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RACCONTO
 
 
Adamo Bencivenga
TANGO ARGENTINO
Storia d'amore e di coltelli
Quando Diego Juarez entrò nel Salone di Giulia la musica rallentò impercettibilmente. Abile col coltello era uno dei guappi più temuti di tutta Villa Santa Rita
 



 


 
Quando Diego Juarez entrò nel Salone di Giulia la musica rallentò impercettibilmente. Abile col coltello era uno dei guappi più temuti di tutta Villa Santa Rita. Come al solito era vestito elegantissimo, coi ciondoli d'argento alla cintura, un gilet di pelle nera, un cappello di feltro alto, dalla tesa breve e una sciarpa scura abbandonata sulla spalla. Uomini, cani e donne lo temevano e rispettavano i suoi baffi, la sua faccia da indio spigolosa, la cicatrice scura sul viso, ma era comunque un assassino, anzi lo era stato, con due morti sulla coscienza e vent’anni di galera.

Il Salone di Giulia era un baraccone di legno e ferro zincato lungo la strada che portava a Maldonado. Si riconosceva da lontano, per il fanale che illuminava tutta la strada e quei lumini rossi sparsi lungo tutta la facciata. Nel Salone di Giulia non mancavano mai i musicanti, il buon bere, le ragazze per ballare e quelle da sposare. Alcuni bevevano acquavite, altri vino rosso, altri ancora cenavano sui taglieri colmi di salumi e formaggi e il mormorio di sottofondo impreziosiva il ritmo dolente della milonga sporca.

Quando Diego Juarez entrò la musica rallentò impercettibilmente, lui si guardò in giro e poi, come tutte le sere, adocchiò la più bella. Non importava se fosse sposata o facesse il mestiere, non importava se avesse venti o cinquant’anni o fosse accompagnata, l’importante che fosse in carne con due seni da vetrina e che fosse mora come le nomadi al di là del mare. Diego voleva sempre il meglio e quella sera il meglio era Amalia, la donna di Sertano Real.

Seduta al tavolo vicino ai suonatori, accompagnata al suo uomo lui la notò immediatamente. Dio com’era bella, com’era sensuale! Dava dei punti a tutte le altre ed era indiscutibilmente la più affascinante. Portava un corpetto nero aderente con una scollatura da capogiro e una gonna rossa lunga ed asimmetrica con uno spacco profondo decorata con frange nere.

E allora Diego non perse tempo e si fece strada, le andò vicino e di colpo la sala cadde in un silenzio d’attesa, profondo e cupo. Solo il suonatore cieco di violino continuò con i suoi accordi. Qualcuno fumava nervosamente rendendosi conto di quello che a breve sarebbe successo. Diego mostrò i suoi denti nuovi e bianchi e la invitò con fare galante togliendosi il cappello e facendo un mezzo inchino. Amalia non si mosse e in cerca di assenso voltò lo sguardo verso il suo uomo, ma fu solo un attimo perché Diego, vista quell’esitazione, irrigidì i muscoli del viso e la prese per un braccio. Lei intimorita non disse nulla e si lasciò trasportare, ma il suo uomo Sertano tentò di reagire togliendo quella mano dal braccio di Amalia. L’avesse mai fatto! Qualcuno sospirò rumorosamente, perfino il suonatore cieco di violino sbagliò per ben due volte l’accordo e il cantante, che aveva cercato invano di ravvivare la sala, stonò fragorosamente quando il coltello di Sertano brillò sotto la manica destra della sua giacca di raso rosso.

Intorno tutti si scostarono, ma nessuna femmina fuggì, nessun uomo intervenne. Sertano guardò Diego Juarez con aria di sfida deciso a trattenere la sua donna, poi gettò ai piedi dell’uomo il mozzicone di sigaretta accesa. Rideva, rideva sempre in queste occasioni e con fare sprezzante sputò sugli stivali di pelle nera di Diego per dimostrare tutto il coraggio alla sua donna.
Ma durò poco. Quel riso si spense contro un pugno simile ad una cannonata. Quella forza di Dio lo colpì in pieno volto. Qualcuno sentì rumore di ossa. L’uomo cadde a terra, due denti schizzarono via nel vuoto insieme al coltello e immediatamente il suo occhio destro divenne più nero della notte fonda.

