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RACCONTI 
Adamo Bencivenga
Hotel Fata
Morgana

Lo so che c’è il
mare, lo sento questo continuo strascicare di risacca e
risucchi, di vortici fitti che si trascinano stanchi e
formano un vuoto, di muti silenzi, di attese assordanti,
di parole che scrivo diluite nell’acqua e lasciano
l’essenza che indelebile resta, ma fugace s’appresta a
ridarmi altra linfa, sopra questa terrazza dove attendo
da solo l’ora imbrunita che volge alla sera.
Lo
so che c’è il mare, perché in questo romanzo non ci può
essere che il mare, questo mare di autunno imminente di
settembre che sbatte sugli scogli da maschio e poi lento
s’avvia nel suo ventre più molle, innocuo come nulla
fosse successo, docile come una donna dopo l‘amore.
Ti penso sai, se tu stai bene io sto bene, anche se
qui non ci sei, anche se né ieri né oggi ci siamo
sentiti e qui domani sarà ancora vento e nuvole fitte,
sarà mare grosso ed ombrelloni divelti, la sera precoce
che cala improvvisa.
Oggi i traghetti non sono
partiti, la padrona dell’albergo osserva la luce, le
correnti di mare, le barche giù al molo e giura sicura
che anche domani sarà vento e sarà pioggia, sarà tempo
da lupi dall’alba al tramonto. Le stanze sono tutte
vuote tranne la mia, per le scale c’è odore di muffa, la
coppia inglese è partita stamane dicono che a Sud c’è il
sole che splende, spero abbiano fatto in tempo ad
evitare la burrasca.
Mi manchi sai ed anche loro
mi mancano, qui tutto mi manca, tranne quello che
scrivo. La padrona si ricorda ancora di te. Oggi a
pranzo mi ha chiesto quando verrai. Le ho risposto che
non lo sapevo, ma io lo so che hai la valigia pronta e
che lei me lo chiede per sapere se arrivi. Anche stasera
passeremo il dopo cena in veranda, lei mi racconta della
sua vita ed io la sto ad ascoltare, mi piace la sua
voce, ogni tanto ha dei picchi, ma poi ritorna leggera a
cucire parole. Sì proprio come il mare.
Per
stasera mi ha promesso un dolce al limoncello, sa che
adoro ogni cosa che abbia il gusto e il profumo di
limone. Muoio dalla voglia di assaggiarlo e soprattutto
di vedere come è vestita, ieri portava un cappello di
paglia ed un vestito di stoffa grezza di lino con una
collana di gusci, di nicchi e conchiglie.
Dimmi
di te, se vieni prendi la corriera, non prendere il
treno, da lì la strada è interrotta, dicono una frana.
Ti aspetto sai, sotto questa veranda di nuvole e vite,
l’uva è già matura, i chicchi sono grossi e dorati,
dicono sia un’annata buona se non grandina, se domani
c’è il sole.
Oggi, nonostante la pioggia, sono
stato in paese, ti ho comprato un vestito, di maglina
leggera, spero di aver indovinato la taglia. La commessa
mi ha assicurato che in caso potrai cambiarlo.
*****
Lo so che c’è il mare, lo sento questo
continuo strascicare, la padrona dell’albergo stasera è
vestita di giallo e di grano, che bello, che voglia di
starle vicino, di starla a sentire. La bocca ciliegia
sussurra parole, di resina e miele, di seta e d’amore,
il seno abbondante s’impone e traspare e tutto il resto
è contorno, tutto il resto è uno spicchio di velo e di
mare.
La conosco da anni, la conosco da sempre,
da quando a vent’anni venivo in vacanza coi miei
genitori, da quando a quaranta sono venuto da solo. E
qui non è cambiato niente, lo stesso intonaco mangiato
dal sale, gli stessi lampioni accesi di giorno, la
passeggiata di sera prima di cena, lungo i costoni
scoscesi a dirupo, lungo la strada che porta in paese.
Ora lei ne avrà sessanta, l’età giusta per quello
che scrivo, come la protagonista del mio romanzo,
identica a lei che tra virgole e punti attacca la mia
sera all’alba domani. E come lei ha una pensione sul
mare, fotografa i visi riflessi dall’acqua, il miraggio
che affiora e muta la forma, ogni tanto dipinge, altre
volte sta male. Come lei ha le unghie lunghe scarlatto,
le labbra sbordate ed il viso vissuto, di bocca più
esperta, di cosce deluse, gremite ogni notte da uccelli
stanziali.
