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RACCONTO

Adamo Bencivenga
SESSO CON LA MIA CAPA
Lavoravo da anni in una grossa banca
a livello nazionale, avevo fatto una discreta carriera e nella scala
gerarchica sopra di me avevo solo il Capo, anzi la Capa, una signora
affascinante cinquantenne, laureata in Economia alla Sorbona,
sposata e senza figli con un medico chirurgo.

Lavoravo da anni in una
grossa banca a livello nazionale, avevo fatto una
discreta carriera e nella scala gerarchica sopra di me
avevo solo il Capo, anzi la Capa, una signora
affascinante cinquantenne, laureata in Economia alla
Sorbona, sposata e senza figli con un medico chirurgo.
Sempre elegante e raffinata, non l’avevo mai sentita
alzare la voce ed anche nei momenti di tensione in
ufficio manteneva sempre un tono basso con quel
caratteristico accento francese che gli anni parigini
avevano scolpito nella sua voce. Mai una volta mi era
capitato di vederla dimessa, un capello fuori posto o un
vestito che non fosse un’opera d’arte di seta e
cachemire con tonalità sobrie che le aderivano al corpo
con una grazia quasi innaturale.
Tra noi, negli
anni, si era instaurata una certa simpatia, ma non
eravamo mai andati oltre un caffè nel break di mezza
mattina o qualche pasto veloce nella pausa pranzo,
parlando sempre e solo di numeri, investimenti,
strategie e bilanci. Lei, donna in carriera, in più di
vent’anni non aveva mai saltato un giorno per malattia o
si era assentata qualche ora per questioni personali,
insomma un muro di professionalità che non lasciava
spiragli.
Era praticamente impossibile sentirla
accennare a qualcosa di personale, non so il marito, un
ricordo, un’emozione, una vacanza o un banale
contrattempo. Niente di niente. In quell’ufficio di
vetro, trasparente e incontaminato, lei era la Capa e io
l’addetto, lei tailleur ed io cravatta, e tutto il
nostro privato, compresi malesseri, passatempi, gioie e
dolori restavano rigorosamente fuori, come un bagaglio
dimenticato sulla porta di una stanza d’albergo.
Al tempo ero da poco sposato con Laura ed eravamo in
attesa del nostro primo figlio. C’eravamo conosciuti tra
i banchi del liceo e sin da subito l’avevo amata
pazzamente. Il nostro rapporto andava a gonfie vele
anche se era inevitabile da parte mia fare dei paragoni
e notare certe differenze con la mia Capa, ma Laura,
ragazza semplice all’acqua e sapone, non perdeva giorno
per farmi sentire importante e darmi tutto il suo
smisurato affetto.
La Capa invece, colta e
preparata, mi aveva sempre dato una sicurezza granitica
nel lavoro. Era un piacere starle accanto, assorbire il
suo carisma e far tesoro della sua calma e forse per
questo motivo nel tempo mi ero guadagnato la sua
fiducia. Sempre un sorriso, un “Sì, dottoressa”, ed
anche quando il gioco si faceva duro e impegnativo
svolgevo il compitino del bravo bancario senza mai
deluderla.
Insomma mi dividevo tra casa e
lavoro, tra moglie e Capa, ricevendo da loro quello di
cui avevo bisogno e separando razionalmente alle cinque
in punto le due figure femminili della mia vita anche
se, per esigenze lavorative, era capitato alcune volte
di andare in missione insieme a Milano, Firenze e una
volta persino a Londra. Viaggi di lavoro impeccabili,
tra aerei e treni, riunioni interminabili e cene formali
dove la mia Capa ordinava un calice di Sancerre Blanc ed
io un rosso qualunque, ma sempre e comunque a parlare di
tassi, fondi, tendenze di mercato e strategie.
