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RACCONTO
 
 
Adamo Bencivenga
L'AMORE AL TEMPO DEL FASCISMO
La donna mora e formosa, seduta sul bordo del letto, si rifaceva il trucco dentro un minuscolo specchio impolverato di rosa. Lui capelli corti e brillantina, sui vetri appannati, disegnava un piccolo cuore tra
le iniziali dei loro nomi...
 



 


 
Buttava giù la neve e in quella stanza d’albergo una sveglia scandiva i minuti rimasti di un pomeriggio di miele. La giornata era quasi finita e dietro le tendine bianco panna la donna mora e formosa, seduta sul bordo del letto, si rifaceva il trucco dentro un minuscolo specchio impolverato di rosa. Con i suoi occhi neri corvini guardava di traverso l’uomo seduto di spalle e pensava a quell’amore, a quel grande suo segreto.

Lui, capelli corti e brillantina, sui vetri appannati disegnava un piccolo cuore tra le iniziali dei loro nomi. Aveva dieci anni più di lei e da giovane era stato un bravo prestigiatore ed ora si chiedeva perché mai il tempo dentro quella stanza passasse così in fretta e quale fosse il trucco per fermarlo.

Si erano incontrati ancora giovani su un vecchio palco di varietà, lei ballerina di prima fila, gonna a pieghe e calze a rete, lui frac e bombetta, garofano rosso e scarpe di vernice. Durante lo spettacolo, davanti a gerarchi e funzionari di partito, i loro sguardi si erano incrociati a malapena, ma la sera stessa, dopo aver cenato con tutta la compagnia, erano capitati nella stessa pensione.

Lui, timido e timoroso, l’aveva invitata e lei si era fatta invitare e nella stanza di lui, al primo piano, avevano fatto l’amore. Da bravo prestigiatore lui si era perso per magia tra le gambe di lei fasciate di nylon nero, lei invece, come una ballerina, volteggiando sulle punte di quella passione, non aveva sbagliato un passo e insieme, fusi e sorpresi, non si erano risparmiati per tutta la notte.

L’alba non si era fatta attendere e increduli si erano chiesti quale senso avessero dovuto dare a quella notte. Certo, era stata una scommessa, entrambi avevano puntato sullo stesso colore ed avevano vinto, e nonostante fossero entrambi sposati, si erano promessi fedeltà ed amore vero, tanto che in quei trentadue anni assieme il loro entusiasmo non si era mai più smorzato.

Da quel giorno, lei innamorata, rideva come una bambina contenta dopo l’amore, lo faceva sempre anche senza motivo, come per ringraziare l’uomo di quella vita, di quel segreto che apparteneva solo a loro e nessuno mai avrebbe svelato. Lui invece fumava compiaciuto pensando a quell’immenso suo tesoro e tutte le volte, come fosse un rito, si alzava, accendeva il grande giradischi di radica e metteva su un vecchio disco di Natalino Otto.

Ed era in quel momento che invitava lei a ballare, e spostando le sedie e facendo spazio in quella piccola stanza, insieme si fondevano in un grande abbraccio pieno di tenerezze. Lui muscoli e barba, ferro, morsa e lavanda, lui luce e buio, orologio a cipolla, lei pallida luna ed ombra sfumata, lei vela, carillon, profumo di viole, quiete e frumento. Lui la portava e lei, ancora nuda, si faceva portare ripetendo a memoria musica e parole.

E in quell’estasi, tra baci e carezze, lui pensava a quanto fosse bella la sua donna e quanto quel seno, rigonfio e dritto, non avesse subito per nulla la legge del tempo. Lei invece fiera e orgogliosa obbediva a quelle mani credendo davvero che quella bellezza, riflessa unicamente negli occhi di lui, fosse tutto merito di quel loro immenso segreto.

Nessuno dei due in quel momento avrebbe immaginato una felicità più grande e una vita diversa, anche se si erano incontrati tardi, anche se per tutto quel tempo avevano ignorato di proposito che fuori di lì vi erano una moglie e un marito che non erano loro stessi e dei figli che non erano di entrambi.

Lui negli anni aveva fatto carriera e lasciando carte truccate, colombe affamate e fazzoletti variopinti era diventato un bravo presentatore di avanspettacolo mentre lei aveva avuto due figli e tra qualche mese sarebbe diventata per la prima volta nonna.

Tra poco, consumando gli ultimi istanti insieme, lei lo avrebbe baciato ancora e lui detto “ti amo” come fosse l’inizio di un nuovo incontro, perché non c’era tristezza nei loro occhi, men che meno malinconia, perché stavano bene così e nessuno dei due avrebbe voluto cambiare una sola virgola di quella storia, un solo giorno di quella vita.

Stretti ed abbracciati ascoltavano le ultime note, come amanti per sempre, come amanti veri di quella vita che avara, li aveva collocati in quel tempo buio. Eh già, tempi difficili per gli amanti, del resto l’adulterio era ancora un delitto e l’infedeltà della donna più che un disonore era un vero e proprio reato, tanto che sarebbe bastato un minimo sospetto per essere giudicata e condannata.

