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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
CALZE NERE
 





Indossavo da sempre calze nere, di quelle che a vista accendono il dubbio, che il bordo finisca molto prima dei fianchi, lasciando scoperta la parte importante. Le avevo scovate fin quando bambina, frugavo curiosa nei cassetti di mamma e m’immergevo da sola nei colori e fiocchetti, e giocando alla donna m’ammiravo allo specchio assumendo le pose di ragazzina civetta o con un po’ di rossetto di donna fatale.

E contro corrente rispetto alla moda, col passare del tempo ne avevo capito, il potere, l’essenza, l’arte e l’intrigo, la seduzione evidente quando la trama, mi velava le gambe dell’impalpabile nylon, di leggerissima seta che sfumava alla luce, tra il vedo e non vedo come una bambola antica, che accavallava le gambe per essere certa, d’essere unica, originale e superba, con un’arma in più rispetto alle altre.

Indossavo da sempre calze nere e ne compravo tante, ma tante davvero, perché mi piaceva vedere lo stupore, di chi accarezzandomi sotto la gonna, risaliva la mano vigorosa e impaziente, fino a quando la calza diventava più scura, poi bordo velato come se iniziasse la notte, poi pizzi e ricami come fossero un circo, e la pelle più chiara spalancasse alla luce, quel mistero svelato di malizia e richiamo, di segreto e d’arcano solo a pochi concesso.

Col passare degli anni nulla era cambiato, chiudevo gli occhi ogni volta in attesa, come se fosse un rito sacro e solenne, una sacerdotessa del bene che dispensava bellezza e conservava intatta la grazia del gesto, emblema e figura di donna diversa, d’una mano tremante, d’uno sguardo più esperto, che fissava le pieghe alla caviglia o al ginocchio e discreto chiedeva se stesse sognando.

Quel venerdì pomeriggio mi stavo vestendo, in penombra tra il letto, la tenda e l’armadio, quando vidi la figura di mio marito nell’ombra, che furtivo sbirciava da dietro la porta. Con indubbia maestria recitai la mia scena, srotolando le calze lungo le gambe, addrizzando la riga davanti allo specchio, e con fare da esperta curai i dettagli, ostentando quei gesti così femminili, slacciando i gancetti riallacciandone in parte, alzando la gonna quel tanto e quel niente, per poi riguardarmi e vedere l’effetto, di una voglia che nasce nell’ombra a due passi, d’una riga che muore sotto la gonna.

"Dove stai andando?" lui mi chiese in ingresso. "Dal dentista." Risposi con voce sicura, ma mi dava fastidio quel suo incerto indagare, così ipocrita e falso, così mai diretto. "Se vuoi ti accompagno?" Lui mi disse geloso ed io lo guardai e sapendo il motivo, sospirai un “Va bene” per non lasciare sospetti. Poco dopo in macchina forse per caso o forse perché si era sollevata la gonna, la sua mano iniziò ad accarezzarmi le gambe, mentre con l’altra teneva il volante. Poi senza fermarsi seguì il suo capriccio, lungo il percorso oltre la calza, con un impeto maschio di voglia e piacere, toccò da padrone la seta e la pelle, finché sussurrò, sicuro di avermi, che se non fosse stato per il mio mal di denti, saremmo tornati a casa di fretta.

Avvertii quella mano di maschio bollente, che premeva laddove dove mi sentivo già pronta, ma poi rassegnato tirò giù la gonna e obbediente riprese a guidare il volante. "Ma non sai pensare ad altro?" Gli dissi stizzita serrando le gambe. "Guarda, mi hai pure smagliato la calza!" Sulla gamba sinistra dove il bordo è più scuro, un filo tirato interrompeva la trama. Un attimo dopo davanti allo studio, lui era avvilito ed io arrabbiata, scesi di fretta baciandolo in fronte, come per dire che mi sarebbe passata. “T’aspetto.” Lui disse, non guardandomi in faccia. “C’è sempre fila qui dal dentista!” Sorpresa cercai uno straccio di scusa. “Non importa, non ho niente da fare.” Replicò lui prendendo il giornale.

Rassegnata e delusa scesi di fretta e quando entrai nel portone, avvertii il suo sguardo, sulla riga perfetta dritta e insolente, che chiedeva soltanto di farsi sgualcire, assaporando l’intrigo, la passione e la smania di una mano diversa da quella di prima. Salii di corsa le scale nonostante i miei tacchi, sentii il mio fiato nella gola e le gambe, giurando a me stessa di fare in un lampo, nonostante l’imprevisto di chi leggeva il giornale. Entrai nello studio fingendo un’urgenza, passando davanti alle persone in attesa, un dolore di denti, forte e improvviso, forse un ascesso e non potevo aspettare.