Diego per nulla scomposto, si voltò, raccolse il coltello di Sertano e lo ripose con cura nel suo gilet. Aveva vinto e inginocchiandosi davanti ad Amalia le chiese di ballare e poi, a voce più alta, in modo che tutti sentissero, le chiese la notte intera. Lei lo accolse come vincitore e gli gettò le braccia al collo. Lui guardò di nuovo Sertano, il sangue cominciava a insozzare il pavimento di legno, per un momento rimase perplesso, ma poi prese Amalia per mano gridando ai musicanti di suonare tango e milonga, e agli altri spettatori di ballare e bere alla salute della bella dama. La milonga passò come fuoco da una parte all'altra posandosi sui tavoli e sui taglieri colmi di carne, la sala si rianimò e tutti cominciarono a bere e cantare.

La musica salì e crebbe imperiosa, seguendo le belle gambe dritte di Amalia fasciate di nero e solcate da una cucitura in bella mostra pronta per l’amore. Lei, fiera di essere la prescelta, schiuse le labbra come fosse già maggio, come fosse la rosa stampata sul suo scialle. Era bella Amalia con il suo viso sfrontato e i cerchi d’oro da zingara. Sapeva di femmina e sesso a disposizione, di terra argentina e meridione, di lunghi coltelli di sangue e passione, che a rivoli correva lungo la strada, come rigurgiti d’acqua risucchiati da fogne.

Fuori qualcuno gridò da una finestra, erano urla di cuore e castigo, urla di gelosia che consumava vendetta, e Diego continuò a ballare e toccare, e Diego continuò a strizzare quei seni abbondanti che sapevano di madre, di terra e tango, d’emigranti e lingue lontane. Sapevano di dominio, di quell’inetto di Sertano steso ancora sul pavimento, incapace di difendere la sua donna, di dimostrare d’essere uomo vero.

Le mani compiaciute di Diego scivolarono lungo la schiena, esperte ossessive si muovevano in fretta, a volte pesanti facevano attrito, a volte leggere seguivano le forme, come se sapessero quale fosse il momento, il punto preciso in cui una donna lasciava all’uomo il potere di sentirsi più maschio. Ed era tango, tango argentino, avanzi di notte e lamenti di mogli, che aspettavano sveglie l’ultimo turno, ed era musica sporca e calze a rete, sesso umido e tette in mostra come balconi fioriti. Ed era Amalia, cosce opulenti che si muovevano ad arte, era quel sesso duro sulla sua stoffa voluttuosa, sulle pieghe del velluto raggrinzite d’amore, sul suo seno sciupato dai tanti amanti di notte, come prima Sertano, come ora Diego perso dentro i suoi occhi, che valeva per quanto l’avrebbe fatta godere.

E allora Diego si rivolse al violinista cieco e gli ordinò di intonare Naranjo en flor, una Guardia vieja d’amore. Poi trionfante penetrò gli occhi Amalia. Era solo il primo atto di una lunga notte quando il tango si fece strada sulle tavole di legno della locanda di Giulia per poi spargersi tra le case di Villa Santa Rita aiutato dal vento che portava odore di caprifoglio e le stelle a far da contorno. E fu a quel punto che iI cieco del violino tirò fuori una languida habanera, bella e sensuale come tutte le notti, bella come Amalia che apriva la bocca e scopriva le tette in quel vortice di sensualità e pelle nera danzando e simulando amore come se nulla fosse successo.

Le altre femmine ballavano coi forestieri, ma tutti aspettavano la reazione di Sertano che non venne. Era praticamente immobile, solo il suo sangue continuava a colare dal labbro inferiore e dall’occhio destro. Colava ed anneriva la cravatta rosso sangue. Il suo volto aveva l’aria stanca dei defunti. E pensare che era stato solo un pugno, un unico pugno! Alla fine di quel primo ballo una donna pietosa gli portò dell’acquavite e stracci bruciati. L'uomo non diceva nulla, non si lamentava. Amalia lo guardava sperduta, ma continuava a ballare il tango, la milonga, ed a farsi toccare i fianchi ed il seno. Diego era il suo nuovo uomo, forse solo per quella sera, sicuramente per la notte intera! Lui allora la baciò e per rassicurarla le sussurrò all’orecchio: «Non preoccuparti, per morire bisogna essere vivi!»

