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RACCONTO
 
 
Adamo Bencivenga
SESSO CON LA MIA CAPA
Lavoravo da anni in una grossa banca a livello nazionale, avevo fatto una discreta carriera e nella scala gerarchica sopra di me avevo solo il Capo, anzi la Capa, una signora affascinante cinquantenne, laureata in Economia alla Sorbona, sposata e senza figli con un medico chirurgo.
 



 


 
Lavoravo da anni in una grossa banca a livello nazionale, avevo fatto una discreta carriera e nella scala gerarchica sopra di me avevo solo il Capo, anzi la Capa, una signora affascinante cinquantenne, laureata in Economia alla Sorbona, sposata e senza figli con un medico chirurgo.

Sempre elegante e raffinata, non l’avevo mai sentita alzare la voce ed anche nei momenti di tensione in ufficio manteneva sempre un tono basso con quel caratteristico accento francese che gli anni parigini avevano scolpito nella sua voce. Mai una volta mi era capitato di vederla dimessa, un capello fuori posto o un vestito che non fosse un’opera d’arte di seta e cachemire con tonalità sobrie che le aderivano al corpo con una grazia quasi innaturale.

Tra noi, negli anni, si era instaurata una certa simpatia, ma non eravamo mai andati oltre un caffè nel break di mezza mattina o qualche pasto veloce nella pausa pranzo, parlando sempre e solo di numeri, investimenti, strategie e bilanci. Lei, donna in carriera, in più di vent’anni non aveva mai saltato un giorno per malattia o si era assentata qualche ora per questioni personali, insomma un muro di professionalità che non lasciava spiragli.

Era praticamente impossibile sentirla accennare a qualcosa di personale, non so il marito, un ricordo, un’emozione, una vacanza o un banale contrattempo. Niente di niente. In quell’ufficio di vetro, trasparente e incontaminato, lei era la Capa e io l’addetto, lei tailleur ed io cravatta, e tutto il nostro privato, compresi malesseri, passatempi, gioie e dolori restavano rigorosamente fuori, come un bagaglio dimenticato sulla porta di una stanza d’albergo.

Al tempo ero da poco sposato con Laura ed eravamo in attesa del nostro primo figlio. C’eravamo conosciuti tra i banchi del liceo e sin da subito l’avevo amata pazzamente. Il nostro rapporto andava a gonfie vele anche se era inevitabile da parte mia fare dei paragoni e notare certe differenze con la mia Capa, ma Laura, ragazza semplice all’acqua e sapone, non perdeva giorno per farmi sentire importante e darmi tutto il suo smisurato affetto.

La Capa invece, colta e preparata, mi aveva sempre dato una sicurezza granitica nel lavoro. Era un piacere starle accanto, assorbire il suo carisma e far tesoro della sua calma e forse per questo motivo nel tempo mi ero guadagnato la sua fiducia. Sempre un sorriso, un “Sì, dottoressa”, ed anche quando il gioco si faceva duro e impegnativo svolgevo il compitino del bravo bancario senza mai deluderla.

Insomma mi dividevo tra casa e lavoro, tra moglie e Capa, ricevendo da loro quello di cui avevo bisogno e separando razionalmente alle cinque in punto le due figure femminili della mia vita anche se, per esigenze lavorative, era capitato alcune volte di andare in missione insieme a Milano, Firenze e una volta persino a Londra. Viaggi di lavoro impeccabili, tra aerei e treni, riunioni interminabili e cene formali dove la mia Capa ordinava un calice di Sancerre Blanc ed io un rosso qualunque, ma sempre e comunque a parlare di tassi, fondi, tendenze di mercato e strategie.

Poi però c’era stata quella missione a Torino. Il viaggio, come sempre, aveva un sapore di dovere misto a un’elettricità indefinita, un filo teso che vibrava tra le sue istruzioni precise e il mio goffo tentativo di starle al passo. Era novembre, l’aria umida e fredda della sera ci aveva accolti dopo una giornata di trattative estenuanti con un cliente ostinato. L’hotel era uno di quei posti eleganti, ma anonimi, con moquette rossa e lampade di design. Come capitava spesso lei aveva preferito cenare in albergo, niente ristoranti affollati, niente distrazioni superflue. “Meglio concentrarsi... per essere poi in forma la mattina successiva.” diceva.

