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RACCONTI
 
 

Adamo Bencivenga
Il Carnevale






Immagina un giorno di quelli normali, immagina una casa alle sette di sera, una televisione accesa, un tegame sul fuoco, due bimbi che giocano sul tappeto in salotto. Ora immagina un uomo che apra la porta, come sempre a quell’ora si toglie il cappello, con aria pesante si toglie la giacca e si scrolla fatica, pensieri e gli spettri di un lavoro precario, di un futuro più incerto.
Ora immagina una donna seduta in cucina, la tavola pronta e la cena sul fuoco, accenna a un saluto senza trasporto, come sempre, ogni sera, mai un pensiero diverso, seduta in penombra per risparmiare corrente, illuminata a fatica da una luce che filtra, con indosso una camicia lisa e consunta, che avrebbe bisogno almeno di un punto.
Ecco immaginala ora con le braccia conserte, con i capelli raccolti senza ordine e cura, ha lo sguardo sognante che si perde nell’oltre, d’un viale coperto dalle foglie di tigli, d’un cielo che incerto minaccia la neve, ma mettiamo per caso che sia una sera diversa, e sul viso di lei si schiuda un sorriso, così senza ragione o motivo apparente, forse solo un respiro per un tepore più caldo, il sogno mai domo di una vita diversa.

Ora immagina l’uomo, guardalo entrare, attraverso la porta della stanza socchiusa e lui guarda la donna con occhi diversi, come la vide la primissima volta, un angelo biondo seduto in disparte, con un vestito più corto e le ginocchia scoperte, accovacciata e triste sulle scale di scuola. Lui si avvicinò e lei spontaneamente sorrise, dimenticando di colpo il pessimo voto, tra parole di conforto e quelle leggere e nacque da lì la loro storia d’amore.
Ecco immagina ora la stessa sequenza, lui si avvicina senza fare rumore, ed invece del solito ciao indifferente, con grande sorpresa la invita ad uscire, senza preavviso, così come viene, senza che lei abbia avuto un sentore, come uno sparo nel buio più fitto, come in quel brano “Vestiti che usciamo!”, come in quel film degli anni cinquanta, che videro insieme, mano per mano, quando lei pianse e lui non perse un secondo, di quella scena finale, di quel ballo tra amanti, e lampadari a gocce, e pavimenti di marmo, e il vestito di lei, quella stoffa leggera, che faceva la ruota, che faceva le onde, al ritmo intenso di un valzer viennese.
Immagina allora lei arrossire, perché in quella scena c’era un bacio infinito, e poi una stanza di un albergo importante, e lenzuola di seta in un letto a tre piazze, e mani e gambe e baci e labbra, la lampo che scende, la cravatta slacciata.

Immagina ora lei come lo guardi, no, non ci crede, non può essere vero, ma non c’è bisogno che lui lo ripeta, non c’è bisogno che lei lo risenta, le basta fissarlo dritto negli occhi, quelle noci vive quando dicevano altro e da anni non sono che fari in disuso. Ed allora sì che si alza e lo abbraccia, e allora sì che riascolta quel valzer, e va in camera da letto e quasi saltella, e lui che la segue con le mani sui fianchi, ma lei gentilmente lo invita ad uscire, e socchiude la porta e lui fa resistenza, poi la chiude del tutto e lui sente la chiave, perché non gli è permesso assistere oltre, perché non gli è concesso vederla antetempo, proprio come uno sposo sull’altare impaziente, proprio come una sposa dopo anni d’attesa.
Ora immagina lei intenta a cercare, una scatola blu nell’armadio più in alto, proprio dove è riposto il suo abito bello, quello bianco d’organza con le rose pervinca e le foglie più verdi di un intenso smeraldo. Ecco immaginala ora vestita allo specchio, che allaccia bottoni e stringe laccetti, con un seno da sogno in parte scoperto, e quell’abito bianco che le lascia le gambe, nude al ginocchio come ai tempi di scuola, nude quel tanto per farlo impazzire, come ora più grande, il ricamo e la calza , piuma leggiadra che danza nell’aria.

Ora immaginali insieme fusi e contenti, che scendono le scale avvolti in un sogno, lei piccola s´appoggia, lui grande la tiene, lei petalo e corolla, lui gambo e fusto, ed arrivano in piazza ed inizia la danza, stretti abbracciati come in luna di miele, ecco immaginali ora dentro una nuvola bella, dentro una favola tra nani e folletti, avvolti in un manto di zucchero a velo, di sconfinata dolcezza, di smisurata incoscienza, di lei che oscilla e impalpabile ondeggia, ecco immagina lei con le scarpette da ballo, un tenue rosa di stoffa di raso, lei messa in piega, lei boccoli d’oro, lui labbra carnose e sguardo profondo.
Ecco immagina lei profumo d’attesa, immagina lui muscoli e barba, capelli lisci, brillantina e lavanda, lui luce e buio, orologio a cipolla, lei pallida luna ed ombra sfumata, ecco immagina lui che la solleva con un niente, e con un niente la porta sull’asfalto bagnato, che riflette il vestito, le scarpe, il rossetto, sotto il solo lampione in mezzo alla piazza.