Il mio bell’amante in camice bianco, non aspettava che me, non aspettava nient’altro, quando gli accennai al mio contrattempo e lui mi spogliò senza battere ciglio, adagiandomi sopra la sedia di pelle, che ogni venerdì ospitava da sempre, quell’amore segreto breve ed intenso, con la gente in attesa che cadenzava i miei orgasmi. Lui afferrò le mie stringhe scoperchiando la gonna, s’immerse nel circo di pizzi e merletti, segno e feticcio ed oggetto di culto, venerò quell’altare come fossi una Dea e baciò la seta, e baciò la mia pelle, infine trovò l’ispirazione più calda, saziandomi tutta fino all’ultima smania, bisognosa e impellente una settimana d’attesa.

Ma nella foga dell’atto lui mi chiese dell’altro, perché alle volte, si sa, basta una variazione del tema, e l’attesa di un marito a poca distanza ingigantì il desiderio di possedermi di nuovo. Con fare deciso mi spogliò d’ogni cosa, prima la gonna, poi le scarpe e le calze, dietro quei vetri che davano in strada, proprio dove qualcuno leggeva il giornale. Fece l’amore come mai aveva fatto, facendomi sentire avida e persa, mogliettina affettuosa in preda agli istinti, d’amore e passione e sesso di fretta, mentre l’ignaro premuroso aspettava, in apprensione sincera per quel mal di denti.

Dopo l’amore mi rivestì tra quei baci di corsa, che insistenti mi avrebbero ancora voluta ed uscii di fretta portandomi appresso, gli sguardi curiosi dei pazienti in attesa e i segni evidenti della mia sbadata imprudenza. Salii in macchina cercando una faccia, quella appropriata di sofferenza e dolore, coprendo a malapena l’ultimo impulso, dietro quella tenda tornata al suo posto, che ora davvero nascondeva un dentista ed un vero paziente bisognoso di cure, diverse da quelle che mi avevano accolta.

Mio marito mi chiese se avessi sentito dolore ed io dentro di me sorrisi pensando che ne avrei voluti di canini e molari, di denti e gengive infiammati ogni giorno, se questo era il male e la cura più adatta. Lui non mi chiese altro e posò il suo giornale, ripartì ammiccando i suoi occhi vogliosi, come per dire che quel pensiero di prima, ci avrebbe condotti fino a casa diretti, e seguendo la sua maledetta mania, mi mise una mano sotto la gonna, scoprendomi in parte, scoprendomi tutta, comprese le calze fino al bordo più scuro.

Chissà quante volte le avevo indossate, chissà quante volte lui le aveva ammirate, eppure eccolo lì, con la sua voglia di maschio, che frugava eccitato tra la seta e i fiocchetti, come fosse un’amante al primo giorno da soli, come fosse un marito che viveva distante. Sentii il suo fiato che s’addensava bollente, la sua voce più roca che mi diceva amore, e parole piccanti e parole da letto, e nonostante da poco avessi fatto l’amore, fui contenta e felice d’essere oggetto, d’attenzione e di brama, come una sposa novizia, da quel desiderio che non ricordavo da tanto e appagata apprezzavo quell’impeto nuovo, pensando che il tutto era iniziato in penombra, quando maliziosa infilavo le calze, a modo e con classe come una donna sa fare...

Al semaforo rosso lui mi guardò nuovamente, la mano estasiata ripeteva il percorso, per centinaia di volte fino alla parte più calda, per migliaia di volte fino al primo gancetto, fino a quando inatteso, in uno scatto improvviso, lui ingranò la marcia e ripartì come un razzo. Prese velocità nel giro di un niente, prima, seconda fino alla quinta, guidato e sospinto dalla sua voglia di maschio, passò rasente lungo le auto in sosta. Poi quando sfiorò una fila di tronchi, gli chiesi il motivo di perché tanta fretta, anche se immaginavo dove stessimo andando, anche se muto lui non mi dava risposta.

Ma ad un tratto girò a destra e poi a sinistra, poi un rettilineo con i lavori in corso, poi prese una strada che non era quella di casa, una strada diversa che io ignoravo, e sul cartello era scritto “via senza uscita”. Evitammo appena una coppia a passeggio, un bimbo per mano che attraversava la strada, mentre all’incrocio una macchina scura, inchiodò attaccando le gomme all’asfalto. Schiacciava con forza il pedale del gas e senza parlare guardava fisso la strada, il sudore imperlava la fronte bollente, un ghigno, una ruga, un taglio sul viso, aveva un’espressione da mostro e da alieno, le mani due morse strette al volante, con due occhi sbarrati come lingue di fuoco, col rumore assordante di motore e pistoni, di cilindri e ferraglia al massimo sforzo. Accelerava, premeva, spingeva e schiacciava, senza che mi rendesse più conto, che ormai non c’era più spazio e né tempo, e un muro di cinta ci stava aspettando, perché in un nonnulla lui s’era accorto, che sotto la gonna c’era qualcosa di nuovo e allora ripensai a quando rivestendomi in fretta e quella stupida smagliatura sulla calza sinistra, si era maledettamente spostata sulla mia gamba destra...

 





Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo  DONATO TESTONI 








 
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