Poi però c’era stata quella missione a Torino. Il
viaggio, come sempre, aveva un sapore di dovere misto a
un’elettricità indefinita, un filo teso che vibrava tra
le sue istruzioni precise e il mio goffo tentativo di
starle al passo. Era novembre, l’aria umida e fredda
della sera ci aveva accolti dopo una giornata di
trattative estenuanti con un cliente ostinato. L’hotel
era uno di quei posti eleganti, ma anonimi, con moquette
rossa e lampade di design. Come capitava spesso lei
aveva preferito cenare in albergo, niente ristoranti
affollati, niente distrazioni superflue. “Meglio
concentrarsi... per essere poi in forma la mattina
successiva.” diceva.
Seduti in disparte accanto
ad un’ampia finestra, mi ero subito reso conto di quanto
fosse piccolo quel tavolo, troppo piccolo per chi, come
me, cercava di mantenere una distanza di sicurezza da
quel carisma magnetico che lei emanava senza sforzo.
Lei aveva ordinato un risotto al tartufo ed io,
quasi per riflesso, avevo scelto una tagliata di carne,
sperando che il gesto mi desse un’aria di risolutezza
che in realtà non possedevo. Durante quell’attesa, in
quel silenzio che lei dominava con naturalezza, proprio
di chi sa che il mondo gira al suo ritmo, evitavo di
guardarla, ma era impossibile. Il modo in cui inclinava
appena la testa, lasciando che una ciocca di capelli le
sfiorasse la spalla scoperta, era un dettaglio che mi
colpiva come un pugno allo stomaco.
Il suo
sguardo, di solito concentrato su qualche piano
strategico da orchestrare e portare a termine, si era
ammorbidito al punto che avevo percepito qualcosa di
diverso, come se mi stesse studiando, soppesando
qualcosa che non riuscivo a decifrare, e quel mistero mi
avvolgeva come il profumo del tartufo che saliva dal suo
piatto.
“Ti vedo teso…” Aveva poi detto dopo quel
lungo silenzio e poggiando la forchetta sul piatto con
una calma studiata. La sua voce era una nota vellutata,
ma ferma che sembrava sfiorare il confine tra il
rimprovero e la seduzione. Le sue labbra si erano
curvate appena in un accenno di sorriso ed io ero
arrossito come un adolescente colto in fallo. I suoi
occhi, grandi e profondi, si erano incollati ai miei per
un istante a dir poco eterno. C’era una luce lì dentro,
un guizzo che poteva essere curiosità, scaltrezza,
divertimento o qualcosa di più pericoloso, qualcosa che
mi faceva tremare le gambe ben allineante sotto il
tavolo.
“Non sono teso…” avevo risposto, ma la
mia mente era un nodo di pensieri incoerenti, divisi tra
il desiderio di capire cosa ci fosse dietro
quell’atteggiamento insolito e la paura di scoprirlo.
Timoroso e in attesa della prossima mossa restavo lì,
intrappolato nel suo gioco, incapace di chiedere, di
osare, di fare altro se non subire il fascino di quella
donna che, con un solo sguardo, poteva ridurre in cenere
ogni mia difesa.
Finita la cena, insolitamente
dalle altre volte, prima di recarci nelle nostre stanze
lei aveva proposto un ultimo bicchiere al bar della
hall. “Un digestivo, Marco?” Il tono era stato così
confidenziale che avevo percepito quel nome come una
nota estranea alla sua bocca, non so, quasi intima.
Seduti sui trespoli oro e nero del bancone, in attesa di
due Armagnac riflettevo sul fatto che tutta la durata
della cena non fosse stata affatto riempita dalle solite
parole di lavoro.
Beh sì, era stata enigmatica e
pensierosa, come se per la prima volta la sua mente
fosse volata per altri lidi ed anche in quel momento,
assorta, girava il bicchiere del suo brandy francese
così lentamente che le sue unghie laccate di un rosso
scuro catturavano tutta la luce intorno. Poi sulla coda
di quel pensiero aveva rotto quel silenzio chiedendomi:
“Sei stanco?” “Un po’.” Avevo risposto con la voce
incerta credendo di compiacerla. Lei però aveva
sospirato offrendo involontariamente al mio sguardo la
sua camicia di seta bianco panna, trasparente quel tanto
e quel poco da mostrare un intrigante merletto lilla.
