento che ho capito che senza di te la mia vita sarebbe stata inutile, perché solo tu le davi un verso, un ruolo, ed ora con orgoglio ammetto che solo tu colori d’oro ciò che vedo, tu abbellisci ogni suono che sento, e ne fai musica e arte, ne fai gioia e supplizio, oh certo sì, ora lo so, gioia e dolore non c’è alcuna differenza! Così sono tornata indietro, ho chiesto perdono, ero fuori di testa e fuori dal mio corpo, tremavo chiedendomi chi fossi, e tu nella tua infinita bontà mi hai accettata, punendomi come giusto che fosse. Beh sì, lo ammetto, almeno per un istante avevo pensato di vivere senza di te, e a questo una schiava non può mai credere, perché l’Assoluto non ammette la sua Negazione!

Mi hai fatto spogliare nuda, non perché amassi le mie nudità, anzi ho sempre avuto la sensazione che qualcosa del mio corpo non ti piacesse affatto. Tu mi osservavi serio ed io sentivo addosso i miei anni, sentivo correre qui e là le mie rughe sul mio corpo, ma tu sei stato irremovibile, hai preteso che togliessi ogni cosa perché sapevi già che la mia infinita devozione doveva necessariamente passare per tutto l’imbarazzo che in quel momento mi faceva sentire oscena e indegna del tuo piacere.

Sapevo che mi avresti fatto male, provocato dolore, ma anche che il giorno dopo avrei mostrato orgogliosamente i lividi del tuo amore. Mi ripetevi che dovevo sentirmi fiera delle tue attenzioni, perché una schiava conosce la punizione e ne accetta le cause e il loro supremo valore, il fine ultimo ed il percorso, per questo conosce il dolore, istintivamente lo analizza e ne gode delle sfumature. Sa distinguere lo spasimo dalla sofferenza, il bene dal male, perché nel dolore c’è sollievo, benessere e gratitudine quando lo sente suo amico, suo compagno, consapevole che senza di esso non otterrà nulla e mai sarà quello che desidera essere. La bellezza, la grandezza fanno parte della sofferenza, ma anche in questo caso ci vuole talento perché solo poche elette hanno la capacità di diventare slave.

E così è successo. Era la nostra prima volta e tu mi hai fatto chinare sul tavolo, tu vestito ed io nuda, in attesa della tua considerazione, di quella mano che non ha tardato ad imprimersi sulla mia pelle. Mi hai stretto forte un fianco, poi il seno, colpivi sempre più deciso ed io sentivo che era amore, che quella mano, quel vigore, quel tempo che mi stavi dedicando, era solo mio e non di altre. Certo, non ti stavi eccitando, perché un Maestro gode del suo sapere, del suo potere, di come istruire una schiava, di quanto lei è desiderosa di imparare e non certo delle sue nudità. Questo l’ho capito dopo, ma in quel momento istintivamente ti stavo amando, perché sapevo di non essere abbastanza, perché sapevo di dover fare di più. Insomma non eri tu a preferire altro, ma ero io a non meritare la tua considerazione. Inerme, soggiogata ed immobile contavo i minuti e più passava il tempo più mi sentivo inutile nell’attesa impaziente del tuo verdetto che mi avrebbe condotta dove il piacere si fa vertigine e paura di cadere, desiderosa solo di aggrapparmi all’unico sostegno che mi avrebbe salvata da ogni precipizio, ma ero cosciente che in quel momento rischiavo la pena peggiore, ossia la fine del gioco e la negazione della mia stessa esistenza.

E tu lo facevi a tuo modo, sicuro che ero io a chiedere e non tu a pretendere, come se il rapporto fosse invertito e fossi io la padrona e tu obbedissi ai miei ordini silenti. Eri davanti a me con in mano pinze, frustino, collare, lucchetti e chiavi ossia i simboli taciti del tuo comando, lo so, ne avresti anche fatto a meno, ma il quel momento ho capito quanto fossero necessari per farmi sentire incompleta e soprattutto venerare il potere. Lentamente mi ha legata, ero in estasi, il click dei lucchetti che si chiudevano era inebriante, il freddo del ferro sulla mia pelle calda elettrizzante. Ero tua, finalmente tua, ma in realtà non sapevo bene cosa fossi, carne, cosa, persona, oggetto, l’importante mi ripetevi era appartenerti. Nuda con i polsi e le caviglie tenute strettamente tra loro ero entrata in un nuovo mondo dove da sempre avrei voluto stare, ed in quei momenti mi offrivo a te, mi affidavo totalmente a te, ferma e immobile, senza la minima vergogna e desiderosa solo di sapere dove mi avresti portata.