Seduti in disparte accanto ad un’ampia finestra, mi ero subito reso conto di quanto fosse piccolo quel tavolo, troppo piccolo per chi, come me, cercava di mantenere una distanza di sicurezza da quel carisma magnetico che lei emanava senza sforzo.

Lei aveva ordinato un risotto al tartufo ed io, quasi per riflesso, avevo scelto una tagliata di carne, sperando che il gesto mi desse un’aria di risolutezza che in realtà non possedevo. Durante quell’attesa, in quel silenzio che lei dominava con naturalezza, proprio di chi sa che il mondo gira al suo ritmo, evitavo di guardarla, ma era impossibile. Il modo in cui inclinava appena la testa, lasciando che una ciocca di capelli le sfiorasse la spalla scoperta, era un dettaglio che mi colpiva come un pugno allo stomaco.

Il suo sguardo, di solito concentrato su qualche piano strategico da orchestrare e portare a termine, si era ammorbidito al punto che avevo percepito qualcosa di diverso, come se mi stesse studiando, soppesando qualcosa che non riuscivo a decifrare, e quel mistero mi avvolgeva come il profumo del tartufo che saliva dal suo piatto.

“Ti vedo teso…” Aveva poi detto dopo quel lungo silenzio e poggiando la forchetta sul piatto con una calma studiata. La sua voce era una nota vellutata, ma ferma che sembrava sfiorare il confine tra il rimprovero e la seduzione. Le sue labbra si erano curvate appena in un accenno di sorriso ed io ero arrossito come un adolescente colto in fallo. I suoi occhi, grandi e profondi, si erano incollati ai miei per un istante a dir poco eterno. C’era una luce lì dentro, un guizzo che poteva essere curiosità, scaltrezza, divertimento o qualcosa di più pericoloso, qualcosa che mi faceva tremare le gambe ben allineante sotto il tavolo.

“Non sono teso…” avevo risposto, ma la mia mente era un nodo di pensieri incoerenti, divisi tra il desiderio di capire cosa ci fosse dietro quell’atteggiamento insolito e la paura di scoprirlo. Timoroso e in attesa della prossima mossa restavo lì, intrappolato nel suo gioco, incapace di chiedere, di osare, di fare altro se non subire il fascino di quella donna che, con un solo sguardo, poteva ridurre in cenere ogni mia difesa.

Finita la cena, insolitamente dalle altre volte, prima di recarci nelle nostre stanze lei aveva proposto un ultimo bicchiere al bar della hall. “Un digestivo, Marco?” Il tono era stato così confidenziale che avevo percepito quel nome come una nota estranea alla sua bocca, non so, quasi intima. Seduti sui trespoli oro e nero del bancone, in attesa di due Armagnac riflettevo sul fatto che tutta la durata della cena non fosse stata affatto riempita dalle solite parole di lavoro.

Beh sì, era stata enigmatica e pensierosa, come se per la prima volta la sua mente fosse volata per altri lidi ed anche in quel momento, assorta, girava il bicchiere del suo brandy francese così lentamente che le sue unghie laccate di un rosso scuro catturavano tutta la luce intorno. Poi sulla coda di quel pensiero aveva rotto quel silenzio chiedendomi: “Sei stanco?”
“Un po’.” Avevo risposto con la voce incerta credendo di compiacerla. Lei però aveva sospirato offrendo involontariamente al mio sguardo la sua camicia di seta bianco panna, trasparente quel tanto e quel poco da mostrare un intrigante merletto lilla. Subito dopo, tanto per dire qualcosa, avevo aggiunto: “E lei? Non si stanca mai?”

“Non lo do a vedere.” Aveva risposto con un sorriso appena accennato e posando delicatamente il calice vuoto sul marmo. Legata nel suo ruolo forse avrebbe voluto dire altro, ma guardandomi intensamente, come se mi vedesse per la prima volta, aveva aggiunto: “Ma stasera sì, è vero, stasera sono molto stanca…” Quella frase era scivolata lungo il bancone rimanendo sospesa nel vuoto di quella grande sala.

