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WEB REPORTAGE A MODO
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Samarcanda
Il forestiero e la
signora vestita in nero
DI ADAMO BENCIVENGA
.
Ci fu una gran festa nella
capitale, la guerra era finita e i soldati vittoriosi
erano tornati tutti a casa. Per le strade si ballava e
si beveva vino, i soldati bruciavano le divise sopra
enormi falò, alticci ed allegri baciavano le loro donne
e si appartavano lungo il viale di gelsi proprio sotto
le finestre della grande gendarmeria. I musicanti suonavano
musiche arabe persiane, la cantante dai capelli biondi
tinti recitava strofe di Farid al-Din 'Attar. La notte
era fredda e gli artisti del circo di Tashkent, vestiti
con le loro caratteristiche divise blu e oro deliziavano
i passanti. Era primavera inoltrata, quasi
giugno, e il gruppo di uomini Karakalpaki in disparte
beveva vodka all’acqua piovana e portava cappelli neri
leggeri. Le donne indossavano gonne belle a fiori e
ciascuna di loro esibiva tra i capelli neri un grande
girasole, simbolo della fertilità. Ballarono per
tutta la notte al ritmo di tamburelli e sonagli fino
quando all’alba furono spenti i falò e fu proprio allora
che tra la folla, dentro ad una luce verde e viola, al
forestiero che aveva ballato per tutta la notte, parve
di vedere una donna vestita di nero, che lo guardava con
uno sguardo stupito. Al chiarore dell’alba nuova, seduto
sulla radice secolare di un gelso, si stropicciò gli
occhi incollati di fumo e vodka, davanti a sé vide la
città di Samarcanda… Samarcanda madre di antiche meraviglie,
sorella di sangue uzbeko, fiaba da mille e una notte,
Samarcanda, meta lontana, Fortezza di pietra, regno di
Shah Zaman, terra di broccati, di burka e minigonne,
irraggiungibile dai predoni kazaki, colorata e irreale
sulla grande via dorata dei bachi e della seta che al
tramonto rosso si trasforma in un grande mercato di
mucche, d’asini e capre e galline e soprattutto di
pecore Karakul con la loro lana vellutata dai mille
colori. Samarcanda terra di commercianti e venditori.
Grande mercato dall’alba al tramonto, qui si vende di
tutto, dipende dal prezzo, qui non c’è nulla che non si
possa comprare e nulla che non si possa trattare
spuntando un prezzo migliore. Ed eccola la donna vestita
in nero, dice di chiamarsi Khiva, ha gli occhi verde
bosco carichi di mascara, ha le labbra rosse, porta il
rossetto sbordato, come le prostitute d’alto bordo che
incontri la sera nei vicoli bui e fatiscenti del
quartiere cristiano. Sorride al forestiero, lo ha vegliato per
tutta la notte e ora gli fa cenno di seguirla lungo il
viale di gelsi. Per i banchi del mercato, compra
formaggio e miele, mandorle e arachidi ricoperti di
zucchero, e fichi già aperti e albicocche secche.
Secondo i riti dell’ospitalità servirà il pranzo con uno
scialle lilla e i capelli raccolti, porterà in tavola un
piatto di plov, riso con carne e verdura, una portata di
shashlyk e servirà fresco in suo onore una brocca di
Mussallas, un vino corposo, dolce e aromatico. Ora
tra i banchi del mercato si volta e lo guarda, ha paura
che si perda dentro quella folla, lei spedita si sta
dirigendo verso piazza Registan, il cuore di Samarcanda.
Sulle bancarelle è un trionfo di frutta secca e spezie;
in fondo, pile di meloni gialli e cocomeri verdi,
davanti a una striscia di chaikana. Le donne indossano
vesti colorate; alcuni volti con gli occhi a mandorla
esaltano il miscuglio di razze venute da Oriente.
Vecchie donne avvolte negli scialli neri e gialli
vendono pane nelle loro carrozzine. Non hanno sgabelli,
sono sedute direttamente in terra. Alzano i lembi dei
fagotti e ti invitano a toccare il pane per sentire la
morbidezza. Si chiama Non, si presenta come una grossa
pagnotta circolare decorata con cerchi concentrici di
puntini. E’ caldo, invitante, il filo di vapore che sale
si confonde con questo soffio di tramontana gelida e
tagliente. Khiva ne acquista una pagnotta, poi offre al
forestiero un pezzo strappato. Dio come è buono il pane
a Samarcanda, croccante, fragrante, profuma di frumento
fermentato e ti lascia in bocca il rimpianto di non
poterlo trovare altrove. Ora sono seduti in un tapchan sulla
grande piazza, i tavolini sono di legno, il vento
tagliente entra nei loro vestiti, ordinano due bicchieri
di chai, un thè verde zuccherato e bollente. Davanti a
loro un immenso spiazzo circondato su tre lati da
madarse che rappresenta il trionfo dell’architettura
uzbeka e delle decorazioni a maiolica. Il forestiero,
estasiato da tanta bellezza, è incerto se guardare gli
occhi di Khiva o la cupola della grande moschea.
Khiva lo guarda, vestita di nero mantiene intatta la sua
sensualità, il suo mistero, ha gli occhi penetranti, ma
non dice nulla, non deve dire nulla, tutti e due sanno.