Lei lo sapeva, ma quell’amore era così grande che valeva quel rischio e ogni volta si chiedeva se fosse davvero una colpa amare e se fosse un peccato desiderare un uomo alla follia più di suo marito. Lui avvertiva quel timore, quella fiamma e quella donna, che esisteva perché non era di nessun altro, gli apparteneva come parte del suo cuore, e sapeva che mai si sarebbe accesa in un’altra pelle, mai in altri baci caldi.

Amanti per sempre, come resina e miele si erano fusi senza più distinguersi, legati all’eterno, perché lui l’amava come il fuoco nel braciere, come musa nelle sere, quando la vedeva contenta, quando poi la lasciava entrare dentro un piccolo spiraglio, un pertugio nella sua anima, per stringerla a sé e dirle che in amore, non c’è tempo e né misura, ma solo anime gioiose che vagano sole fino a quando il destino le combina.

Lui conosceva tutto di quella donna, sapeva che sarebbe stato lui il suo futuro, e sarebbero stati ancora baci fitti spaiati sulla bocca, trasudi di parole e fremiti di pelle, e ancora neve e tendine bianco panna, trucchi per piacere e calze nere per l’amore, passi di danza a seno nudo e Natalino Otto.

Ed ora erano lì immersi nella coda di quel pomeriggio, lei messa in piega e boccoli neri, lui labbra carnose e sguardo profondo, avvolti in un manto di zucchero a velo, di sconfinata dolcezza, di smisurata incoscienza, avrebbero continuato a ballare dentro quella favola tra nani e folletti, di lei impalpabile che oscillava leggera immaginandosi ancora con le scarpette da ballo di un tenue rosa di stoffa di raso.

Lui la baciava ed erano baci al sapore di rossetto e saliva dolciastra, ed erano palpate di fianchi e sedere, che facevano buon sangue, grasso e voglioso, ed erano gemiti vogliosi, che nessuno dei due avrebbe soffocato, nonostante l’ora tarda, nonostante i gerarchi, la polizia morale, i divieti e i permessi.

Lei ad occhi chiusi avrebbe disegnato il suo profilo perché conosceva a memoria quel viso, conosceva la sua anima, vuota fino a quando l’aveva incontrato su quel palco, davanti a quei gerarchi, e illuminata dalla luce dei suoi occhi l’aveva fatta bella e ci aveva fatto l’amore, e che amore, che ardore, e che passione, sempre, ogni giorno, anche separati diluendo i suoi orgasmi tra ricordi e presente, ad ogni alba al suo risveglio.

Certo sì, c’erano stati dei momenti in cui avevano pensato di camminare fianco a fianco, fuggire insieme e rifarsi una vita altrove, ma non era successo, perché entrambi sapevano benissimo che non ci sarebbe stata una vita diversa che avrebbe reso quell’amore ancora più felice. Erano invecchiati insieme, ricchi dei loro ritagli di tempo, delle loro foto segrete in bianco e nero, fusi di gioia e sazi di quell’amore che non sarebbe stato mai così intenso, nemmeno se il destino avesse loro offerto un’altra chance e avessero vissuto insieme.

Prima di uscire sarebbero scesi insieme avvolti in un sogno, lei piccola appoggiata a lui, lui grande che la teneva stretta, lei petalo e corolla, lui gambo e fusto. Poi si sarebbero salutati con un ultimo bacio e lo sguardo complice della padrona dell’albergo. Lei, cappello e veletta, calze nere e riga dietro, sarebbe uscita da una porta secondaria e avrebbe preso la corriera confondendosi tra le strade buie di quella città. Eh già, fuori da lì sarebbe tornata un’anonima signora e se per caso lo avesse incontrato si sarebbero dati del voi come due sconosciuti e nessuno mai avrebbe pensato che fossero due amanti.

L’uomo invece sarebbe sceso dalla scala principale e avrebbe prenotato la stessa stanza, lo stesso giorno della settimana e alla stessa ora. Poi respirando quell’aria carica di neve avrebbe camminato fino a casa, facendo una sosta nel suo solito bar e giocato alle carte per non dare sospetti.

Ma entrambi non si sarebbero sentiti distanti, lui avrebbe annusato le sue mani per sentire ancora uno strascico di profumo della sua donna e lei si sarebbe chiesta gioiosa quale fosse stato il momento più bello di quell’incontro. Insieme avrebbero conservato gelosamente quei ricordi per ritrovarsi sette giorni dopo nella loro alcova segreta di amanti clandestini al tempo del fascismo.










Questo racconto è opera di pura fantasia.
Nomi, personaggi e luoghi sono frutto
dell’immaginazione dell’autore e non sono da
considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con
fatti, scenari e persone è del tutto casuale.


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