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Matilde di Canossa
La GranContessa
.Sono sicuramente pochissime le donne
che ebbero un ruolo di peso nella storia medievale: tra
queste la figura di Matilde di Canossa si caratterizza perché
tale fu il suo carisma da aver modellato quasi a sua immagine e
somiglianza un territorio, quello dell’appennino reggiano, che
ancora oggi mostra con orgoglio i segni del suo passaggio.
DI
ELISELLE
Col fiato corto, il vento impietoso che mi sferza il
viso e il mantello che mi copre a malapena dai rigori
dell’autunno, salgo a lunghi passi il sentiero umido
cercando di raggiungere il prima possibile il castello
delle Carpinete, arroccato sul monte Antognano.
Corre l’anno del Signore 1092 e non è affatto sicuro
viaggiare attraverso queste terre martoriate dalla
guerra. La gente comune, contadini, artigiani, umili
lavoranti, è stremata e chiede a gran voce la pace.
Eppure Enrico IV non sembra avere alcuna intenzione di
dare tregua alla penisola.
L’imperatore ha un
obiettivo e lo persegue con tenacia e determinazione,
sordo a ogni richiesta: il suo unico desiderio, oramai,
è sconfiggere e annientare la cugina che quasi quindici
anni fa fu tra le cause della sua più grande
umiliazione. La GranContessa Matilde di Canossa.
È Matilde, erede del grande Bonifacio, nipote di
Tedaldo, discendente di Adalberto Atto, colui che col
suo gesto coraggioso di buon vassallo liberò la regina
Adelaide dalla prigionia di Berengario II e per questo
fu ricompensato dal sovrano Lotario coi territori che
diventarono il nucleo della potenza dei Canossa: Reggio,
Modena e Mantova. È Matilde, la vera regina d’Italia.
Rendendo onore al nome dei suoi avi ha compiuto opere
memorabili, ha combattuto battaglie che sono già entrate
nella Storia, ha operato per il popolo e per la Chiesa e
con quarantasei primavere alle spalle può dirsi la donna
più potente del Medioevo. Sebbene la sorte sia per sua
natura capricciosa, nonostante nell’ultimo periodo si
sia ribellata alla GranContessa e l’abbia messa alla
prova in modo drammatico, ella non ha smesso di lottare.
Per questo oggi sono qui: per incontrarla e farmi
raccontare i suoi più intimi pensieri. “Altolà!”
Alzo gli occhi ansimante davanti al portone: la
guardia mi osserva minacciosa dalle mura e gli mostro il
mio lasciapassare senza troppi sprechi di parole, poiché
il tempo stringe. Con un cenno, l’uomo mi fa segno di
avvicinarmi e una porticina minuscola ricavata nel legno
massiccio si apre per lasciarmi entrare. Ora mi sento
finalmente al sicuro. Vengo guidata da un uomo armato
fino alla seconda grande porta difensiva, vengo
perquisita e consegnata a un giovane monaco che con un
sorriso e qualche parola gentile mi chiede scusa per la
rudezza delle guardie, ma di questi tempi, si
giustifica, le precauzioni non sono mai troppe. Mi
racconta che la GranContessa è in un momento critico, da
giorni sta riflettendo sulle conseguenze di questo
conflitto, è combattuta e non sa se fare appello alle
sue ultime forze portando avanti lo scontro o arrendersi
per un bene superiore, è preoccupata che il cugino invii
dei sicari per ucciderla. Sono così attenta ad
ascoltarlo che non mi rendo conto di essere arrivata
all’entrata della grande sala dove Matilde, insieme ai
suoi nobili consiglieri laici ed ecclesiastici, è
impegnata in una discussione assai animata. Il monaco mi
chiede di attendere in disparte per un attimo e io
annuisco, mettendomi ritta sull’uscio. Lo osservo
avvicinarsi alla donna e inchinarsi, poi sussurrarle
all’orecchio senza che nessuno badi a lui. D’un tratto,
Matilde alza una mano e la sala cade nel silenzio. Con
voce ferma ma stanca, chiede agli uomini di lasciarla
sola. Questi, cercando di nascondere il disappunto, si
allontanano lasciando la sala controvoglia, mormorando
mentre mi passano accanto e lanciandomi occhiate
furenti. Il monaco mi fa segno di raggiungerlo.
