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RACCONTI D'AUTORE

ADAMO BENCIVENGA
L'AMANTE UFFICIALE
SECONDA PARTE

Cholon
La mattina quel sogno era scomparso, sveglie eravamo
distanti, come se la mia bocca fosse rimasta per tutto
il tempo appoggiata al cuscino. Avevo il timore di non
essere stata all’altezza, che la mia lingua fosse stata
solo una raspa e i pensieri notturni avessero preso la
luce come foto svanite nel nulla. Ma mi sbagliavo,
decisamente mi sbagliavo.
Siamo andate insieme a
Cho Ben Than e poi a Cholon, tra i vicoli stretti del
mercato. Lei portava un foulard per vestito, giallo
ed arancio, il suo seno era in mostra per chi avesse
voluto apprezzarlo. Ero gelosa, davvero sai, ma anche
fiera perché ne sentivo ancora il sapore, tra le mie
dita, tra le mie labbra che avrebbero ancora voluto.
L’avevo stretto tra i miei denti, l’avevo fatto
attendere e poi saziato. Era stato mio, remissivo e
ribelle, fino ai primi rumori dell’alba, voci e
biciclette che ci avevano accompagnato nel sonno. E ora
tra quei banchi ne andavo fiera come se fosse io ad
ostentarlo nella sua forma perfetta, nella sua forma
esagerata e colma di sensualità.
Rideva e si
fermava a parlare con la disinvoltura che a me era
sempre mancata. Ha acquistato per meno di un sorriso una
stampa su carta di riso proveniente da Dong Ho e per
mezzo bacio un vasetto Bat Trang in ceramica grezza.
Stretta nel suo foulard mi accarezzava i capelli e
la fronte, solo allora ho sentito di nuovo la voce,
calda e suadente sotto i suoi occhiali da donna fatale.
“Ti amo.” Flebile, appena accennato per confidarmi che
non s’era pentita d’avermi concesso d’amarla, d’arrivare
dove finora solo uomini s’erano inoltrati. Davanti ai
banchi di pesce si è fermata. Ha stretto gli occhi
simulando un bacio. “Sai, non devi pensare che in
ogni città in cui vada faccia l’amore con una donna, che
mentre mio marito è fuori mi faccia un’amante per tutto
il tempo in cui rimango.” Ma io non pensavo nulla.
Stavo vivendo una storia impossibile ed era un peccato
cercare una ragione. Tu che eri lontano, lei che mi
stava sorridendo, le dieci sterline. Ha sfilato un
fiore da un vaso di metallo e l’ha appuntato sui miei
capelli. “Ti voglio bene.” Non mi ha dato il tempo di
pensare quanto avrei potuto ricambiare quell’amore.
Abbiamo camminato per ore, incerte sui nostri tacchi
bianchi, tra legni e broccati, tra ginseng e thè.
Eravamo belle, lei ricca ed io felice. Al nostro
passaggio quegli uomini umili ci sorridevano con i pochi
denti rimasti, ci chiedevano d’accettare le loro
miserie, le loro ricchezze. Era la mia gente, ma ora
mi sentivo diversa, avvertivo una carica dentro come se
quell’essere accanto m’avesse rigenerato ogni goccia di
sangue, ogni parte del corpo marcita dalla guerra che
semina pianto, dal mestiere che ti costringe a ridere.
Io stavo lì in mezzo!
Quando la sera sei tornato non ho avuto paura a
mostrarti tutto il mio affetto. Niente era cambiato. Tu
mi baciavi avido come se mi cercassi l’anima in bocca ed
io non avevo timore che tua moglie ci potesse vedere.
“Mi sei mancata Numi!” Mi respiravi lì in piedi
sulla porta prima ancora di salutare lei. “Anche
tu.” Ti ho sussurrato. Appesa come una figlia che
abbraccia suo padre, stretta e contenta con le braccia
serrate attorno al tuo collo. Ecco proprio in quel
momento capivo che vi stavo amando contemporaneamente,
vi amavo perché eravate due anime in cerca dell’altra.