Fu a quel punto che lui le chiese la notte e lei sorrise pensando a quanto sarebbe stata superflua una sua risposta. E allora uscirono dal locale, lasciando dietro di loro il lamento del violino e gli sguardi curiosi degli altri avventori. La notte di Villa Santa Rita li accolse con un vento umido che scompigliava i capelli neri di Amalia e portava con sé il profumo dolce del caprifoglio mischiato all’odore acre di terra e sudore. Lui la teneva stretta per la vita, era di sua proprietà almeno per quella notte. Lei si lasciava stringere, il passo deciso, i tacchi che battevano sul selciato sconnesso, lo scialle con la rosa stampata che le scivolava appena sulle spalle, scoprendo la pelle abbronzata e i cerchi d’oro che tintinnavano leggeri e volgari.

Non parlarono molto lungo la strada. Non c’era bisogno di parole. Ogni tanto Diego le lanciava un’occhiata, un sorriso che si apriva su quel volto duro, segnato da una vita che non aveva mai conosciuto la dolcezza. Amalia rispondeva con uno sguardo sfrontato, gli occhi scuri che brillavano di una luce selvaggia, come se lo stesse sfidando tenendogli testa.

La pensione non era lontana, un edificio basso e malandato a pochi isolati dal locale, con un’insegna sbiadita che oscillava cigolando al vento. Una luce fioca filtrava dalla porta socchiusa, e il gestore, un uomo anziano con la faccia rugosa e gli occhi assonnati, non fece domande. Prese i pesos che Diego gli lanciò sul banco e senza nemmeno alzare lo sguardo indicò una stanza in fondo al lungo corridoio.

Lo attraversarono in fretta tra le risate sguaiate di Amalia e gli occhi vogliosi di Diego che passo dopo passo si resero conto di quanto sangue facesse quel sedere. Entrarono. La stanza era piccola: un letto con le lenzuola sgualcite, una sedia di legno traballante e una finestra con le tende lacere che lasciavano intravedere il chiarore dell’alba ormai prossima. Appena la porta si chiuse alle loro spalle, Diego la attirò a sé, le mani scivolarono lungo la schiena di Amalia senza attrito e senza più il bisogno di dimostrare nulla a nessuno. Lei gli si abbandonò con le labbra schiuse, le belle tette in avanti come segno di sfida e il respiro caldo che sapeva di vino e passione. Lo scialle cadde a terra, seguito dal rumore sordo degli stivali di Diego contro il pavimento mentre si liberava del cappello e del gilet.

Non ci fu delicatezza, non ci furono parole d’amore e nessuno dei due pretese leggerezza e né tantomeno quel dolce sapore di baci sospirati che precedono l’amore. Erano solo morsi di labbra avide e un desiderio crudo, urgente, che si consumava tra le pieghe del velluto di lei e la ruvidità delle mani callose del maschio voglioso.

Diego non ci pensò due volte e la prese come in un duello, con la stessa sicurezza con cui aveva affrontato Sertano, un misto di forza e istinto. Amalia lo lascava fare e rispondeva con una sensualità che sembrava scolpita nella sua carne, nei suoi movimenti sinuosi, nel modo in cui gli si aggrappava come se volesse strappargli l’anima. Il letto cigolava sotto il loro peso, i muri sottili della pensione lasciavano trapelare ogni suono, ma fuori il mondo taceva, avvolto nel torpore dell’alba.

Passarono ore, o forse solo istanti, persi in quel groviglio di corpi e respiri affannati. Nessuna promessa, nessuna parola che prevedesse un domani, ma solo fuoco che bruciava con violenza, un intreccio di passione che trovava la sua essenza nel dominio e nella resa, nella sfida e nell’abbandono. Erano attimi spaiati senza che nulla li legasse o trovasse una colla che sapesse di sentimento. Come un coltello che affonda nella carne e poi si ritrae, come una milonga sporca e carnale che rifletteva solo le loro anime ruvide, forgiate da una vita di lotta e istinto.

In quella pensione di Villa Santa Rita, tra le lenzuola sgualcite e i muri che odoravano di muffa e sudore, Diego portava con sé una mascolinità aspra, quasi primordiale. Le sue mani callose non chiedevano permesso: prendevano, stringevano, esploravano quella carne in un bisogno di possesso che andava oltre il piacere fisico.