Non so chi abbia fatto il primo passo. Forse io, quando alzandomi avevo sfiorato il suo braccio per seguirla verso l’ascensore, o forse lei, quando aveva lasciato che la mia mano le sfiorasse quel gomito mentre salivamo al settimo piano. Era di fatto la prima volta che tra noi gli spazi si erano così ristretti da non percepire più quella distanza fisica e di ruolo. Per l’emozione avevo sentito un grande vuoto interiore che il mio respiro non riusciva a riempire. Tra un misto di ansia e imbarazzo mi ero chiesto cosa mi avrebbe riservato quella serata, ma non avevo avuto il tempo di realizzare perché lei, dopo aver aperto la porta della sua camera, mi aveva invitato ad entrare con un solo impercettibile movimento della testa.

Ricordo perfettamente quella stanza, molto più grande della mia, un letto a due piazze con quatto cuscini in pila, le tende nere pesanti, le pareti damascate, la luce soffusa e una bottiglia di champagne da stappare in bella mostra sul comodino.
Non ricordo chi abbia chiuso la porta, ma ricordo perfettamente, appena un secondo dopo, le sue braccia sulle mie spalle, il suono del suo respiro e quel sussurro francese spezzato quando le mie mani avevano trovato nella penombra i suoi fianchi morbidi. Lì in piedi, le pieghe di seta della sua camicetta si arrendevano dolcemente al mio sguardo curioso, e lei, serrando le palpebre, mi aveva attirato a sé poggiando le sue labbra vellutate sulle mie, che sapevano di rossetto, Armagnac e di qualcosa di più antico e tremendamente pericoloso.

Era la mia Capa, la donna più inavvicinabile di tutto lo scibile femminile dell’universo eppure in quel momento la sentivo fremente tra le mie braccia, come se quel gesto avesse in meno di un niente cancellato distanze di anni, ma anche la mia condizione di marito e nel contempo la figura di una moglie che a mezzanotte precisa mi avrebbe telefonato per augurarmi una dolcissima buonanotte.

Da lì, a breve, era successo tutto rapidamente. La sua gonna come un sussurro, scivolando giù lungo le sue gambe avvolte da calze di nylon nero, si era arresa alla gravità e scendendo come seta liquida sotto la luce fioca della lampada si era adagiata sulla moquette con una grazia quasi magica.

Lei, la grande Capa, era tutta lì, davanti a me, in piedi, con una lingerie nera e lilla da sogno e solo una camicetta, leggera come un soffio, con una serie infinita di bottoni madreperla tesi come se implorassero di essere liberati.
Sì, era lì davanti a me, ad un passo dal mio delirio con quei seni stupendi, caldi e materni, il suo respiro lento, caldo e magnetico e i suoi occhi verdi, come due lame scintillanti, che cercavano nei miei una risposta complice. “Quanto ti ho sorpreso?” Mi aveva chiesto.

La sua voce sensuale era simile ad un velluto che mi accarezzava la pelle anche senza toccarmi. Il suo profumo di gelsomino e tabacco in un attimo aveva avvolto e travolto come una mareggiata i miei sensi, mentre le sue dita senza più controllo scendevano e risalivano tracciando linee immaginarie di provocazione che mi facevano letteralmente tremare.
“Rispondi, Marco…” Aveva insistito con il tono della sua voce che si abbassava ad arte come una doppiatrice di un film americano in bianco e nero. “Dimmi che non te l’aspettavi da me. Dimmi che mi credevi fredda, distante...”

“Non so cosa credevo.” Avevo risposto con la voce incrinata e la gola secca come carta bruciata. “Forse sì, ho sempre sperato che avvenisse… ma non credevo in questo modo. Non… così. Per me sei immateriale, qualcosa che si può desiderare solo in un sogno.”
Lei aveva sorriso con un ghigno crudele e irresistibile, e poi, calandosi ancor più nella parte dell’istigatrice, aveva slacciato con un gesto ad arte il primo bottone della sua camicetta, poi il secondo, il terzo… lasciando intravedere la curva morbida del suo seno, la pelle pallida segnata appena da una costellazione di piccolissimi nei. “Non sono un sogno, Marco, sono vera, in carne ed ossa.” E poi slacciando il reggiseno aveva aggiunto: “E ora che mi vedi? Ora che sono qui, cosa vorresti fare?”

Ma non c’era risposta in quell’invito perché le sue unghie già all’opera, attraverso la stoffa della mia camicia, graffiavano la mia schiena fino a farmi rabbrividire. Senza perdere tempo mi aveva guidato e poi spinto contro il bordo del letto, e facendomi cadere all’indietro, si era chinata su di me come un cacciatore sulla sua preda. Tremavo, respiravo pesantemente e nel timore di svegliarmi subito dopo cercavo di non perdere alcun dettaglio, ma era tutto così tremendamente vero!