Già m’era successo d’amare due uomini, senza che
l’uno sapesse dell’altro, d’amarli intensamente senza
saper scegliere, di spartirmi a metà e per questo
sentirmi incompiuta. Con voi era diverso, non mi
sentivo incompleta. Non ne conoscevo la causa, ma vi
amavo lo stesso. Non mi sentivo divisa, ero integra ed
intera, come se stessi occupando un posto vacante, come
se ad ogni vostro abbraccio passasse dell’aria e
rimanesse del vuoto ed i vostri corpi non fossero
perfettamente aderenti. Ecco, io stavo lì in mezzo!
Occupavo un posto che nessuno di voi due avrebbe mai
occupato. Ecco, io stavo lì in mezzo! Tra le gambe di
tua moglie troppo arcuate. Tra un incrocio di venti che
proseguono assieme. Ecco, io stavo lì in mezzo! Tra i
tuoi occhi troppo distanti, tra due gocce di pioggia che
cadevano leggere, ma non potevo bagnarmi: “Io stavo lì
in mezzo!”
Abbiamo cenato in veranda, mia cugina
Hong aveva preparato il cà loc kho to. Ti guardavo
mentre mangiavi ed ero felice che ti piacessero i nostri
sapori, quel piatto di pesce con l’insalata di loto. Tua
moglie aveva preferito una zuppa in agro dolce con
ananas e tamarindo. Avevi voluto che scegliessi la
domestica. Eri soddisfatto della cucina di Hong.
Mi facevi tenerezza, avevi l’aria stanca, ma ti sforzavi
ad essere brillante. Mentre parlavi pensavo che non
avevamo mai fatto l’amore, che tua moglie quella sera
stupenda s’era infiltrata come acqua vacante nelle crepe
del cuore. Non sapevo come sarebbe andata la notte, se
avessi dormito fra voi due o nella mia stanza come la
prima volta. Chi sarebbe stato a decidere? Chi dei
due avrebbe guidato la danza, m’avrebbe stretta ai
fianchi e fatta volare fino a cadere in mezzo nel letto
mentre tutti e due ignoravate le intenzioni dell’altro.
Avrei voluto confessarti che la sera prima avevo
preso il tuo posto, avevo leccato, succhiato quel tesoro
che sapeva di chiuso. Sì, ha gridato fino alle prime ore
dell’alba, un uragano di gioia, di voglia e di miele.
Voleva fare il maschio, ma ha goduto, sofferto come una
donna, sazia ed affamata senza una tregua, senza una
pausa che ti fa sentire l’affanno del respiro al chiaro
di luna.
Ora vi stavo guardando. Non sapevo cosa
ci fosse nell’indifferenza di lei che sorrideva poco
convinta ad ogni tua battuta, non sapevo quanto nella
tua gentilezza c’era il gusto della mia presenza.
Timida m’interrogavo senza capire, per me era tutto
nuovo, mangiavo con gli occhi sopra il piatto, come una
figlia incerta se parlare o stare zitta. Ma ero anche il
vostro segreto, lo scrigno dei vostri sogni mai
confessati, delle voglie lasciate ogni sera ai bordi del
letto. O m’illudevo soltanto?
Tra voi c’era
antagonismo, rivalse inconfessate. Questo sì, questo
l’avvertivo, ma non ne conoscevo l’origine. Ero sicura
che nessuno dei due avrebbe mai ceduto. Oddio come
eravate diversi! In quei momenti eravate due persone che
non conoscevo. Tu con l’aria ferita e lei altezzosa
come il primo giorno. Nonostante fossero passati solo
giorni ero sicura di conoscervi a fondo. Vi guardavo e
dentro me cullavo la vostra vera essenza, ne andavo
fiera e vi stringevo nel cuore, orgogliosa di conoscervi
più di quanto potevate immaginare dell’altro, più di
quanto negli anni v’eravate concessi.
Abbiamo
respirato la notte di Saigon guardando le stelle, quel
vento freddo che s’alza senza mai sapere da dove, i
bagliori d’un fronte troppo vicino, ma io mi sentivo
protetta e non provavo nostalgia della Maison Rouge, che
a quell’ora era fitta stracolma di 150 ragazze e
penosamente vuota di qualche straniero che non si
decideva a comprare il biglietto. Tu mai mi avevi
giudicato carne da bordello e con tua moglie avevo già
scambiato gli umori d’un sesso troppo identico al mio.