Qui del resto si parla a gesti, nessuno conosce
l’inglese, qui si incontrano gli uzbeki veri, lontani
miglia dalla formalità dell’accoglienza. Lei non è una
prostituta per turisti, lei è una vedova di guerra. Era
lì ieri notte per celebrare la vittoria e la memoria di
suo marito, per festeggiare i soldati che bruciavano le
loro divise. E qui è tradizione, se sei vedova,
festeggiare le vittorie di guerra facendo sesso con uno
sconosciuto. Ora parla, dice al forestiero che
purtroppo da queste parti le vedove di guerra non
prendono la pensione. Il governo vuole che lavorino, nei
campi, al mercato, per strada, in casa, oppure che si
risposino. Ha un’età compresa tra i trenta e i
cinquant’anni. Indecifrabile. Enigmatica. Se non fosse
per quel sorriso forse il forestiero non sarebbe lì, non
avrebbe capito e ieri sera non l’avrebbe seguita lungo
il viale di gelsi. Ma nel grande mercato di Samarcanda
esiste solo la domanda e l’offerta, tutto ha un prezzo
ed lui ha bisogno di compagnia e lei è disposta a
venderla. Lui finalmente si presenta, dice di essere uno
scrittore, lei si stupisce che conosca la sua lingua,
lui le svela che sta scrivendo un libro su Bibi Khanim,
la moglie dell’imperatore. Lei capisce, beve di fretta
il suo thè bollente, lui con estrema difficoltà, soffia
nel bicchiere e timidamente appoggia le labbra, ma non
c’è più tempo, ora lei gli fa cenno di seguirla, lungo i
vicoli dietro la Grande Moschea di Bibi Khanim che
prende appunto il nome dalla moglie dell’imperatore.
Girano tra le bancarelle e il fumo grasso di spiedini
arrostiti, le donne parlano di cose da donne, di cibo,
di prezzi e figli, gli uomini di politica e sport:
dicono solo bene del loro presidente dittatore, dicono
solo male della loro squadra di calcio. Ora entrano nel
giardino della Moschea, la corte interna è formata da un
unico piano di celle mentre su un lato domina la moschea
con la cupola turchese. Le pareti sono una celebrazione
dell’oro e del blu. Sotto l’ombra timida di un albicocco
la signora in nero inizia a parlare della maledizione di
Bibi Khanim, la moglie più giovane e più amata
dell’imperatore Amir Timur Tamerlano. “Ascoltami bene
forestiero. Ora racconto te la storia della povera Bibi
e come è nato il chador. Si narra che il nostro
imperatore Amir Timur Tamerlano voleva fare di
Samarcanda la città più bella del mondo e, prima di
partire per la guerra, ordinò che durante la sua assenza
venisse costruita una grande moschea in onore di una
delle sue nove mogli, la principessa mongola
Bibi-Khanum. L’architetto incaricato della
costruzione era un persiano della città di Mashad. La
principessa Bibi-Khanum era bellissima e inevitabilmente
l’architetto persiano se ne innamorò perdutamente e
minacciò di non finire in tempo la costruzione se lei
non gli avesse almeno permesso di darle un bacio.
Bibi-Khanum rispose di no ma per toglierselo
dai piedi offrì all’architetto le donne più belle della
città. Poi gli portò delle uova dipinte e gli disse:
“All’esterno sono tutte diverse, una dall’altra ma
all’interno sono uguali. E’ la stessa cosa con le donne.
Io ti posso dare la donna che preferisci.” L’architetto
rispose portando due bicchieri, u no riempito di
acqua e uno di vino bianco. E disse: “Guarda, mia
principessa, questi due bicchieri, hanno lo stesso
aspetto. Forse vuoi dire che bere un bicchiere di vino è
come uno d’acqua?” Lei preoccupata che suo marito
Tamerlano tornasse e che la costruzione a cui tanto
teneva non fosse finita a causa dei ricatti
dell’architetto, la principessa finì per cedere e si
lasciò baciare. Purtroppo quel bacio fu così focoso che
sulla guancia di Bibi-Khanum rimase come una grande
bruciatura. Così conciata non poteva certo presentarsi a
Tamerlano! Bibi-Khanum ebbe allora un’idea brillante: si
coprì la faccia con un velo e ordinò a tutte le donne
della città di fare lo stesso.
Tornato a Samarcanda, Tamerlano non
volle storie, tolse il velo alla moglie, vide quello
scempio, si fece raccontare la verità e andò su tutte le
furie. Ordinò che una parte della moschea, appena
finita, fosse trasformata in una tomba e vi fece
seppellire viva la moglie infedele. Poi mandò i suoi
uomini a tagliare la testa al fedifrago. L’architetto
però era andato a nascondersi in cima al minareto che
aveva appena finito di costruire e, proprio mentre i
soldati lo stavano per prendere, mise le ali e volò via,
per tornare a casa sua nella città di Mashad. A
Tamerlano non rimase che imporre a tutte le donne del
suo regno di portare per sempre un velo sulla faccia...
Spero che ora tu abbia molto da scrivere, forestiero.”
Poi insieme riattraversano il piazzale della grande
moschea, il bazar e lungo il viale di gelsi camminano
mano per mano fino a casa di lei. Qui lei raccoglie i
suoi capelli, avvolge le sue spalle con un grande
foulard di seta lilla. A seno nudo serve a tavola.
Insieme mangiano plov e gustano una brocca intera di
Mussallas fresco. Poi fanno l’amore.
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ARTICOLO A CURA DI ADAMO BENCIVENGA
FOTO GOOGLE IMAGE
.La favola di Bibi-Khanum è tratta da "Buonanotte, signor Lenin"
di Tiziano Terzani
http://granellidisabbia-najim.blogspot.it/2011/01/la-moschea-di-bibi-khanum-e-la-leggenda.html
Barbara Rivoli
http://www.mondointasca.org/articolo.php?ida=17782
http://it.wikipedia.org/wiki/Samarcanda di Giulio Michienzi
http://www.thetripmag.com/racconti-di-viaggio/la-citta-del-matrimonio-2/
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