Subito dopo, tanto per dire qualcosa, avevo aggiunto: “E
lei? Non si stanca mai?”
“Non lo do a vedere.”
Aveva risposto con un sorriso appena accennato e posando
delicatamente il calice vuoto sul marmo. Legata nel suo
ruolo forse avrebbe voluto dire altro, ma guardandomi
intensamente, come se mi vedesse per la prima volta,
aveva aggiunto: “Ma stasera sì, è vero, stasera sono
molto stanca…” Quella frase era scivolata lungo il
bancone rimanendo sospesa nel vuoto di quella grande
sala.
Non so chi abbia fatto il primo passo.
Forse io, quando alzandomi avevo sfiorato il suo braccio
per seguirla verso l’ascensore, o forse lei, quando
aveva lasciato che la mia mano le sfiorasse quel gomito
mentre salivamo al settimo piano. Era di fatto la prima
volta che tra noi gli spazi si erano così ristretti da
non percepire più quella distanza fisica e di ruolo. Per
l’emozione avevo sentito un grande vuoto interiore che
il mio respiro non riusciva a riempire. Tra un misto di
ansia e imbarazzo mi ero chiesto cosa mi avrebbe
riservato quella serata, ma non avevo avuto il tempo di
realizzare perché lei, dopo aver aperto la porta della
sua camera, mi aveva invitato ad entrare con un solo
impercettibile movimento della testa.
Ricordo
perfettamente quella stanza, molto più grande della mia,
un letto a due piazze con quatto cuscini in pila, le
tende nere pesanti, le pareti damascate, la luce soffusa
e una bottiglia di champagne da stappare in bella mostra
sul comodino. Non ricordo chi abbia chiuso la porta,
ma ricordo perfettamente, appena un secondo dopo, le sue
braccia sulle mie spalle, il suono del suo respiro e
quel sussurro francese spezzato quando le mie mani
avevano trovato nella penombra i suoi fianchi morbidi.
Lì in piedi, le pieghe di seta della sua camicetta si
arrendevano dolcemente al mio sguardo curioso, e lei,
serrando le palpebre, mi aveva attirato a sé poggiando
le sue labbra vellutate sulle mie, che sapevano di
rossetto, Armagnac e di qualcosa di più antico e
tremendamente pericoloso.
Era la mia Capa, la
donna più inavvicinabile di tutto lo scibile femminile
dell’universo eppure in quel momento la sentivo fremente
tra le mie braccia, come se quel gesto avesse in meno di
un niente cancellato distanze di anni, ma anche la mia
condizione di marito e nel contempo la figura di una
moglie che a mezzanotte precisa mi avrebbe telefonato
per augurarmi una dolcissima buonanotte.
Da lì,
a breve, era successo tutto rapidamente. La sua gonna
come un sussurro, scivolando giù lungo le sue gambe
avvolte da calze di nylon nero, si era arresa alla
gravità e scendendo come seta liquida sotto la luce
fioca della lampada si era adagiata sulla moquette con
una grazia quasi magica.
Lei, la grande Capa,
era tutta lì, davanti a me, in piedi, con una lingerie
nera e lilla da sogno e solo una camicetta, leggera come
un soffio, con una serie infinita di bottoni madreperla
tesi come se implorassero di essere liberati. Sì, era
lì davanti a me, ad un passo dal mio delirio con quei
seni stupendi, caldi e materni, il suo respiro lento,
caldo e magnetico e i suoi occhi verdi, come due lame
scintillanti, che cercavano nei miei una risposta
complice. “Quanto ti ho sorpreso?” Mi aveva chiesto.