Ero tua, come se quei lucchetti mi impedissero di essere altrove col corpo e con la mente. Stavi fermando i miei pensieri ed io percepivo il mio limite, che non era paura, ma la coscienza di essere quella che per te ero! Perché solo riconoscendo quei limiti ho avuto l’esatta consapevolezza di avere bisogno di te, e solo tu mi avresti fatto capire cosa realmente fossi. Sì ero profondamente tua, anelavo un tuo bacio e tu mi hai regalato un morso sulle labbra, desideravo una tua carezza ed ho sentito il dolce suono del frustino sul mio sesso. Ero tua, completamente asservita all’idea del piacere di essere penetrata, ma allo stesso tempo sapendo di non essere ancora pronta ed eccitandomi sul fatto che la strada che conduce al piacere assoluto sarebbe stata lunga, tormentata e sofferente.

Non era il momento di fare l’amore, di donarmi qualcosa di te, e non sarebbe mai stato il momento, questo l’ho capito sin da subito, perché la forza della mia devozione e del tuo potere non è il fine ultimo, ma il desiderio che supera il fine stesso. Poi ho sentito le tue dita, forti e fredde come il ferro, come due ganci appuntiti, mi sono eccitata, ti ho detto che in quel momento non avrei desiderato altro, mi hai sentita bagnata, so che non avrei dovuto, perché il mio piacere è vederti godere e non il contrario, si lo so, so tutto, ti ho pregato di perdonarmi ancora, supplicato di mettermi alla prova.

Mi sentivo inferiore, ma non nel senso sublime del termine, ma inadatta, al punto da chiedermi: Che fa una schiava? Cosa pensa, cosa desidera? E soprattutto qual è il suo passato e come fa ad innalzarsi al ruolo di schiava, a meritare le tue attenzioni? Te l’ho chiesto, ma da parte tua non c’è stata alcuna risposta. Poi l’ho capito quando ho imparato che conoscendo i miei limiti posso arrendermi. E ciò che ne ho ricavato è stato impagabile. Abbandonata alla tua volontà ho percepito realmente quanto valessi e soprattutto che eri tu l’artefice della mia nuova autostima perché non ero una schiava, ma la Schiava, non ero una sottomessa, ma la Sottomessa.

Tu invece sei di un altro pianeta, hai avuto diverse schiave e nella tua infinita bontà hai cercato di curarle tutte senza risparmiarti. Ancora oggi ne curi momenti e bisogni, ma io non provo gelosia, in caso mi sento imperfetta, perché mi sento inferiore ad ogni oggetto che ami, perché ciò che mi rende felice è il tuo atteggiamento, la maniera con cui curi e difendi ciò che ti appartiene, ciò che possiedi. Tu mi hai creata, mi hai fatto scoprire di non essere perfetta e neanche brava, e neanche esperta, ma di amare la mia voglia di subordinazione e il desiderio di gioire per le mie piccole conquiste, giorno dopo giorno sentendomi una creta da plasmare, un legno da forgiare, un’allieva da educare.

Dicevo non sono gelosa, o meglio non lo sono da quando ho capito che la tua missione in questa vita è soccorrere e proteggere ogni anima infelice, certo tu riusciresti a soddisfare dieci, venti, cento donne contemporaneamente, perché il tuo pene risiede nella mente e non nelle parti basse. Il tuo sesso è un ordine secco, il tuo amore, l’obbedienza che mi regali, unico salvatore che mi possa dare vita, che sappia darmi piacere, ma è un piacere che gli altri non capirebbero, solo tu riesci a scavarmi fino all’essenza, esplorare quanto la mia mente abbia bisogno di essere contemporaneamente gratificata e umiliata, ossia la scintilla dalla quale esplodono tutti i miei orgasmi mentali, ma allo stesso tempo di salvaguardare la mia indole di femmina anche se fuori ruolo. Ed è stato proprio questo che mi ha legata a te per sempre, tu mi hai capita in fondo, ossia che mai avrei rinunciato al mio obbligo interiore irrefrenabile della seduzione. E tu hai fatto in modo che i due aspetti coincidessero e coabitassero nella stessa persona e s’incastrassero perfettamente nel tuo gioco di potere. Ogni caratteristica ha la sua ragione di esistere se valorizzata all’interno di un rapporto intimamente profondo tra la slave e il suo padrone, mi hai detto.