La stanza era immersa in un silenzio rotto solo dal fruscio delle lenzuola e dal respiro che, dapprima trattenuto, si era ormai arreso a un ritmo irregolare. Lei stava scavando un solco netto nella mia anima, tracciando il confine tra ciò che ero e ciò che desideravo essere per lei. Mi stava guidando con la stessa autorità naturale con cui dirigeva ogni cosa, ma ora sentivo una dolcezza feroce nei suoi gesti, un contrasto che mi annientava.

Sopra di me si muoveva con una grazia che aveva il sapore del dominio e della resa insieme. La luce fioca della lampada sul comodino accendeva riflessi dorati sulla sua pelle, e ogni curva del suo corpo sembrava scolpita per provocarmi e spingermi oltre ogni limite.
Confuso e inesperto, tentavo di reagire, di toccarla, stringerla, ma ogni mio movimento era esitante, quasi reverenziale. Lei lo percepiva e ancora più determinata tra un bacio e l’altro aveva sussurrato: “Non dirmi che hai paura… Non dirmi che non mi vuoi.” Un filo di seta che si era intrecciato tra il mio respiro accelerato e le sue labbra carnose. Eccitato avevo chiuso gli occhi gustandomi ciò che sarebbe avvenuto subito dopo.

Incapace di resistere a quella corrente che mi trascinava avevo rotto gli argini: “Ti voglio, sì che ti voglio… Ti ho sempre voluta, Camilla, ma non immaginavo di giocare in questo modo.”
“Perché esiste un altro gioco?” Aveva risposto con la sua lingua che tracciava una linea lenta accendendo scintille lungo il contorno della mia bocca. “Guardami, è tutto quello che sono. Prendimi senza pensarci.” Ma non c’era fretta nei suoi movimenti, solo una sicurezza che mi guidava, che mi insegnava a desiderarla senza vergogna. Lei era fuoco, io cenere che si accendeva al suo tocco; lei era tempesta, io il mare che si lasciava sconvolgere. Ogni carezza, ogni pressione delle sue dita, ogni sguardo che mi lanciava, tra un respiro e l’altro, era un comando silenzioso a cui non potevo, non volevo disobbedire.

Lei mi guardava con quegli occhi magnetici, come se sapesse qualcosa che io ancora non comprendevo, ma che era diventato reale un momento dopo quando scivolando e scendendo con la bocca sul mio petto aveva indugiato maliziosa sul mio piacere ben evidente, mentre il suo corpo morbido e deciso premeva contro il mio. Ero perso… “E tu? Tu mi vuoi, sei sicura?” Lei aveva sorriso: “Ti voglio perché stasera sei qui. Perché sei l’unico uomo a cui potrei darmi. Perché mi guardi come se fossi l’unica donna al mondo. Ma non illuderti, non appartengo a nessuno, sono di chi voglio essere e per quanto lo desidero…”

Non c’era bisogno di altre parole, ma solo di quella passione che non era tardata a farsi vortice e groviglio di corpi su quel letto. Il suo seno, morbido e tiepido, segnato appena dal tempo, era seta sotto le mie mani. Una piccola ruga vicino all’ombelico, un’ombra di smagliatura sulle gambe e quel velo di umido tra le cosce la rendevano reale, umana, non più la mia Capa distante e intoccabile.
Baciavo ogni centimetro della sua pelle e la sentivo mia, finalmente mia, con le sue calze che avevano ceduto alle mie dita impazienti, il nylon che si arrendeva con un suono secco, liberando la carne calda delle sue gambe.
“Dimmi che sono abbastanza per te. Dimmi che non ti pentirai di questo.”
“Sei tutto.” Avevo risposto con la voce impastata e le mani che stringevano i suoi fianchi e si insinuavano nelle sue parti intime. “E non mi pentirò mai.” Ma lei era già oltre, mi stringeva, ansimava, gemeva e mi reclamava: “Allora dimostramelo. Ora.”