Finalmente posso vedere da vicino la GranContessa e
ammirarla in tutta la sua matura bellezza. Avvolta in un
manto di velluto rosso con ai lati una fascia d’oro
guarnita di gemme, porta una veste di un azzurro vivo e
maniche larghe orlate di un fregio d’oro, che lasciano
intravedere altre maniche aderenti al braccio di colore
rosso. Porta scarpe a punta di stoffa scura e il capo è
coperto da un velo bianco che non riesce a nascondere i
lunghi capelli biondo rossastri, illuminati da fili
bianchi, e una fascia preziosa le cinge la fronte.
Nonostante sia seduta, intuisco la sua figura alta e
slanciata. Mi inchino per renderle omaggio e quando
rialzo la testa e la fisso in volto noto i suoi
lineamenti regolari, improntati a grazia e severità.
“Non ho molto tempo, e quel poco che ho devo usarlo al
meglio. Chiedetemi ciò che dovete perché il consiglio mi
attende e una decisione importante dev’esser presa.”
Annuisco e mi siedo al suo fianco, in uno scranno di
pelli ancora caldo, cercando dentro di me il coraggio
per farle le mie domande. Non so da dove iniziare.
Speravo che capitassero circostanze migliori di
queste per fare il Vostro incontro, Comitissa. Lo
speravo anche io, ma Enrico sembra intenzionato a
continuare la sua folle corsa e io, davanti alla sua
presa di posizione folle e testarda, non so davvero più
che fare. C’è chi sostiene la pace come i nobili laici
che ancora mi sono rimasti fedeli, chi vuole che io
continui la guerra contro l’oppressore, come intima la
Chiesa attraverso i suoi rappresentanti. Ma l’autunno è
iniziato e dopo un’estate passata a preoccuparmi per
l’assedio con cui mio cugino ha cinto Monteveglio, dopo
anni di lotte e tradimenti, voltafaccia e illusioni,
sono stanca, stanca, stanca. Troppo forse per resistere
ancora.
Siete sempre stata una donna forte e una
sovrana determinata, a mio avviso non avrebbe senso
cedere proprio ora... Ne siete così sicura? Pensare che
per tanto tempo il mio unico desiderio è stato quello di
abbandonare il mondo secolare e i suoi inutili affanni
insieme a mia madre Beatrice, chiudermi in un convento e
dedicarmi solamente alla preghiera, l’unica via in cui
trovo un poco di sollievo dalle pene e dalle sofferenze
che porto nel cuore.
E perché non l’avete fatto?
“Senso del dovere. Destino. Volontà ben superiori alla
mia. Ho scelto di servire la Chiesa promettendolo a
Gregorio e lo farò fino alla fine, anche se mi è costato
fatica, Dio solo sa quanto. In quelle lettere che
scrivevo al mio Papa quante confessioni tremende, quanti
desideri vergati con le lacrime, quante suppliche per
lasciare il mio posto a qualcun altro. Qualcuno che
fosse uomo e amasse la lotta, e non donna, come me.”
Perché mai dite così? Non dovreste nemmeno pensarlo.
Siete la Signora di queste terre non solo perché avete
ereditato il nome dei Canossa ma anche e soprattutto
perchè avete mostrato di meritarle col Vostro acume e le
Vostre capacità. Siete migliore di tanti uomini e di
tanti sovrani, Comitissa. “Lo dite perché siete donna e
perché non vi siete mai trovata al mio posto. Avete mai
perso un padre, dei fratelli o degli amici per assurdi
giochi di potere? Avete mai affrontato una battaglia in
prima linea, insieme ai vostri soldati pronti a
squarciare le membra e le teste nemiche per voi,
brandendo una spada e difendendo un vessillo, un
principio, un ideale? Avete mai punito una città che vi
ha tradito e voltato le spalle? Avete mai preso parte a
un tribunale per giudicare chi era in torto e chi nel
giusto, portando il peso della scelta? Quante cose ho
imparato a fare io, donna in un mondo di uomini,
ammirata e temuta, dileggiata e sminuita. Mi sono
impegnata ogni giorno, circondandomi di consiglieri che
ritenevo saggi e fidati, ma la realtà è che mi sono
sempre sentita sola. Sola con la mia coscienza. E in
questa solitudine coltivavo un pensiero fisso: il
desiderio di non essere lì, per dedicarmi alla vita che
davvero avrei voluto per me stessa.”