Ora quella seduzione appartiene a te e ne disponi a tuo piacimento. Anche ora che sono qui, bella per te, e non so dove tu sia, non mi è dato sapere, e non so cosa tu stia facendo, a quante migliaia di chilometri sto eseguendo i tuoi input che sento forti, chiari come se fossi qui accanto a me e mi chiedi di offriti un orgasmo.
Perché tu sai che ora c’è questa donna seduta in un caffè e mostra le cosce e mostra il suo soprabito che non riesce a chiudere. Ho tutto l’occorrente per sentire la tua presenza. Sono tua vero? Mi chiedo come reagirebbero questi uomini se sapessero realmente quella che sono e che sto facendo l’amore con te a distanza. Ti prego non smettere di pensarmi, di vibrare, forse domani mi chiamerai e ti racconterò per filo per segno ogni sguardo, ogni parola, ogni sensazione che mi mandi, ogni ordine che eseguo.

Mi guardo intorno, cerco un viso che ti somigli, certo lo so, non mi è consentito scegliere, l’uno vale l’altro, e così sarà, l’importante è sentirmi tua anche se mi offro a queste voglie penetranti che ora mi vorrebbero in uno dei tanti letti della città.

Apro ancora di più il soprabito, so cosa devo fare, rubo l’attenzione di un bel signore elegante che mi guarda intensamente, gli sorrido, mi rifaccio il rossetto fissandolo, poi ripongo con studiata cura la trousse accavallando le gambe. Sono esperta sì, è un gioco che conosco a memoria e seguo per filo e per segno le tue istruzioni.
Il bel signore mi guarda, poi si alza e si avvicina, mi chiede il permesso di sedersi al mio tavolo. Non so cosa stia immaginando, forse pensa a quanta fortuna sfacciata abbia avuto stasera per avermi incontrato. Sorride è felice, chiede il mio nome, se sono libera, mi dice che sono bella, una signora affascinante, mai vista in questo caffè. Parla sottovoce e si scusa, che non è solito importunare donne da sole, che stasera ha un tavolo prenotato in un ristorante famoso… che se solo volessi, che se solo accettassi toccherebbe il cielo con un dito.
Io non parlo, ma lui non demorde, mi racconta la sua vita, che è vedovo, che ha tanto amore da offrire, ma che finora non ha avuto la fortuna di incontrare una donna come me.

Lo lascio parlare, accetto il suo corteggiamento, mostro i miei pizzi, in modo da non lasciargli dubbi sulle mie intenzioni, del resto la regola non prevede altro, lui si illude, garbatamente insiste, ma non sa che questo per me è solo un gioco di seduzione, che è solo un’altra tappa del nostro meraviglioso percorso.
I suoi occhi sono discreti, le sue mani tremano, le sue parole sanno di destino, di invito e opportunità, come se da qui nascesse qualcosa, ma non sa che appartengo ad un altro uomo, forse non sa cosa sia davvero una slave, che fingere di essere sua è solo un modo per sentirmi ancora più tua.

Forse ha intuito che sono nuda, e mentre mi scruta insistentemente per averne la certezza, non sa che il piacere che sento non è quello che mi aspetto, ma quello che mi stai offrendo, perché una schiava è sempre attiva, anche a migliaia di chilometri di distanza, e nella mia mente non ci sono barriere o impedimenti per mostrarmi e dimostrarti che hai fatto la scelta giusta e al mondo non ci sono altre donne più slave di quella che hai, perfino accettando quest’invito a cena, perfino pensarti che godi sapendomi di un altro, che godo sapendomi tua.









 
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