La sua voce sensuale era simile ad un velluto che mi
accarezzava la pelle anche senza toccarmi. Il suo
profumo di gelsomino e tabacco in un attimo aveva
avvolto e travolto come una mareggiata i miei sensi,
mentre le sue dita senza più controllo scendevano e
risalivano tracciando linee immaginarie di provocazione
che mi facevano letteralmente tremare. “Rispondi,
Marco…” Aveva insistito con il tono della sua voce che
si abbassava ad arte come una doppiatrice di un film
americano in bianco e nero. “Dimmi che non te
l’aspettavi da me. Dimmi che mi credevi fredda,
distante...”
“Non so cosa credevo.” Avevo
risposto con la voce incrinata e la gola secca come
carta bruciata. “Forse sì, ho sempre sperato che
avvenisse… ma non credevo in questo modo. Non… così. Per
me sei immateriale, qualcosa che si può desiderare solo
in un sogno.” Lei aveva sorriso con un ghigno
crudele e irresistibile, e poi, calandosi ancor più
nella parte dell’istigatrice, aveva slacciato con un
gesto ad arte il primo bottone della sua camicetta, poi
il secondo, il terzo… lasciando intravedere la curva
morbida del suo seno, la pelle pallida segnata appena da
una costellazione di piccolissimi nei. “Non sono un
sogno, Marco, sono vera, in carne ed ossa.” E poi
slacciando il reggiseno aveva aggiunto: “E ora che mi
vedi? Ora che sono qui, cosa vorresti fare?”
Ma
non c’era risposta in quell’invito perché le sue unghie
già all’opera, attraverso la stoffa della mia camicia,
graffiavano la mia schiena fino a farmi rabbrividire.
Senza perdere tempo mi aveva guidato e poi spinto contro
il bordo del letto, e facendomi cadere all’indietro, si
era chinata su di me come un cacciatore sulla sua preda.
Tremavo, respiravo pesantemente e nel timore di
svegliarmi subito dopo cercavo di non perdere alcun
dettaglio, ma era tutto così tremendamente vero!
La stanza era immersa in un silenzio rotto solo dal
fruscio delle lenzuola e dal respiro che, dapprima
trattenuto, si era ormai arreso a un ritmo irregolare.
Lei stava scavando un solco netto nella mia anima,
tracciando il confine tra ciò che ero e ciò che
desideravo essere per lei. Mi stava guidando con la
stessa autorità naturale con cui dirigeva ogni cosa, ma
ora sentivo una dolcezza feroce nei suoi gesti, un
contrasto che mi annientava.
Sopra di me si
muoveva con una grazia che aveva il sapore del dominio e
della resa insieme. La luce fioca della lampada sul
comodino accendeva riflessi dorati sulla sua pelle, e
ogni curva del suo corpo sembrava scolpita per
provocarmi e spingermi oltre ogni limite. Confuso e
inesperto, tentavo di reagire, di toccarla, stringerla,
ma ogni mio movimento era esitante, quasi reverenziale.
Lei lo percepiva e ancora più determinata tra un bacio e
l’altro aveva sussurrato: “Non dirmi che hai paura… Non
dirmi che non mi vuoi.” Un filo di seta che si era
intrecciato tra il mio respiro accelerato e le sue
labbra carnose. Eccitato avevo chiuso gli occhi
gustandomi ciò che sarebbe avvenuto subito dopo.
Incapace di resistere a quella corrente che mi
trascinava avevo rotto gli argini: “Ti voglio, sì che ti
voglio… Ti ho sempre voluta, Camilla, ma non immaginavo
di giocare in questo modo.” “Perché esiste un altro
gioco?” Aveva risposto con la sua lingua che tracciava
una linea lenta accendendo scintille lungo il contorno
della mia bocca. “Guardami, è tutto quello che sono.