È perfetta stasera, come se fosse
uscita d’incanto dalla mia penna, se meglio la guardo
vedo tracce d’inchiostro, se meglio la guardo vedo solo
parole, che non sono né rughe, né grinze di pelle, forse
un gioco di luce che viene dal mare, forse righe sfumate
che non ho ancora mai scritto, lo stesso miraggio che
m’illude e m’abbaglia.
Guardo il suo trucco, e
risento il suo odore, di colei che non sa che faremo
l’amore, ma sa che, se smettesse quest’acqua, torneranno
clienti domani a sciamare, e verrai anche tu, perché qui
io t’aspetto. Mi raccomando non prendere il treno!
Lei mi guarda, sento che è ora, le sue mani hanno un
leggero tremore, le sue labbra un deciso sorriso, che è
anche tristezza, forse destino. Perché entrambi sappiamo
che non ci sarà altra occasione, queste venti stanze
vuote ed il cuoco e gli addetti in libera uscita, questa
penombra priva di luce, striata ogni tanto da un fulmine
lilla che a rami divampa, a tronchi s‘immerge.
La vedo, un attimo di paura vela il suo viso, mi viene
vicina e mi stringe la mano, mi abbraccia, sento il
caldo del suo seno materno, ne sento l’odore, questo
tuono che fa tremare le canne, questo mare che arriva
fin sopra le scale. Lei non sa che faremo l’amore, come
ignora che ho scritto ogni cosa stasera.
Affacciati alla ringhiera guardiamo nel vuoto,
respiriamo a fatica, a piccoli sorsi, come in attesa del
prossimo tuono, per abbracciarci di nuovo, per il dolce
sapore del rossetto scarlatto, perché è così che ho
scritto, previsto il dettaglio, e così ormai sarà, come
ora che un lampo squarcia il cielo lontano, come ora che
piano sussurra parole, si avvicina e mi dice di stare,
come ora lei piano si china e si prostra, poggiando il
cappello sul tavolo accanto.
E come è già
scritto scosta i capelli, e come è già scritto la lampo
poi scende, guidata dal fiato, dalle sue mani sapienti,
poi intensa lo guarda, sorride e si ferma, enfatizzando
l’attesa, increspando le labbra, che si schiudono
appena, facendomi un dono, ma senza parlare.
Sotto la pioggia che sbatte, sotto il mare di strascichi
e vuoti, respiri e risucchi e turbini e gorghi, come ora
la sua bocca cerca di imitare, come ora i suoi occhi
fissano i miei, mentre esperta continua a darmi piacere,
lo prende, lo bacia e lo avvicina al suo seno, come
fosse un bambino che ha bisogno di caldo, ed avesse
bisogno d’amore e di cure.
Continua a fissarmi,
ora è sincrona al mare, all’arte, al piacere liberando
parole, che corrono lisce, che corrono altrove, sui
fogli bianchi, sulla sabbia intatta, sugli ombrelloni
bagnati dal mare, sul romanzo che ha preso ormai forma e
uno stile.
Ecco, mi chiama, mi dice che m’ama,
trasuda parole che sanno di carne, mi dice che è il
mare, che è colpa del vento, di questo vestito che a
velo traspare, ma lei IGNORA CHE ESISTE, che è solo un
romanzo, che è solo un segreto, un miraggio che affiora,
galleggia e si mostra. È dentro di me ed in quello che
scrivo.
Lei non sa che queste mie mani che le
sfiorano il capo non sono reali, ma l’accompagno
ugualmente guidato dall’onda per darmi piacere. Lei non
sa che le sue parole sono solo un sibilo di vento, che
mi dicono di rientrare per fare l’amore, come avesse una
voce, un’anima, un corpo, un respiro, come avesse una
bocca di velluto e di seta, come fossero venti le sue
stanze vuote, come fosse reale la torta al limone, e qui
per davvero non ci fosse nessuno, neanche il cuoco in
libera uscita, la coppia inglese e l’intonaco mangiato
dal sale…
È lì che mi sveglio, è lì che la guardo
ed è solo una forma, un contorno di luce, di rumore di
mare, lo sento il continuo strascicare di risacca e
risucchi, che si trascinano stanchi e formano un vuoto
di muti silenzi, di attese assordanti, di parole che
scrivo diluite nell’acqua e lasciano l’essenza che
indelebile resta, ma fugace s’appresta a ridarmi altra
linfa, sopra questa terrazza dove attendo da solo l’ora
imbrunita che volge alla sera.
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Il racconto è frutto di
fantasia. Ogni riferimento a persone e fatti realmente accaduti
è puramente casuale.
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