In quel momento, vedendola così presa, per la prima volta, mi ero sentito indispensabile, adatto alle sue emozioni, come se il suo desiderio mi riscrivesse di sana pianta, mi rendesse nuovo, un uomo capace finalmente di perdersi in quell’intreccio di labbra, lingue e sospiri, in quel pensiero stupendo che mi aveva travolto senza lasciarmi scampo. Non vedevo più la Capa che impartiva ordini con freddezza, la donna inaccessibile, ma una creatura che si abbandonava, che si scioglieva tra le mie braccia come cera sotto una fiamma.
Non so quanto sia stato io a penetrarla o sia stata lei a farsi capiente, attratto dal magnetismo delle sue gambe aperte affondai in quel mare in tempesta lasciandomi sbattere da quei flutti e non sapendo bene quale ancora di salvezza avessi trovato dopo. Durante l’amore sentivo la sua voce mista a saliva che mi chiamava “Marco” in un gemito che mi squarciava pelle e cuore, sesso e cervello. Eh già io l’avevo sempre amata e solo ora me ne rendevo conto al punto che per un attimo avevo creduto che fosse tutto vero, che quello non fosse solo sesso e quel vetro trasparente dell’ufficio si fosse frantumato per sempre.

Sì certo aveva urlato, mi aveva detto più volte “Fammi tua” fino a quando dopo l’ennesimo orgasmo, stremati avevamo fissato insieme il soffitto con il sudore che si mescolava al profumo della sua pelle, il silenzio che si era posato su di noi come un lenzuolo di seta. Ero stato suo, completamente, e lei lo sapeva. Ma era stato un momento, non più di un minuto perché subito dopo si era alzata e come se non fosse successo nulla aveva recuperato le sue mutandine e il suo reggiseno con una calma quasi indifferente che mi aveva gelato. Senza più guardarmi aveva aperto la finestra e si era accesa una sigaretta. Era la prima volta che la vedevo fumare.

Ammiravo il suo corpo, incredulo che fosse stato mio, ma subito dopo avevo sentito la sua voce con quel leggero accento francese che mi tagliava in due come una lama affilata: “Vai, ora.” Ebbene sì, il tempo era inesorabilmente scaduto e dopo l’amore non c’era posto per baci, coccole, intimità, la ragione per cui si era concessa e le promesse d’amore. Incredulo e sconsolato avevo raccolto i miei vestiti ed uscendo mi ero voltato, ma lei di spalle era rimasta a guardare la notte. Chissà forse si era pentita o più probabilmente il suo fare sesso non faceva rima con l’amore.

Tornando nella mia stanza, sentivo ancora il cuore martellarmi nel petto, il suo profumo ancora addosso che sapeva di gelsomino e di colpa, eh sì anche di colpa, ossia un’essenza che non avrei mai potuto lavare via.

Il giorno dopo, come se nulla fosse successo, mi aveva salutato nella hall con un semplice cenno. Impeccabile nel suo tailleur nero aveva parlato di incombenze e di impegni lavorativi da sbrigare quella mattina. Ma io non ero più lo stesso. Ogni volta che la guardavo sentivo una fitta, un desiderio che si mescolava a un’onda nera di vergogna. Era sposata, era la mia Capa, ma soprattutto c’era Laura, mia moglie, a casa, che mi aspettava per la sera. Laura, con i suoi capelli castani sempre raccolti in una coda morbida, lei con il suo smisurato affetto e la sua voce che mi chiedeva “Com’è andata oggi?” Senza mai sospettare che io potessi tradirla. Ed invece era successo!

Sul treno delle 14,47 che ci riportava verso Roma, guardavo Camilla con la sua aria imperturbabile concentrata su una rivista finanziaria. Beh sì, lei non sentiva sensi di colpa, in effetti quell’amore era stato solo un diversivo, quasi un compendio alle fatiche professionali, un intermezzo, come una pausa caffè propedeutico al lavoro, niente di più, mentre io assorto nei miei pensieri mi stavo divorando, pensando che, a differenza sua, per me era stato qualcosa di travolgente che aveva coinvolto i miei sentimenti e macchiato l’amore puro che fino ad allora avevo provato per mia moglie.

Prima di tornare a casa e salire le scale avevo fatto un giro a piedi. Non potevo presentarmi in quello stato! Quando avevo aperto la porta Laura era lì ad accogliermi: “Sei in ritardo…” aveva detto, senza alcun rimprovero. L’avevo guardata e, notando la sua semplicità, mi ero sentito un verme. “Sì, il treno…” avevo mentito con la voce strozzata, mentre il ricordo della Capa, nuda e ansimante sotto di me, mi bruciava la mente. Avevo preso un po’ d’acqua, ma non riuscivo a berla, la gola era secca e chiusa, e il sapore dell’Armagnac era ancora lì, come un veleno.