Era come se in quel corpo, cercasse il riscatto dei suoi vent’anni di galera e per questo la marchiava e per questo cercava di lasciarle un’impronta che nessun altro potesse più cancellare. Il pugno che aveva steso Sertano era lo stesso che ora si posava su di lei, pesante e possessivo, ma anche capace di scivolare con una precisione quasi ossessiva lungo le curve della schiena di lei, come se conoscesse ogni segreto della sua pelle. Per Diego, l’amore non era altro che combattere e conquistare, e Amalia era il suo trofeo, la preda e il saccheggio di una guerra che non avrebbe mai visto una fine.

Ma Amalia in quella lotta gli teneva testa, perché non era affatto una donna che si lasciava semplicemente prendere. La sua passione era altrettanto feroce, un fuoco che bruciava con la stessa intensità di quello di Diego, ma con una sfumatura diversa. Lei era una puttana e sapeva che per sopravvivere occorreva provocare e ribellarsi, un dare e riprendersi continuo senza mai cedere del tutto. Ora si stava concedendo a lui, ma la sua sensualità selvaggia era viva, il corpo che si muoveva come se danzasse ancora quel tango della sala e i suoi occhi restavano accesi, guardinghi e mai completamente sottomessi. Le sue unghie laccate di rosse lasciavano segni sulla pelle di Diego, lo sfidava con ogni respiro, ogni gemito, come a dirgli che poteva averla, sì, ma mai del tutto. Perché Amalia non cercava protezione, ma un uomo che potesse starle al passo, che sapesse rispondere alla sua furia con una furia ancora più grande.

I loro corpi continuarono ad amarsi e scontrarsi come tempeste, senza preliminari inutili, senza parole che potessero attenuare l’urgenza. Ogni tocco era un’affermazione, ogni morso un sigillo, ogni spinta un grido soffocato di chi sa che il confine tra amore e dolore è sottile come la lama del coltello di Sertano. In quel duello non c’era spazio per la tenerezza, perché nessuno dei due era disposto a cedere oltre il dovuto. Diego la stringeva fino a farle male, e lei rispondeva con una forza che lo spingeva a volerla di più, in un ciclo infinito di sfida e conquista, di sudore e urla scomposte, brividi di pelle e graffi e segni rossi in un moto perpetuo di complicità.

Si capivano senza bisogno di dirselo, si riconoscevano come due anime tagliate dalla stessa stoffa ruvida, dal sangue dei vicoli e le notti di tanto argentino, dalle stesse esperienze di galera e bordello. Quella passione parlava lo stesso linguaggio e nessuna miseria, nessun Sertano steso a terra, nessuna alba inclemente avrebbe potuto spegnerli.

Quando si fermarono, esausti, con il fiato corto e i corpi ancora intrecciati, non ci fu bisogno di promesse o di sguardi languidi. Si erano dati tutto ciò che avevano: la rabbia, il desiderio, la voglia di sfidarsi, anche solo per una notte. Il loro amore era stato un temporale che lasciava dietro di sé terra bagnata e rami spezzati: non costruiva nulla, non durava in eterno.

Amalia ora giaceva accanto a lui, i capelli sparsi sul cuscino come un’ombra nera, il seno che si alzava e abbassava piano, mentre Diego fumava una sigaretta con lo sguardo fisso al soffitto screpolato. Non si dissero nulla. Non c’era bisogno di parole: quella notte era stata un patto tacito, un duello argentino, un fuoco che si era acceso e si sarebbe spento con la luce del giorno.

Fuori, il sole cominciava a tingere di rosso le case sparse di Villa Santa Rita portando con sé la fine di quell’incendio. Il vento portava ancora l’eco lontana di un tango, ma nella pensione tutto era silenzio, rotto solo dal respiro di Amalia che scivolava nel sonno e dal crepitio della sigaretta che Diego consumava lentamente, sapendo che, presto o tardi, la vita li avrebbe rimessi in cammino, ognuno per la propria strada, ognuno nella propria disgrazia di vivere. Ma per ora, quella notte era stata loro, e tanto sarebbe bastata fino al prossimo tango argentino.










Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.
Liberamente tratto da: J.L. Borges,
UOMO DELLA CASA ROSA,
da Storia Universale dell’Infamia, 1935


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