Sì, una bocca m’aveva lasciato il rossetto tra l’incavo
del seno, una mano m’aveva graffiato le pareti
dell’anima con le sue unghie smaltate di rosso.
Le tele di pezza
Quella notte ho dormito nella mia stanza come una
domestica o una cagna nella sua cuccia. Nessuno di voi
due si è alzato per venirmi a trovare. Prima di prendere
sonno pensavo che avrei chiuso gli occhi ed accettato le
mani come si accetta un destino. Contavo i secondi
fino a 20 a 30 a 50 illudendomi che prima della fine
avrei sentito un alito denso senza conoscere il nome. Di
te o di lei m’importava di meno perché il mio posto era
riempire quel vuoto, scaldare la freddezza delle tue
maniere gentili, succhiare quel nettare fino alla
sorgente, perché mi illudevo che solo in questo modo vi
avrei fatto del bene, non escludendo l’altro nei miei
pensieri di sempre. Sono passate ore fino a rendermi
conto che nessuno sarebbe venuto, sono rimasta buona
buona nel letto pensando che come puttana, trascorsa la
notte, valevo di meno, che come amante mi mancavano i
fiori, il profumo che invade la stanza e il cuore.
Mi sono alzata prestissimo, un’alba più rossa veniva
dal mare ed aveva invaso la casa. Ho scostato appena la
tenda per spiarvi nel letto. Eravate distanti e le
lenzuola erano così in ordine d’esser sicura che non
v’eravate neppure sfiorati. Vi davate le spalle come
due soldati che dormono al fronte. Non c’era amore in
quella posizione, non c’era sesso consumato nel buio.
Ora capivo le parole che mi avevi detto al ballo, capivo
la voglia di lei, il desiderio d’essere scavata nel
ventre, d’avere un buco nell’anima a forma di sesso.
Mi sono affacciata in veranda e mi sono lasciata
rapire dal mare guardando l’alba spiegarsi sopra quel
mare ancora di pesto. Erano tenebre sbiadite ancora
prive di luce viva. Avanzavano tremando sulla cresta
dell´onda, come controcanti d'estate portati dal vento,
che caldi s'appiccicano come sabbia alla pelle. Le
avrei volute trattenere gelosa come se fossero state
secondi o semplici sessi, e sola avessi potuto
indirizzare la luce per farmi riempire l’intarsio
impreciso tra anima e niente.
Si spiegava
quell’alba sopra i tetti impagliati d'umido e notte,
sopra i sogni appannati che vuoti avevo usato poco prima
per non sentirmi da sola. Nel sogno m’hai voluta
sopra quel bagnasciuga, che bagnassi i capelli di acqua
di mare. M'hai voluta perché ero bella, convinto che un
sesso di carne m’avrebbe potuto davvero saziare.
Mi chiedevo, se l´avessimo fatto davvero, se m’avresti
apprezzata più di tua moglie. Avrei voluto con tutta me
stessa essere una femmina normale! Sedermi e coprire
quei pochi centimetri di gamba quando sale la gonna ed
offrire il tesoro senza per questo sentirmi ballerina a
tariffa! Perché non mi ci sentivo, perché non poteva
essere puttana chi sentiva l’amore, per uomo o per donna
senza forma né sesso, e si offriva per dieci biglietti
perché il destino non le aveva concesso di meglio. hg
Sorridevo pensando a mia madre. Non aveva ancora
capito cosa volesse dire ballerina a tariffa e faceva le
prove di pianto, come se fosse stato domani, stendendo
al sole un corredo ammuffito. Ma io non avevo un
pretendente, o una pancia da nascondere a parenti e
vicini. Avevo solo clienti tra l’altro stranieri. Mi
chiedevo se un giorno mi sarei davvero sposata. Se nel
mio destino c'era la favola del cliente straricco che
s'innamora della bella puttana. Perché non vedevo
altro luogo da cui potesse spuntare la fiamma di quel
sogno d'amore, dentro quelle quindici stanze dove
mettevo la lingua quando mi chiedevano un bacio.
Sorridevo pensando a mia sorella, m’aveva chiesto
consigli come se fossi stata un’esperta di cuore, come
se l'amore che offrivo fosse stato distante da quelle
mutande, che stranamente portavo almeno una volta ad
ogni luna crescente. Mi chiedevo se oltre quell’alba
sarei stata capace di provare piacere, e quelle tette
che timida mostravo potessero avere l'istinto di madre.