Gregorio VII
dunque ha avuto un peso fondamentale in questo Vostro
destino. “Lui è stato il padre che non ho potuto avere e
quando è scomparso, una parte del mio cuore è morta
insieme a lui. Avevo soli sei anni quando Bonifacio mio
padre fu assassinato. Se chiudo gli occhi ricordo ancora
il suo corpo esanime disteso sul carretto, al ritorno da
quella maledetta battuta di caccia, trafitto da una
freccia avvelenata. Volevano essere certi che morisse, i
cani. Un anno dopo morirono anche mia sorella Beatrice e
il mio fratellino Federico, e rimasi sola al mondo con
mia madre. Ella per debolezza si sposò con Goffredo di
Lorena, un uomo rude che non mi piaceva, e questo ci
attirò le antipatie dell’Imperatore Enrico III. Conobbi
Papa Gregorio quando ancora era un monaco di nome
Ildebrando, tre anni dalla morte di mio padre, e fu un
raggio di sole durante la prigionia che dovetti subire
in Germania proprio alla corte dell’Imperatore: Enrico
aveva accusato mia madre Beatrice di tradimento, e io
ero diventata un ingombro scomodo, probabilmente
destinata a essere eliminata come avevano fatto col
resto della mia famiglia. Sono ancora convinta volessero
estinguere la mia dinastia...”
Fu alla corte di
Enrico III che avete imparato a conoscere bene suo
figlio Enrico IV... “Sapete quel che si dice di lui,
nevvero? Si dice sia un violento, un perverso, un senza
Dio, si racconta che batta la moglie vendendola ai suoi
soldati e che maltratti il figlio. Ebbene, non era così
malvagio, da piccolo, eppure in lui si poteva già
scorgere il seme della crudeltà. Era un bel bambino,
curioso, dai lineamenti delicati: quando lo vidi la
prima volta aveva solo cinque anni, mentre io ormai ne
avevo quasi il doppio. Giocavamo insieme a volte, aveva
capelli biondi e occhi brillanti che pungevano. Sua
madre aveva fatto un sogno, quando era ancora incinta:
aveva sognato di dare alla luce una bestia immonda
ricoperta di sangue, forse l’Anticristo. La profezia s’è
avverata.”
Non c’è traccia di rancore nella
Vostra voce, sembrate parlare di qualcun altro, quasi
come se la cosa non Vi riguardasse. In tempi di piena
crisi come questi appare molto strano. “Quale
atteggiamento dovrei tenere nei confronti di chi mi ha
tradito più e più volte nonostante le mie intercessioni
e i miei infiniti tentativi di conciliazione? La sola
arma che posso usare nei suoi confronti è
l’indifferenza. Se non permetterò più a mio cugino
Enrico di ferire la mia anima, ho ancora speranza di non
essere corrotta dalla sua natura maligna, e di salvarmi
dalla dannazione. È testardo e rancoroso e non sa cosa
sia la pietà. Ma avrei dovuto aspettarmelo, in fondo.
Quel giorno di quindici anni fa non avevo voluto
comprendere che cosa covava nel cuore.”
E che
cosa covava? “Vendetta. Ricordo che era un inverno
freddo, molto freddo, si affondava nella neve una gamba
intera. Dopo la scomunica da parte di Papa Gregorio,
Enrico aveva perso ogni appoggio e non poteva aspirare a
cingere la corona imperiale. Era stato costretto a
recarsi alla gloriosa rocca di Canossa afflitto e
disperato, per umiliarsi e chiedere perdono, ma Gregorio
si era dimostrato più inflessibile e testardo di lui.
Enrico chiese a me di intercedere, ostentando il suo
pentimento come un lasciapassare per ottenere quel che
desiderava. Il terzo giorno ero riuscita a convincere
Gregorio a incontrarlo e a riaccoglierlo nelle sue
grazie e nella Chiesa, e così accadde. Tra canti di
giubilo e nuove speranze, avevo organizzato un banchetto
per festeggiare l’evento. Ma al tavolo della
conciliazione Enrico se ne rimase zitto, livido in
volto, coi pugni chiusi, senza quasi toccare cibo. Io
ingenuamente avevo creduto che fosse per la vergogna di
aver compiuto un tale gesto di tracotanza contro Iddio e
il suo rappresentante terreno, che gli servisse tempo
per riprendersi dal senso di colpa. Invece stava
semplicemente macchinando la sua vendetta.”