Prendimi senza pensarci.” Ma non c’era fretta nei suoi
movimenti, solo una sicurezza che mi guidava, che mi
insegnava a desiderarla senza vergogna. Lei era fuoco,
io cenere che si accendeva al suo tocco; lei era
tempesta, io il mare che si lasciava sconvolgere. Ogni
carezza, ogni pressione delle sue dita, ogni sguardo che
mi lanciava, tra un respiro e l’altro, era un comando
silenzioso a cui non potevo, non volevo disobbedire.
Lei mi guardava con quegli occhi magnetici, come se
sapesse qualcosa che io ancora non comprendevo, ma che
era diventato reale un momento dopo quando scivolando e
scendendo con la bocca sul mio petto aveva indugiato
maliziosa sul mio piacere ben evidente, mentre il suo
corpo morbido e deciso premeva contro il mio. Ero perso…
“E tu? Tu mi vuoi, sei sicura?” Lei aveva sorriso: “Ti
voglio perché stasera sei qui. Perché sei l’unico uomo a
cui potrei darmi. Perché mi guardi come se fossi l’unica
donna al mondo. Ma non illuderti, non appartengo a
nessuno, sono di chi voglio essere e per quanto lo
desidero…”
Non c’era bisogno di altre parole, ma
solo di quella passione che non era tardata a farsi
vortice e groviglio di corpi su quel letto. Il suo seno,
morbido e tiepido, segnato appena dal tempo, era seta
sotto le mie mani. Una piccola ruga vicino all’ombelico,
un’ombra di smagliatura sulle gambe e quel velo di umido
tra le cosce la rendevano reale, umana, non più la mia
Capa distante e intoccabile. Baciavo ogni centimetro
della sua pelle e la sentivo mia, finalmente mia, con le
sue calze che avevano ceduto alle mie dita impazienti,
il nylon che si arrendeva con un suono secco, liberando
la carne calda delle sue gambe. “Dimmi che sono
abbastanza per te. Dimmi che non ti pentirai di questo.”
“Sei tutto.” Avevo risposto con la voce impastata e
le mani che stringevano i suoi fianchi e si insinuavano
nelle sue parti intime. “E non mi pentirò mai.” Ma lei
era già oltre, mi stringeva, ansimava, gemeva e mi
reclamava: “Allora dimostramelo. Ora.”
In quel
momento, vedendola così presa, per la prima volta, mi
ero sentito indispensabile, adatto alle sue emozioni,
come se il suo desiderio mi riscrivesse di sana pianta,
mi rendesse nuovo, un uomo capace finalmente di perdersi
in quell’intreccio di labbra, lingue e sospiri, in quel
pensiero stupendo che mi aveva travolto senza lasciarmi
scampo. Non vedevo più la Capa che impartiva ordini con
freddezza, la donna inaccessibile, ma una creatura che
si abbandonava, che si scioglieva tra le mie braccia
come cera sotto una fiamma. Non so quanto sia stato
io a penetrarla o sia stata lei a farsi capiente,
attratto dal magnetismo delle sue gambe aperte affondai
in quel mare in tempesta lasciandomi sbattere da quei
flutti e non sapendo bene quale ancora di salvezza
avessi trovato dopo. Durante l’amore sentivo la sua voce
mista a saliva che mi chiamava “Marco” in un gemito che
mi squarciava pelle e cuore, sesso e cervello. Eh già io
l’avevo sempre amata e solo ora me ne rendevo conto al
punto che per un attimo avevo creduto che fosse tutto
vero, che quello non fosse solo sesso e quel vetro
trasparente dell’ufficio si fosse frantumato per sempre.