Le guardavo ma sapevano solo di ballerina, solo di sesso
a portata di mano. Trote di fiume, spigole di mare, nude
sopra un banco di pesce che addobbavo con foglie di vite
per farle apparire più fresche. Le stringevo perché
fossero più sode illudendomi che avrebbero sfamato per
sempre qualsiasi bocca anche quando, a forma di pere,
sarebbero cadute senza riguardo.
Perché nulla
serviva, nemmeno tu che dormivi accanto a tua moglie,
che m’avevi baciata frantumandomi l'anima come se fosse
una fica, come se deluso ti fossi reso conto che non era
altro che un buco, un misero squarcio che nessuna
bellezza avrebbe potuto affinare. Mi chiedevo
davvero se fossi stata all'altezza, se quell'alba che
spiegava lontana, potesse ridarmi la luce o quella paura
che m'aggrovigliava la faccia sarebbe rimasta come
dentro ad un sentiero tra la tela di ragno.
Chissà se quello che stavo provando era davvero l'amore,
o qualcosa d'informe che chiamavano tale, ma avevo paura
che, se davvero lo fosse stato, sarebbe svanito alla
luce del giorno e gli occhi di lei, di lui, non
avrebbero visto che seni, che carne, e tra le mie gambe
non sarebbero rimasti che calli incapaci d'accogliere
amore di due forme diverse.
Davanti a quella
luce che incombeva decisa, avrei voluto che qualcuno mi
bendasse perché fosse stato buio di nuovo, come nel
sogno a carponi riempita, nel punto preciso dove tu
ancora non conoscevi la strada. Perché di nulla sarei
stata più sicura! Dentro quella notte passata che mi
regolava l'umore, dentro il mio cuore scarnito che
confondeva l'amore col sesso, e vuoto difendevo con le
pezze di tela che portavo ad ogni ciclo di luna.
Il ballo all’ambasciata
Era un giorno di festa e senza fare rumore ho
preparato la colazione, poi delicatamente vi ho
svegliato. Leggevo nei vostri occhi assonnati l’identico
desiderio. A tua moglie ho offerto una rosa, a te un
bacio sulla fronte, ma cercavo comunque di rimanere
lontana da qualsiasi indugio. Non dovevo sbagliare,
non dovevo diventare la causa della vostra indifferenza.
Sarei stata come uno dei tanti pretesti da buttare via
quando si tenta di ricucire un rapporto. Io ero
l’armonia nei vostri cuori, la leggerezza dei vostri
passi, l’ultima promessa prima di riprendere sonno. Ero
l’amore che appanna ed appiana, la passione che entra
violenta ed esce a forma di fiore che addolcisce l’amore
di ogni giorno che passa.
In cuor mio speravo
che presto sarebbe accaduto, che avrei riempito la parte
intatta del letto, inesorabilmente vuota a forma di
conca. Senza più sotterfugi o segreti sarei stata
l’amante, l’amante ufficiale, tua e di lei senza bugie,
accettata dall’uno e dall’altra senza limiti all’amore
che davo, senza sentirmi infedele quando offrivo la
bocca, senza amare e per questo tradire.
Feci
salti di gioia quando contemporaneamente mi avete detto
che ero anch’io invitata. Felice perché non vi eravate
consultati, felice perché anche una puttana del posto
può partecipare a quelle feste esclusive, felice perché
era un altro gradino della mia conquista, d’essere
l’amante ufficiale agli occhi del mondo senza che voi
ancora ne aveste accettato il ruolo di entrambi.
Tua moglie mi ha vestita all’occidentale, in fin dei
conti avevo soltanto due taglie di meno ed i suoi
vestiti mi facevano più grande degli anni che avevo. Mi
ha truccata caricando i colori, gli occhi, la bocca, per
essere immagine e somiglianza del suo desiderio, per
essere quello che lei non sarebbe mai riuscita ad
essere. Mi truccava e mi baciava, ad ogni tocco di
colore mi tirava i capelli, mi stringeva la carne nelle
parti più sensibili. Voleva trasmettermi tutto il suo
potere, avvertirmi che nonostante fossi bella ero sua in
esclusiva e nessuno mai avrebbe potuto avvicinarmi
nemmeno con gli occhi.