Una
vendetta che non si è rivelata così semplice: Enrico IV
ha avuto alti e bassi, nonostante la sua forza bellica,
e spesso si è trovato in difficoltà anche grazie al
sistema difensivo che avete approntato. “Enrico ha un
solo problema: sottovaluta il terreno di scontro. Non è
nato né ha vissuto a lungo qui e non può capire a fondo
questo territorio. Questo è il suo limite. Quando il mio
avo Adalberto si impossessò di Canossa, la munì di mura
forti e scelse di costruire tante fortezze per
utilizzare gli Appennini reggiani e modenesi come una
cintura di protezione, perché sapeva bene che questo era
un passaggio fondamentale per scendere a Roma. Le nostre
montagne sono una difesa naturale, le nostre rocche un
filtro. Sono state modellate perfettamente alla
conformazione territoriale e a noi basta accendere un
fuoco sulla torre più alta per segnalare un pericolo ai
nostri alleati a miglia e miglia di distanza. Abbiamo un
sistema di comunicazione che permette ai punti più
vulnerabili di prepararsi a un assedio con giorni
d’anticipo rispetto all’arrivo delle truppe nemiche.
Enrico ha commesso più volte lo stesso errore. Mi auguro
che lo commetta ancora una volta.”
Abbiamo
parlato di Voi come sovrana e stratega. Non abbiamo
ancora parlato di Voi come donna. “Che cosa c’è da dire
che non sia già stato detto?”
Non so nulla di
Voi, del vostro lato più femminile... “Quel lato non
esiste più da troppo tempo.”
Perché dite così?
“Perché dovrei mentire? Tutto quel che faccio diventa
motivo di dileggio. Goffredo, l’uomo con cui mi sono
sposata quando avevo ventiquattro anni, si è rivelato
rozzo anche più del padre. Eravamo fratellastri, ma
nonostante questo mia madre e Goffredo di Lorena, detto
il Barbuto, mi hanno costretta a diventare sua moglie
per salvare il patrimonio e mantenere unite Canossa e la
Lorena. Il mio primo marito era chiamato il Gobbo, e
questo la dice lunga sulla sua prestanza fisica, ma non
è questo il punto. Era un animale. La sola cosa bella
del nostro matrimonio è stata Beatrice, mia figlia, ma
non mi hanno nemmeno dato la possibilità di avere questa
consolazione...”
La GranContessa si ferma un
attimo di parlare, la voce rotta da un singhiozzo; sta
pensando alla figlia morta qualche mese dopo il parto,
alla cui memoria è dedicata l’abbazia di Frassinoro. Poi
fa un lungo respiro e continua a raccontare.
“Sono fuggita da Goffredo. Non lo amavo. Mi ripugnava.
Sono fuggita dalla Lorena e dai ricordi e mi sono
rifugiata a Mantova chiedendo consiglio a Gregorio VII.
Il matrimonio con Goffredo è durato ufficialmente sei
anni, e si è concluso quando lui ha pensato bene di
accusarmi di adulterio alla dieta di Worms: davanti a
tutti mi ha chiamata concubina del Papa, muovendo dubbi
sulla mia integrità morale e facendoli diventare
certezze alle orecchie empie dei nobili tedeschi e
italiani a cui faceva comodo pensarmi come la puttana
della Chiesa. Un concetto da sempre utilizzato dai miei
detrattori, che nei documenti ufficiali si premurano di
chiamarmi bocca di fica. Siete ancora convinta che una
donna nella mia posizione sia così comoda?”
I
detrattori li avete avuti e li avrete perché siete
potente e come al solito, se siete donna, giocano sulle
allusioni sessuali per attaccarVi, perché non hanno
altri argomenti validi con cui farlo. La verità è che
sono dei vili. “Sono vili ma furbi, sanno dove colpire,
poiché conoscono l’animo umano: la fantasia popolare non
aspetta che alimentare e arricchire di particolari ancor
più arditi le favole morbose. La storia si è ripetuta
puntualmente quando ho dovuto contrarre il secondo
matrimonio, sempre per questioni politiche. Guelfo il
Pingue aveva solo diciassette anni e io quarantadue
quando ci siamo sposati. Oggi combattiamo fianco a
fianco contro l’Imperatore, abbiamo affrontato insieme
la battaglia di Sorbara, che considero la mia vittoria
più bella sui fedeli di Enrico IV, e l’assedio di
Monteveglio, quello più eroico. Ma nessuno si ricorderà
di questo. Tutti invece ricorderanno bene le
filastrocche volgari sulla nostra prima notte di nozze,
lo scandalo e le riprovazioni che queste hanno
scatenato. Perché c’è questa tendenza nell’uomo a
sottolineare i fallimenti dei suoi simili,
dimenticandone i pregi o ignorandone le virtù.”