*****

Da allora, ogni giorno è una tortura. In ufficio, la Capa mi dà ordini con quella voce calma e fredda che non ammette repliche. Come al solito rispondo “Sì, dottoressa…” ma dentro urlo. Ogni “sì” è un chiodo che mi inchioda al mio tradimento, ogni suo sguardo un’accusa che non oso confessare, ma allo stesso tempo la desidero con tutto me stesso, così tanto da sperare in un’altra missione lavorativa insieme o che ne so, una pausa pranzo in qualche motel clandestino sulla costa.

Quando torno a casa vedo Laura col suo sorriso ingenuo, le sue mani unite alle mie mentre guardavamo la TV e il senso di colpa mi soffoca. Mi chiedo se sul mio viso ci siano i segni dell’infedeltà, quanto da quella volta il mio odore sia diverso e se il mio silenzio sia a volte troppo pesante. “Tutto bene, Marco?” Mi dice corrugando la fronte, e io annuisco, incapace di guardarla negli occhi. “Solo stanco.” Gli dico ogni volta, ma è una bugia che mi pesa nel petto come una pietra facilmente da sollevare se lei fosse meno ingenua tanto da pensare che un marito per definizione non può mai tradire una moglie, figuriamoci incinta!

Mi sveglio di notte, il profumo di Camilla mi insegue anche nei sogni, mischiato all’immagine di Laura che dorme accanto a me, ignara di tutto. Mi vedo riflesso nelle pareti di vetro dell’ufficio, un uomo spezzato, un bancario che ha tradito per quella donna affascinante che forse non ricorda più Torino o scientemente lo ha cancellato dalla sua agenda piena solo di impegni lavorativi. Ed invece per me Torino è una città che sa di perdizione e ogni volta che Laura mi bacia, sento il sapore del mio peccato, e ogni volta che rispondo al telefono — “Ciao, amore” — la mia voce trema, come se lei potesse indovinare il mio segreto attraverso il filo e come se la mia Capa potesse sentirmi ed avere il pretesto per non invitarmi più tra le sue cosce bollenti. Lo so che mi illudo, lo so che ormai è solo un desiderio, io occupo solo il posto dell’addetto e infatti poco dopo mi chiama col suo tono neutro, gli occhi che non cercano i miei: “Marco, il report è pronto?”

“Sì, dottoressa…” rispondo con la voce strozzata e lo sguardo incapace di sostenere il suo. Non posso guardarla senza rivederla su quel letto, senza risentire il suo gemito, toccare il seno e affondare tra le sue cosce, ma allo stesso tempo non posso tornare a casa senza vedere Laura che mi aspetta, fiduciosa, mentre io porto dentro di me un tradimento che mi divora.

Mi ripeto che il mio disagio non deriva da quello che è successo quella sera, ma dal fatto che mi sento un infedele seriale anche se è accaduto solo una volta. Per me è di fatto un tradimento che continua senza se e senza ma, perché il mio desiderio è ancora lì, tra quella seta e quella gonna che scivolava lentamente sulla moquette.

Mille domande si accalcano sull’uscio della mia insicurezza e mi chiedo in serie se sono davvero innamorato di mia moglie e perché mai non riesco a dimenticare, chiedendomi subito dopo come reagirei se la mia Capa si facesse ancora avanti e se mi obbligasse a scegliere… Lascerei tutto per lei? Compreso il figlio in arrivo?

La cosa che mi sconvolge è che non riesco a darmi una risposta. Lei esercita un potere enorme su di me e non solo affettivo, tanto che non dimentico mai di essere un suo sottoposto e che da un giorno all’altro potrei ritrovarmi in qualche filiale di periferia o peggio di un’altra città. Sì, penso anche a questo, che lei potrebbe vendicarsi per aver ceduto, perché a tutti gli effetti sono io la causa del suo unico momento di debolezza.

Sono un uomo intrappolato tra due donne, anche se entrambe lo ignorano e continuano a vivere serenamente la loro vita. Il senso di colpa mi strangola, un nodo che non posso sciogliere, un peso che mi trascina giù, giorno dopo giorno, tra le pareti di vetro di questo ufficio e il calore di una casa che non merito più.










Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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