Mi domandavo se avesse
saputo di te, di noi, come si sarebbe comportata, se
quella passione fosse stata così possessiva e maschile.
Ad ogni sua carezza avevo più dubbi. Le sue mani erano
troppo energiche, i suoi baci violenti, ero convinta che
volesse emularti. Tu eri già fuori e non potevi
vederci, ma ti giuro che dentro quel bagno sarei voluta
rimanere per tutto il ballo, per tutta la festa
nonostante ci tenessi.
Era una villa bellissima,
dalla vetrata si vedeva in controluce un albero
gigantesco, uno dei tanti tamarindi piantati un secolo
prima che dominava il giardino fiorito fuori
dall’ingresso principale. Mai avevo visto tanto sfarzo
tutto insieme, non immaginavo che a Saigon ci fosse
tanta ricchezza, tanti uomini importanti, generali
imprenditori d’affari e tanti camerieri del posto
ripuliti alla buona. Seduta su un divano di pelle
bianca riempivo i miei occhi di luci e cristalli, di
pietre e gioielli che impreziosivano i colli di donne
fatali. Avevo paura che prima o poi qualcuno mi
riconoscesse, s’avvicinasse mostrandomi il biglietto per
pretendere un ballo a tariffa. Tu l’avevi capito, la
tua mano mi ha accarezzato discreta i capelli
scoprendomi il volto, per farmi capire che non c’era
nulla di male, nulla di cui vergognarsi, perché questi
uomini belli e ricchi facevano i conti ogni giorno con
altri peccati. Per sciogliermi da ogni timore mi hai
invitato a ballare. Tra le tue braccia mi sentivo più
leggera di quanto pesassi. E’ bastato un nulla perché
scomparisse ogni paura, ogni minima tentazione di
fuggire lontano, perché non avevo ancora capito se tutta
quella gente fossero i difensori o gli assassini del mio
popolo.
Ho sentito in quel momento il desiderio
convinto di fare l’amore, tu ancora non sapevi affatto
quanta devozione mettessi in quell’atto, quanto il mio
sesso fosse uno squarcio di sogno, una finestra di mondo
che non conoscevi. Quella sera non l’avevo coperto
di nulla, non avevo più le pezze di tela. Tu te ne sei
accorto insinuandoti con la mano tra le mie gambe
obbedienti. Ad ogni stretta accennata avvertivo il
bisogno di darmi ed appagarti. Sarebbe bastato un
qualsiasi attimo per occupare quel posto che ti
spettava, lo stesso che avevo dato a tua moglie ed ora
nutrivo un senso incolmabile di colpa. Mi baciavi e mi
sfioravi, consumavi il vestito proprio sopra il mio
seno.
Oddio tua moglie se ne sarebbe accorta! Ma
ero in estasi! Per un attimo ho pensato di dirti di
comprare un altro biglietto. “Scopami ti prego!” Ma
tu non capivi. Avevo quasi il dubbio d’averlo detto
nella mia lingua. La musica stava finendo, tua
moglie era impegnata in una conversazione nella vostra
lingua. Dietro una grande fioriera ho intravisto una
porta. Sono stata io a spingerti. Era buio, non si
vedeva nulla. Un lungo corridoio adibito a magazzino. Mi
sono appoggiata coltro una pila di scatole con dentro
dei viveri, bottiglie di vino e farina. Ti ho spinto a
me con violenza.
Tu conoscevi il vestito, bianco
trasparente, scollato dietro fino ai fianchi. Chissà
quante volte l’avevi visto indosso a tua moglie e magari
ci avevi fatto l’amore. “Scopami, ti prego! Chiudi
gli occhi ed accarezza la stoffa, se proprio non vuoi,
fai almeno finta che io sia tua moglie.” Ecco, sapevo
che in questo modo sarebbe scattata la molla. Ho
accettato quello schiaffo, chiaro e diretto. Ne avrei
voluti degli altri, ma non c’era tempo e non ce n’era
bisogno. Ero tua fino ai capelli. Tua con tutto il corpo
proteso sul tuo sesso. Ho alzato il vestito senza
permesso, spalancato le gambe senza criterio, come una
porta che s’apre di scatto o il vento la spinge e vi
penetra il mondo. Per me sarebbe bastato anche un solo
secondo, un accenno che lasciasse la carne affamata, ma
saziasse il bisogno di essere tua, di sentirti alla pari
con tua moglie che ora parlava e parlava senza sosta in
salotto. Non so se in quel momento t´amassi, ma
volevo a tutti i costi che tu fossi pari a lei per
occupare quel posto che ritenevo mio. Lì in mezzo a voi,
quel vuoto che nessuno di voi due avrebbe mai riempito.