Non sono d’accordo. Queste vittorie hanno tutt’ora una
grande risonanza. Non potete lasciarvi abbattere dalle
chiacchiere. “Come vi ho detto poco fa, la mia
stanchezza è così grande da impedirmi di mantenere la
lucidità necessaria all’obiettivo. Eppure tanta strada
c’è ancora da percorrere. Rimanete qui mentre concludo
la seduta del consiglio, così vi renderete forse conto
di cosa significa sacrificare la vita per un bene più
grande.”
Mi alzo dallo scranno e mi avvicino al
monaco, mettendomi alle spalle della GranContessa.
Nobili laici, vescovi, ecclesiastici e un uomo vestito
da frate penitente che non avevo notato rientrano nella
sala e riprendono i loro posti. Di tanto in tanto
qualcuno mi osserva di sottecchi, fingendo di non notare
la mia presenza, altri mi fissano sfacciatamente,
chiedendosi stizziti quale ardire può avere una
fanciulla come me a presenziare a un’occasione come
questa. Io ascolto. C’è chi sostiene la pace, chi dice
di arrendersi per strappare a Enrico IV un accordo
ragionevole facendo appello alla sua clemenza, chi
rigetta questa soluzione e consiglia di cercare altri
alleati, chi ricorda che gli alleati sono tutti in
quella stanza e ormai chi è passato dalla parte del
nemico per il proprio tornaconto non ritornerà sui suoi
passi. Tutti parlano gli uni sugli altri, puntando
gl’indici e alzando i toni, mentre Matilde cerca di
mantenere calmi gli animi, quando all’improvviso si alza
una voce che prima d’ora nessuno aveva ancora sentito. È
così tonante che tutti si ammutoliscono. È la voce del
sant’uomo che il monaco mi sussurra essere Giovanni
l’eremita. È stato richiamato dalla GranContessa e
prelevato dalla sua grotta, poiché tutti sono a
conoscenza della sua immensa fede. Giovanni, senza
lasciarsi intimidire dai potenti accanto a lui che lo
fissano senza parole, preannuncia che Matilde avrà la
vittoria se continuerà lo scontro. Sicuro e determinato,
la fissa negli occhi mentre pronuncia la sua profezia.
Dopodiché si siede di nuovo e tutti tacciono per qualche
tempo.
Dopo attimi che mi paiono interminabili,
Matilde di Canossa si alza in piedi con uno scatto:
sembra più giovane, rinfrancata, agile nei movimenti,
non la donna stanca e dubbiosa che era prima.
“Oggi si è compiuto un prodigio qui, in mezzo a noi. Il
sant’uomo ha parlato per grazia di Dio e ci ha
annunciato la vittoria. Ebbene, noi combatteremo, fino
alla fine, fino alla sconfitta di Enrico IV.”
La
decisione viene accolta con entusiasmo dagli
ecclesiastici, con maggiore preoccupazione dai feudatari
laici, ma tutti sembrano concordare che le parole della
Comitissa siano sagge e giuste. Il monaco mi tira per la
manica e mi dice che è giunto il momento di lasciare
sola la Contessa. Io ripenso a quello che mi ha detto e
riconosco quanta potenza e quanta solitudine siano
condensate nella sua persona, e quanto ella ne soffra.
La profezia si avvererà di lì a non molto: Enrico IV
verrà sconfitto nei pressi di Canossa, e da quella rotta
inizia il suo declino. Suo figlio gli si ribellerà e
combatterà contro di lui, e quattordici anni dopo lo
lascerà morire, solo e dimenticato da tutti,
riconciliandosi con Matilde. Ella, ultimo baluardo
dell’antica nobiltà feudale, continuerà a vivere fino al
1115 e dopo tanti patimenti lascerà, alla sua morte, un
vuoto incolmabile e un’Italia completamente mutata, in
cui i feudi piano piano muoiono per lasciare posto alle
prime indipendenze comunali.
Il giovane monaco mi
dice di aver cura di me e io, ringraziandolo, gli chiedo
il suo nome e la sua età. Mi risponde con un sorriso
sincero e mi dice di avere solo ventidue anni e di
chiamarsi Donizone. Ricambio il sorriso, rendendomi
conto solo ora che è proprio lui: è lui il monaco
biografo che lascerà impressa nella Vita Mathildis
l’immagine di quella straordinaria e controversa
creatura che fu Matilde di Canossa.
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INTERVISTA A CURA DI ELISELLE
FONTI:
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