Sì certo aveva urlato, mi aveva detto più volte
“Fammi tua” fino a quando dopo l’ennesimo orgasmo,
stremati avevamo fissato insieme il soffitto con il
sudore che si mescolava al profumo della sua pelle, il
silenzio che si era posato su di noi come un lenzuolo di
seta. Ero stato suo, completamente, e lei lo sapeva. Ma
era stato un momento, non più di un minuto perché subito
dopo si era alzata e come se non fosse successo nulla
aveva recuperato le sue mutandine e il suo reggiseno con
una calma quasi indifferente che mi aveva gelato. Senza
più guardarmi aveva aperto la finestra e si era accesa
una sigaretta. Era la prima volta che la vedevo fumare.
Ammiravo il suo corpo, incredulo che fosse stato
mio, ma subito dopo avevo sentito la sua voce con quel
leggero accento francese che mi tagliava in due come una
lama affilata: “Vai, ora.” Ebbene sì, il tempo era
inesorabilmente scaduto e dopo l’amore non c’era posto
per baci, coccole, intimità, la ragione per cui si era
concessa e le promesse d’amore. Incredulo e sconsolato
avevo raccolto i miei vestiti ed uscendo mi ero voltato,
ma lei di spalle era rimasta a guardare la notte. Chissà
forse si era pentita o più probabilmente il suo fare
sesso non faceva rima con l’amore.
Tornando
nella mia stanza, sentivo ancora il cuore martellarmi
nel petto, il suo profumo ancora addosso che sapeva di
gelsomino e di colpa, eh sì anche di colpa, ossia
un’essenza che non avrei mai potuto lavare via.
Il giorno dopo, come se nulla fosse successo, mi aveva
salutato nella hall con un semplice cenno. Impeccabile
nel suo tailleur nero aveva parlato di incombenze e di
impegni lavorativi da sbrigare quella mattina. Ma io non
ero più lo stesso. Ogni volta che la guardavo sentivo
una fitta, un desiderio che si mescolava a un’onda nera
di vergogna. Era sposata, era la mia Capa, ma
soprattutto c’era Laura, mia moglie, a casa, che mi
aspettava per la sera. Laura, con i suoi capelli castani
sempre raccolti in una coda morbida, lei con il suo
smisurato affetto e la sua voce che mi chiedeva “Com’è
andata oggi?” Senza mai sospettare che io potessi
tradirla. Ed invece era successo!
Sul treno delle
14,47 che ci riportava verso Roma, guardavo Camilla con
la sua aria imperturbabile concentrata su una rivista
finanziaria. Beh sì, lei non sentiva sensi di colpa, in
effetti quell’amore era stato solo un diversivo, quasi
un compendio alle fatiche professionali, un intermezzo,
come una pausa caffè propedeutico al lavoro, niente di
più, mentre io assorto nei miei pensieri mi stavo
divorando, pensando che, a differenza sua, per me era
stato qualcosa di travolgente che aveva coinvolto i miei
sentimenti e macchiato l’amore puro che fino ad allora
avevo provato per mia moglie.
Prima di tornare a
casa e salire le scale avevo fatto un giro a piedi. Non
potevo presentarmi in quello stato! Quando avevo aperto
la porta Laura era lì ad accogliermi: “Sei in ritardo…”
aveva detto, senza alcun rimprovero. L’avevo guardata e,
notando la sua semplicità, mi ero sentito un verme. “Sì,
il treno…” avevo mentito con la voce strozzata, mentre
il ricordo della Capa, nuda e ansimante sotto di me, mi
bruciava la mente. Avevo preso un po’ d’acqua, ma non
riuscivo a berla, la gola era secca e chiusa, e il
sapore dell’Armagnac era ancora lì, come un veleno.
*****
Da allora, ogni giorno è una tortura.
In ufficio, la Capa mi dà ordini con quella voce calma e
fredda che non ammette repliche. Come al solito rispondo
“Sì, dottoressa…” ma dentro urlo. Ogni “sì” è un chiodo
che mi inchioda al mio tradimento, ogni suo sguardo
un’accusa che non oso confessare, ma allo stesso tempo
la desidero con tutto me stesso, così tanto da sperare
in un’altra missione lavorativa insieme o che ne so, una
pausa pranzo in qualche motel clandestino sulla costa.