“Scopami, ti prego! Eri lì davanti a me ed io
t’imploravo di strapparmi i capelli, di farmi capire
quanto dolore poteva sopportare il mio ventre, quanta
donna c’era dentro quell’anima che a carponi, se tu
avessi voluto, avrebbe leccato la terra e masticato erba
fino a sentire chiaramente lo strazio di carne come nel
sogno la notte precedente.
“Scopami, ti prego!”
Ti ripetevo. Proprio dove andavo cercando il contrario
di quella voragine che ad ogni tua stretta mi convinceva
d’essere solo fatta di pelle, d’essere faccia e mani e
null’altro.
Tu non parlavi, ma non mi servivano
domande e le mie risposte erano dentro quelle pieghe che
profumavano da lontano ad ogni richiamo. Ringraziavo
il cielo per avermela fatta bella come una conchiglia
dove sarebbe bastato poggiarci l’orecchio per ascoltare
i flutti di mare.
Perché nonostante mentissi
a me stessa tu servivi per nutrirmi il cuore, come tua
moglie, del resto, che stava parlando in salotto. Ma
non l’avrei mai confessato! In quel momento avrei
voluto implorarti di dirmi che non valevo un semplice
buco, quanto quelli che incontravi nei tanti bordelli al
fronte. Ne ero quasi sicura, perché altrimenti l’avresti
trovato nella Maison il primo giorno che ti avevo
conosciuto oppure in qualsiasi parte, sotto qualsiasi
gonna, qualsiasi strada fuori di lì, dove masse di
disperate sulle strade aspettavano inutilmente che
finisse la guerra.
Volevo sentirtelo dire perché
mi accorgevo di averne bisogno! “Scopami l’illusione
che con te sarà tutto diverso, che m’accetterai anche
quando saprai che mi scopo tua moglie, che allargo le
gambe senza distinguere il sesso. Io cerco amore! Che
strano sentirlo da una puttana! Vero?” Ma non te l’ho
detto, non è uscita la benché minima parola. La tua
faccia era lì inespressiva e quasi mi vergognavo d’aver
pensato di chiederti amore.
Eh già Amore! Cosa
stavo dicendo? Un’inutile parola per infarcirmi la bocca
per il solo motivo di sentire la brama che avida avrei
voluto mi penetrasse, che ingorda avrei voluto
trattenere.
T’aspettavo impaziente, aspettavo il
fulmine che si fosse fatto boato, tuono di Dio, di ira e
passione, ma tu eri lì fermo immobile. M’hai chiesto,
come se ti dovessi fare un favore, di inginocchiarmi.
Senza nessun coinvolgimento sei entrato tra le mie
labbra, senza un gemito, un urlo, come due pesci in
silenzio nel mare. Non era un sesso che sentiva
piacere, non era un cazzo che m’estasiava le membra! Ne
avevo sentiti ben altri di clienti affamati, ingordi di
buchi che mi leccavano il cuore, nella smania di sapermi
più aperta prima d’entrare.
Eri lì senza parole,
con i colpi ovattati e un’amarezza di fondo, quasi
imbambolato senza renderti conto, che un inserviente del
posto era passato coprendosi gli occhi. Avevo capito
sai, non mi avresti presa, ma per me era già tanto
sentirti lì dentro, ma avrei voluto avvertire la forza,
il frastuono del sangue che corre, che bolle, l’energia
d’un maschio che scarica a foce i detriti e le scorie
d’un atto d’amore. Ma eri lì quasi immobile, una
prolunga soltanto, non avevi né mani, né labbra, ed io
di rimando lì genuflessa somigliavo sempre più ad una
bocca di moglie, pieghe di un passato che mai avrei
voluto vedere nel tuoi occhi.