Li vedi vero, vedi la piazza? Alza gli occhi, sta nevicando, a piccoli fiocchi, stelline leggere, farina di scena, zucchero a fili, poi sempre più fitti, a grani e a crusca, sulle spalle bianche, nude di lei, sulla giacca di raso, nera di lui, e tutt’intorno nessuno, e tutt’intorno un omino, con i baffi e un violino, con il frac e il cappello, che gira intorno a passetti veloci, che gira e si siede sulla panchina di marmo, ha una giacca a scacchi, rosa e marrone, pantaloni al ginocchio e la faccia dipinta, ed intona le note di un valzer nostrano, il Carnevale di Venezia, in un allegro a tre tempi, con le corde e l’archetto, con le mani e la bocca, in un composto di suoni che si sparge e si fonde con un fruscio di scale di un solfeggio di passi.

Immagina lui, ghiaccio bollente, immagina lei quiete e frumento, lui ferro, morsa, tenaglie e manette, lei vela, carillon, profumo di viole. E sono baci e carezze, movimento di labbra, per andare a tempo e a passi perfetti, e lui che la guida e lei s’abbandona, lei rosa legata ai boccoli d’oro, lui gardenia che spicca sulla giacca di raso, in una danza infinita nella piazza deserta, solo un violino, solo un omino, e tanta neve che scende, una cascata di luci, minuscole e fitte, fosforescenti nell’aria, d’azzurro e turchese, di viola e di verde, ora sparse per terra in uno strato sottile, come zucchero a velo su una torta di miele.

Ecco immagina ora altri violini, e fiati e corde e nani bambini, e voci e tasti e suoni lontani, come se provenissero dalle cime più alte, e giù per la valle tra i vicoli stretti, invadendo le case, le stanze e i cortili, prima una e poi altra, si accendono luci, e s’illuminano finestre e si spalancano scuri, e la piazza a poco a poco si riempie di voci, di suoni e d’accordi, di corde di piani, e diventa un palco, sipario e platea, e l’omino un’orchestra di mille elementi, maestri e giocolieri, clown e sapienti, e donne eleganti in finte pellicce, rossetti sbordati, lustrini e paillettes, e gli uomini tutti con le fronti imperlate che non è neve e nemmeno sudore, ma pensieri bollenti che s’affollano a sera.

Ecco li vedi? Immagina ora che si formino coppie, non ha importanza l’età, il ceto, l’altezza, nemmeno l’odore, la lingua, la pelle, ecco immagina il cielo che di colpo schiarisce, e sono fuochi d’artificio e scie luminose, e stelle filanti e luci accecanti, e vino tinto che a fiumi trabocca, e birra bionda al profumo di malto, come alla festa del santo patrono, con le vergini in fila e le mogli disposte, a chiudere un occhio, ad annusare altri fiori, perché sono baci folli e saliva dolciastra, palpate di seni, palpate di fianchi, a volte furtive, a volte evidenti, che fanno buon sangue grasso e voglioso, di sederi abbondanti che si fanno toccare, di labbra a ciliegia che gonfie si danno, e grida gioiose, di slanci e furori, che nessuno più sente di voler soffocare, nonostante l’ora tarda, i divieti e i permessi, nonostante una schiera di poliziotti e gendarmi .

E allora immagina pure che la voce si propaghi, per i paesi più vicini, per quelli lontani, e scendano pastori, le scrofe e i maiali, e scendano le maschere, i trucchi coi pagliacci, e tutti insieme ballino, i sani con i malati, i giusti con i furbi, i grassi con i magri. Ecco immagina una giostra e croccanti e noccioline, orecchini e messa in piega, alcol e nicotina, e la notizia come fama corra senza fiato, e valichi montagne e solchi ogni mare, ed ogni piazza principale sia un grande carnevale, e chiasso, passatempi, colori e confusione, perché una troupe televisiva manda l’evento, e in ogni zona della terra nasca un focolaio, ed ogni piccolo paese diventi un circo equestre, e attecchisca dove trova fertile la noia, dove l’albero dell’uggia finora ha dominato, il normale sul diverso, il metodo sull’imprevisto, e tutto il mondo conosciuto ne venga contagiato ed in tutto l’universo si propaghi quel batterio, quel germe di follia finalmente liberato, finché una luce nuova li sorprenda tutti insieme, e la noia sia sconfitta e l’abitudine repressa, ed un sorriso luminoso, grande quanto sia un sole, possa all’orizzonte finalmente albeggiare, possa ogni sera dire: “Vestiti che usciamo”, possa ogni giorno essere, per sempre Carnevale.
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Il racconto è frutto di fantasia.
Ogni riferimento a persone e fatti
realmente accaduti è puramente casuale.


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Photo    Mojlo

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