Quando torno a casa vedo Laura col suo sorriso
ingenuo, le sue mani unite alle mie mentre guardavamo la
TV e il senso di colpa mi soffoca. Mi chiedo se sul mio
viso ci siano i segni dell’infedeltà, quanto da quella
volta il mio odore sia diverso e se il mio silenzio sia
a volte troppo pesante. “Tutto bene, Marco?” Mi dice
corrugando la fronte, e io annuisco, incapace di
guardarla negli occhi. “Solo stanco.” Gli dico ogni
volta, ma è una bugia che mi pesa nel petto come una
pietra facilmente da sollevare se lei fosse meno ingenua
tanto da pensare che un marito per definizione non può
mai tradire una moglie, figuriamoci incinta!
Mi
sveglio di notte, il profumo di Camilla mi insegue anche
nei sogni, mischiato all’immagine di Laura che dorme
accanto a me, ignara di tutto. Mi vedo riflesso nelle
pareti di vetro dell’ufficio, un uomo spezzato, un
bancario che ha tradito per quella donna affascinante
che forse non ricorda più Torino o scientemente lo ha
cancellato dalla sua agenda piena solo di impegni
lavorativi. Ed invece per me Torino è una città che sa
di perdizione e ogni volta che Laura mi bacia, sento il
sapore del mio peccato, e ogni volta che rispondo al
telefono — “Ciao, amore” — la mia voce trema, come se
lei potesse indovinare il mio segreto attraverso il filo
e come se la mia Capa potesse sentirmi ed avere il
pretesto per non invitarmi più tra le sue cosce
bollenti. Lo so che mi illudo, lo so che ormai è solo un
desiderio, io occupo solo il posto dell’addetto e
infatti poco dopo mi chiama col suo tono neutro, gli
occhi che non cercano i miei: “Marco, il report è
pronto?”
“Sì, dottoressa…” rispondo con la voce
strozzata e lo sguardo incapace di sostenere il suo. Non
posso guardarla senza rivederla su quel letto, senza
risentire il suo gemito, toccare il seno e affondare tra
le sue cosce, ma allo stesso tempo non posso tornare a
casa senza vedere Laura che mi aspetta, fiduciosa,
mentre io porto dentro di me un tradimento che mi
divora.
Mi ripeto che il mio disagio non deriva
da quello che è successo quella sera, ma dal fatto che
mi sento un infedele seriale anche se è accaduto solo
una volta. Per me è di fatto un tradimento che continua
senza se e senza ma, perché il mio desiderio è ancora
lì, tra quella seta e quella gonna che scivolava
lentamente sulla moquette.
Mille domande si
accalcano sull’uscio della mia insicurezza e mi chiedo
in serie se sono davvero innamorato di mia moglie e
perché mai non riesco a dimenticare, chiedendomi subito
dopo come reagirei se la mia Capa si facesse ancora
avanti e se mi obbligasse a scegliere… Lascerei tutto
per lei? Compreso il figlio in arrivo?
La cosa
che mi sconvolge è che non riesco a darmi una risposta.
Lei esercita un potere enorme su di me e non solo
affettivo, tanto che non dimentico mai di essere un suo
sottoposto e che da un giorno all’altro potrei
ritrovarmi in qualche filiale di periferia o peggio di
un’altra città. Sì, penso anche a questo, che lei
potrebbe vendicarsi per aver ceduto, perché a tutti gli
effetti sono io la causa del suo unico momento di
debolezza.
Sono un uomo intrappolato tra due
donne, anche se entrambe lo ignorano e continuano a
vivere serenamente la loro vita. Il senso di colpa mi
strangola, un nodo che non posso sciogliere, un peso che
mi trascina giù, giorno dopo giorno, tra le pareti di
vetro di questo ufficio e il calore di una casa che non
merito più.
|
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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