Sapevi che non ero
uguale alle altre, che una puttana innamorata è uguale
ad una luna che esclusiva si offre, per questo tentavi e
sudavi, per questo m’avevi concesso di spalancare la
bocca. In un sussulto inatteso t’ho sentito più
molle. Allora non era questa la puttana che stavi
cercando? Mi hai presa di peso e fatta alzare. Come per
dirmi che ero soltanto ridicola in quella posizione. Mi
hai baciata perché era l’unico mezzo per sentirci
vicini, mi hai leccato il seno perché non era questo il
momento di darmi risposte.
Il tenente
francese
Siamo tornati in sala
continuando a ballare, facendo che il mondo ci girasse
attorno e tra questi tua moglie che ci stava guardando.
Mi sono seduta sopra i dubbi del cuore, con la tristezza
negli occhi che mi velava lo sguardo e un tenente
francese m’ha invitata a ballare. Era moro con i
baffi ed una voglia massiccia. M’ha strusciata più volte
fino a farmi traballare. Sentivo il maschio che non
avevo trovato, sentivo i miei seni che non chiedevano
altro, ma io ero la vostra amante ufficiale, almeno fino
a prova contraria, ero l’uccello che aveva fatto il suo
nido, in quel vuoto che avevo visto la mattina nel letto
e poco prima me ne avevi dato conferma.
Il
francese era giovane e bello, audace ed ubriaco,
dirompente come tutti gli uomini che sentono l’odore di
femmina. Tu mi avevi lasciata in quello stato ibrido di
voglia e rifiuto dove ogni donna trova la forza per
sentirsi all’istante apprezzata. Se fossi stata nella
Maison delle 150 ragazze saremmo già saliti al piano di
sopra, nella stanza in fondo alle scale, quella rossa
riservata ai clienti d’onore. Perché altro non
chiedeva che un sesso che s’apriva alla voglia senza
resistere nemmeno un istante. Perché altro non credeva
che una donna è donna se non portava mutande.
Strusciava e premeva, sentivo il suo desiderio sulla
seta leggera, sopra il vestito da donna occidentale, tra
i nostri sessi dove non c’era che una piccola stoffa, un
tessuto sottile che mi lasciava sguarnita e senza
difese.
“Tu sei una delle 150 fanciulle!” Mi
aveva detto guardandomi con gli occhi assetati e
ubriachi. In quel momento mi sono sentita libera. Non
mi importava come l’avesse saputo oppure se m’aveva
visto ballare nella Maison. Ero una puttana no?
Avevo tutto il diritto di fare l’amore con chiunque mi
avesse voluto. Ci ho pensato sai? Sarebbe bastato che
tua moglie non mi guardasse. Tu eri al buffet e mi
voltavi le spalle.
Avrei potuto trascinarlo tra
quelle scatole di vino, le stesse dove prima, come una
stupida, avevo pensato d’averti. Ho fatto due passi
verso la porta. Ero troppo delusa da te, da voi, dal
vostro mondo. Un solo passo ed avrei avuto la maniglia a
portata di mano. Lui mi toccava, stringeva, premeva sul
vestito ormai sgualcito. E’ stato un attimo, mi baciava
sul collo, ma erano morsi sempre più profondi. Mentre
giravo ho visto il soffitto diventare cielo, grigio e
poi plumbeo, pioggia battente che scolava lungo il mio
corpo. Mi sentivo umida sul collo e tra le gambe,
sarebbe bastato un niente, ma forse il bel tenente ha
avuto pietà di me, o forse volevo solo conoscere il
limite del mio abbandono.
Ho ripreso subito
conoscenza e ho guardato verso di voi. Immediatamente mi
sono aggrappata al sorriso di tua moglie che in quel
momento si era girata a guardarmi. Ho resistito, mi
sono spostata quel poco per lasciare alla mente la
scelta, al mio sesso quell’aria per non avere più dubbi.
Finita la musica sono tornata in mezzo a voi due,
perché quello era il mio posto, perché nessuno di voi
due avrebbe fatto un metro per riempirlo. Avevo tanto
ancora da capire, tanto da offrire.
|
CONTINUA
Questo racconto
è opera di pura fantasia. Nomi, personaggi e
luoghi sono frutto dell’immaginazione
dell’autore e non sono da considerarsi reali.
Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari e
persone è del tutto casuale.
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